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Riflessioni di uno scrittore che non è uno scrittore ma per sua sfortuna scrive e non sa che farsene (6)
La mia visione mi folgorava ad intermittenza. La mente era sezionata dalle chirurgiche lame del tempo che cadevano impietose delle mie proteste nelle mattinate invernali in cui il risveglio giungeva sempre quando i primi steli dei salici mi sfioravano i capelli. Fino ad allora non ricordavo dov'ero stato, in quali sconosciuti luoghi dell'inconscio avevo riposato. Poi apparivo, lungo il viale dagli alberi magri che scendeva verso la fermata del pullman, come un silenzioso punto in movimento che percorreva uno scenario vuoto e gelido, tentando di proteggere il viso dalla corrosività dell'aria glaciale della notte non ancora terminata.
Le prime forme di vita erano visibili nei pressi della fontana vicino alla fermata. Io le guardavo da lontano e già mi venivano le paranoie: saltavo di forza giù dal letto nei momenti più teneri del sonno per schivare il freddo del viale esposto a gigantesche folate, notturne per di più, e ritrovarmi ad aspettare insieme ai tristissimi uomini-azienda il pullman sostitutivo del treno che aveva il colore grigio scuro tipico delle gite, con una gigantesca scritta ciclamino stampata sulle fiancate.
Il popolo della fermata era composto di umani con giacche, maglioni e pantaloni a coste dai colori che ispiravano tentazioni suicide che si abbinavano con elegante mestizia ai loro volti, gente da una vita in attesa della pensione, impiegati che ogni mattina prendevano questo pullman e saltavano sul treno coincidenza per Bari appena giunti a Barletta. Tutti i giorni della settimana. Sempre alla stessa ora.
Me ne stavo ficcato nel mio piumino, in disparte, senza pensare neanche di chiedere ad uno di loro se fosse quello il pullman che ci avrebbe portati a Barletta. Quello sostitutivo del treno. Quello giusto insomma. Avrei preferito sbagliare a prenderlo piuttosto che chiedere.
Avevo l'inspiegabile panico di perdere i pezzi della mia anima in giro per il mondo, avevo il mio zaino sulle spalle, il telefonino se avessi avuto bisogno di chiamare, i miei orecchini, ma neanche la compagnia di me stesso mi rassicurava, mi sentivo solo come mai prima di allora. Tutto rievocava una sensazione di squallidi corridoi dai colori acidi, bambini decerebrati e cimiteri posti oltre un fiume.
Salito sul pullman, prendevo inevitabilmente ad ascoltare i discorsi degli uomini-azienda che, nonostante mi recludessi nelle ultime file, non potevo fare a meno di sentire, essendo loro gli unici altri oltre a me nel pullman. E avrei voluto che bruciasse come in un rogo per tutto il viaggio.
Iniziavano a parlare dell'azienda, di tutto il lavoro che avevano fatto il giorno precedente e di tutto quello che li aspettava appena sarebbero arrivati a Bari. Sorridevano come se avessero ormai smesso da tempo di pensare. Erano contenti del loro tempo che avevano dato in affitto perenne, erano contenti delle loro vite che si erano consumate lentamente tra quattro mura nei grigi inverni a fare chissà cosa nell'esasperante alienazione di far arricchire qualcuno più furbo o più fortunato di loro.
Una giorno erano tutti eccitati perché l'azienda aveva organizzato una gita tra colleghi. Un tipo dai capelli grigi sembrava tornato un adolescente alle prime gite scolastiche. Se avesse avuto la coda avrebbe scodinzolato felice accanto all'unica donna-azienda. Quel giorno, data l'euforia, si concessero tutta una serie di battute annunciate da piccoli tocchi sulla spalla e occhiolini. Si lanciarono nel campo dell'hard più estremo asserragliando la fortezza inarrivabile tra le cosce della finta vergine donna-azienda che nascondeva i sorrisi imbarazzandosi e allontanava tutti con il dorso della mano.
Col passare dei giorni mi scoprii ad essere sempre più attento ai loro discorsi. Alle volte mi ritrovavo con un pugno sotto il mento e il gomito appoggiato sullo schienale davanti finché qualcosa nella mia mente non mi ammoniva:
- Che fai?
- Io... io... non lo so. Anzi sì, ma è incredibile: li sto studiando - gli esperti la definivano etologia umana.
Perché mi comportavo da etologo?
La risposta era semplice: gli uomini-azienda lavoravano a un centinaio di chilometri lontano da casa, erano grigi e tristi e non sapevano fare le battute. La cosa più bella che era loro capitata negli ultimi mesi era stata una fantozziana gita aziendale per cui non stavano più nella pelle e tutti quanti avrebbero desiderato come regalo per il loro trecentocinquantesimo compleanno gli occhiali a raggi X per scoprire finalmente cosa si celava sotto le vesti della signorina Silvani.
Io ero in mezzo a loro. Cominciavo a dubitare che fossi della loro stessa specie. Dopotutto mi alzavo anch'io alla loro stessa ora per prendere lo stesso pullman e sbattermi a cento chilometri da casa. Chi mi garantiva che il mio futuro non lo stessi vedendo rappresentato in quelle facce buie?
Io. Studiandoli, imparavo tutto ciò che non dovevo essere nella vita con minuziosità scientifica. Non volevo diventare come loro. Non saprei dire perché, ma non volevo. Scoprire delle divergenze comportamentali tra me e loro mi faceva sentire distante e tranquillo, nei miei diciannove anni senza alcun futuro segnato. Come se il futuro non sarebbe arrivato mai. Un modo c'era: avrei dovuto bruciare tutto, ma non sapevo se ne avrei avuto la forza.
Cadevo dal pullman appena arrivati alla stazione di Barletta e prendevo la coincidenza osservando finalmente allontanarsi quelle strane forme di vita, mi prendevo il posto più solitario che ci fosse, ideale se era vuoto tutto il vagone, e correvo col treno fino a Bari, fissando lo sguardo fuori dal finestrino per scorgere il mare che di tanto in tanto si mostrava con tutto il suo istinto selvaggio a dispetto delle nostre morenti vite. Sognavo le spiagge e sognavo la ragazza che sapeva amarmi accanto, sognavo una situazione che mi fosse familiare, anche il semplice bere il latte del mattino, piuttosto che quell'ora di viaggio inutile e fredda.
Alla fine eravamo a Bari senza che riuscissi a spiegarmene il motivo. Mettevo passi velocissimi verso l'Ateneo e poi divoravo le scale, per ficcarmi in una classe quanto quella di un liceo in compagnia di altre duecento persone.
Adesso andavo all'università.
Lettere moderne per la precisione.
Prima ora di lezione: latino, aula cinque, quella grande quanto una di liceo. C'era gente davanti alla porta, gente accampata sotto la cattedra. Tutti fingevano di essere estremamente interessati a come Cicerone pronunciasse la C. Io avevo sonno.
Finita la lezione verso le nove meno dieci, avrei dovuto vagare per l'università o per Bari fino a mezzogiorno in cerca di qualcosa da fare in attesa della seconda ora di lezione. Cominciavo ad entrare e uscire dall'Università, fumavo, andavo al bagno, fumavo, andavo alla stazione cercando un treno per tornare a casa, fumavo, tornavo all'università, fumavo, facevo colazione per la seconda volta, fumavo, arrivavano le undici e un quarto e raggiungevo l'aula dove ci sarebbe stata la seconda lezione di italiano o inglese.
A volte cercavo di fare amicizia con qualcuno per vedere che cazzo fare in quel centinaio di chilometri di tempo tra una lezione e l'altra, ma veramente non potevo proprio. Avevano tutti facce diverse dalla mia, voci diverse, approcci diversi con le materie e con lo studio in generale, senza contare che le lezioni si facevano già più pallose e specifiche.
Finì che cominciavo a tornare a casa direttamente alle nove, dopo la prima ora di lezione, andandomene contro il flusso di gente che era appena arrivata dalla stazione. E sul treno scrivevo fantastiche poesie sul taccuino su cui avrei dovuto prendere appunti. Costruivo dei piccoli rifugi di carta e lì mi rintanavo, aspettando che il mondo imparasse a comprendermi e decidesse di lasciarmi perdere.
Decretai, in quei tempi, che nessun editore avrebbe più rivisto il mio nome steso sulla copertina sulla sua scrivania. Mi concentrai sullo scrivere. - Concentrati, concentrati - mi dicevo. Non guardavo mai al rigo appena scritto ma pensavo al successivo. Quando scrivevo.
Quando non scrivevo, mi soffermavo spesso ad inseguire i mondi immaginari che si svelavano agli occhi della mia mente e balzavo da un pianeta a un altro cercando di vedere quanta più roba possibile. Gli abissi tra i pianeti non mi facevano paura. Credevo che ci non sarei mai caduto. E così accadde per anni.
Dovunque fossi fisicamente, in realtà io ero oltre. Oltre la realtà. Non capivo bene le cose, le lasciavo indietro, non mi curavo mai di imparare dagli errori. Cercavo di bruciare il più in fretta possibile, come se non avessi tempo. I 21 anni si avvicinavano, dovevo fare prima di Brizzi, ma a ben pensarci io tanto un editore non l'avrei più contattato. Che cosa dovevo fare quindi?
Intuivo che dovevo allontanarmi, abbandonare quelle strade per il momento, dare sfogo alla mia creatività senza occuparmi di ciò che mi sarebbe successo. Non mi preoccupavo del futuro, in realtà non lo vedevo. Credevo che sarei morto presto e per questo mi davo fretta nello scrivere al massimo delle mie capacità che erano comunque scarse. Non perdevo un minuto. Pensavo: scrivere mi salverà.
Ogni qualvolta la vita mi stancava, come nei tristi giorni universitari, ricorrevo alle mie pagine, alle cose scritte nel passato, anche in quello più remoto. Avevo un zaino pieno degli originali di poesie e racconti e delle prime versioni stampate dei romanzi. Col tempo gli zaini erano diventati due. Fuggivo a leggere le mie pagine per ricordare a me stesso chi ero. Ne avevo bisogno continuamente perché avevo il terrore di dimenticarlo.
La stessa cosa facevo nel contesto letterario: passavo dalla poesia alla prosa ogni volta che qualcosa di scritto mi deludeva.
- Sono un poeta - mi dicevo, finché le poesie lette e rilette non si consumavano - No, no, sono uno scrittore - e correvo a rifugiarmi tra i romanzi e i racconti.
Alle volte abbandonavo la poesia per tessere gli scenari delle mie storie e quando cominciavano a sembrarmi stupidi, mi facevo più effimero e raffinato andando a ricamare versi.
- Nessuno mi può capire - pensavo - Nemmeno io.
In quel primo periodo universitario scrissi una serie di testi in versi che facevano meno schifo del solito.
Avendo ormai bandito gli editori e non avendo che pochi lettori tra i miei amici, tra cui la ragazza che amavo troppo assai, compresi che dovevo cercare delle nuove strade per diffondere il mio disarticolato verbo.
Mi lanciai su internet, lì si trovava la risposta a qualunque domanda. Cominciai a chiedere. Ma le risposte arrivarono molto lentamente. La mia connessione a 56k non era delle più veloci.
Un minimo di coerenza. Presentarsi come un poeta. Rivoluzionario. Anzi no. Più facile sarebbe stato colpire con frasi ad effetto stese in struggenti poesie d'amore.
Mmm.
Sembrava avessi un enorme rotolo di carta bianca su cui poter scrivere esattamente quello che volevo, messo in bella vista per tutti gli utenti internettiani che sarebbero passati da LetterArea, il primo sito che trovai e che mi sembrava ben fatto. Sì, però un minimo di coerenza, non come al solito.
Decisi semplicemente di pubblicare le ultime cose che avevo scritto. Erano tremendamente ben fatte, riguardavano il mio primo periodo universitario, la riluttanza all'essere erudito da qualche borioso professore mummificato, la voglia di riprendere le vie delle mie terrazze solitarie, dei miei campi aperti. Bene bene. Pubblicai il tutto e stetti a guardare, ma non succedeva niente. Mi annoiai nell'attesa, sbadigliai. Andai a cenare.
Nei giorni successivi arrivò il primo commento. Era positivo. Era dello stesso curatore del sito. Mi piacque, decisi di pubblicare ancora. Pubblicai ancora, ma la poesia non era particolarmente seguita. Decisi di scrivere un racconto, in alternativa avevo solo romanzi, ma di romanzi non volevo più sentire parlare. E poi erano troppo lunghi per essere seguiti in rete.
Scrissi il racconto in un pomeriggio, lo inviai. Si chiamava La passeggiata e non era il massimo, però poteva andare.
Il giorno seguente fioccarono i commenti. Due, tre, quattro. Mi fregai le mani e andai a leggerli, ma c'era qualcosa che non andava: erano negativi.
Mi dissi - Fermo, fermo, rileggi bene, magari oggi sei un po' dislessico -. Lessi ancora. Erano sempre negativi. Mi guardai attorno.
Andai a cercare tutti i personaggi che mi avevano commentato e lessi la loro roba. Faceva un po' cacare. Glielo feci notare.
Pubblicai ancora pensando - Adesso li ho sistemati - ma sembrava non ci fosse altra gente a parte quei quattro ammazzasogni. Tornarono alla carica e mi affossarono di botte letterarie. Pensai se pubblicare ancora, nel frattempo non avevo niente di nuovo, scelsi tra la roba vecchia.
La cosa cominciò ad infastidirmi: stavolta zero commenti. Decisi che se tutto doveva essere così patetico, allora sarebbe stato meglio non pubblicare e così dopo tre testi abbandonai il sito, pensai che tanto ce n'erano altri e andai a cercarmeli.
Finii su Liberodiscrivere, ripubblicai gli stessi testi per vedere se qui qualcuno ne capisse di più, di poesia e racconti, ma dopo il primo commento positivo, ripresero a tartassarmi nuovamente. Quello che si difendevano era che non avevo stile, non seguivo la metrica eccetera eccetera. Il commento positivo fu - Mi spiace, ma devo dirtelo: questa per me non è poesia -. La positività stava nel fatto che gli dispiaceva.
Mi alterai alquanto e andai a trovare anche questi altri personaggi, lessi la loro roba. Faceva cacare. Glielo feci notare. E si permettevano di fare tanto i sofisticati con la roba altrui? Come funzionava?
Il giorno dopo nella mia casella di posta c'era un messaggio. Anonimo. Di un ragazzo che aveva letto una mia poesia che si chiamava Serenità del non capirsi. Era una lettera e diceva che ero riuscito a rendere perfettamente quello che lui aveva sempre provato. Mi ringraziava per la poesia. L'aveva chiamata proprio così. Mi incitava a continuare a scrivere. Più che il commento mi piacque il fatto che il messaggio era stato spedito alla mia casella di posta, il che rese tutto più intimo tra me e lui, tra me e il primo lettore sconosciuto che mi aveva compreso. Fui così contento che decisi che Serenità del non capirsi fosse la mia più bella poesia e che io non volevo più essere uno scrittore, ma un poeta. E gli altri non potevano capire.
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