racconti » Racconti sulla natura » Vercingetorige
Vercingetorige
Vercingetorige
Vercingetorige manifestò la sua presenza in modo subdolo, silenzioso e del tutto indifferente, secondo il costume di quelli della sua razza, cosicché non ci si può render conto da quanto tempo ci fanno onore delle loro visite se non quando hanno deciso che la nostra casa è di loro gradimento e val la pena d'insediarvisi stabilmente.
Comparvero, dapprima, dei minuscoli granellini neri in un angolino tra i più nascosti tali da far pensare a un segnale di progressivo disfacimento della casa; tuttavia essi erano troppo piccoli e ad un attento e ravvicinato esame non parevano contenere sostanze che potessero essere ragionevolmente appartenute ad un muro, seppur in stato di disgregazione costante.
Successivamente, e prima che si fosse trovata una spiegazione plausibile ai granellini neri, si manifestarono curiose deformazioni lungo i bordi della credenza, piccole cavità, sgraffiature, quasi minuscole erosioni che furono, di volta in volta, imputate ai tarli, all'usura e ai detersivi, persino all'imperizia e all'inettitudine delle donne di casa, cosa questa che provocò tonanti battibecchi, ma non alla presenza di un membro della nutrita specie di Vercingetorige.
Fu stabilito di cambiare il senso di marcia dell'intero sistema pulente, il tipo di detersivo e persino la credenza; non si riuscì a cambiare le donne di casa, né a modificare il loro grado di perizia nettante, né a renderlo totalmente innocuo, così che non si fu mai certi d'aver fatto le cose con scrupolo e ci si aspettò, da un momento all'altro, la comparsa di ulteriori segni del proprio ignavo agire.
E i segni comparvero, in forma di oscure avvisaglie più che mai indecifrabili; circostanze, apparenze, sgattaiolii, visto non visto, m'era parso, residui, sgraffignature di avanzi incustoditi, rumorini, crepitii, sfrigolii, scricchiolii, chi sarà stato? e la bizzarra metamorfosi di Cesare, il vecchio soriano sornione e gabbamondo che da qualche tempo aveva preso a dormire con un sol occhio e a intraprendere assidue e diligenti peregrinazioni notturne nell'hinterland gastronomico.
Tutto restò sospeso nel vago, nell'incredulità e nel sospetto infondato; si giunse persino a incolparsi l'un l'altro di piantagrane e vaneggiamento.
Eppure gli indizi si moltiplicavano, le tracce erano ben visibili a chi voleva vederle, i rumorini di ignota sorgente attraversavano volentieri l'orecchio non tappato dal cuscino nella calma della notte, ma nessuno si decideva ad ammetterlo. Ad ammettere che sì, eravamo beffati da un ospite poco costumato, che ignorava, o fingeva di ignorare, le più elementari regole dell'ospitalità, essendosi ficcato in casa senza bussare, senza interpellare alcuno di noi sulle mutazioni dell'indice di gradimento generale che la sua presenza avrebbe provocato, che si cibava a tradimento dei nostri stessi cibi, che si abbeverava in qualche modo alle nostre stesse fonti senza che ne fossimo informati, che usava il nostro bagno, anzi, adattava tutta la casa a un bagno, nel modo più sconveniente possibile, che, in più, ci ripagava con la ben scellerata moneta dell'ingratitudine, sgraffignando le nostre vettovaglie e deturpando i nostri mobili e, cosa abominevole in sommo grado, si burlava nientemeno che di Cesare, il nostro capo delle guardie.
A questo punto fummo finalmente tutti d'accordo (e fu il grande merito di Vercingetorige l'averci condotti a tale insperato punto d' incrocio ) che bisognava fare qualcosa per liberarcene. Contravvenendo a tutte le regole dell'ospitalità e della fraterna accoglienza, che con tanta sollecitudine c'erano state imbeccate da prima che discernessimo un'acca da una cacca, assolutamente dovevamo liberarcene.
E lo avremmo fatto seguendo le sue stesse regole, cioè : anarchia e improvvisazioni, sfacciataggine e manomissioni.
Per cominciare facemmo finta di niente, come la cosa non ci riguardasse, come non ci fossimo accorti di lui e non ne fossimo affatto infastiditi, anzi come ne provassimo un provvidenziale diletto.
E questa fu la prima strategia. La seconda, ma solo in ordine di tempo, fu che nulla dovesse trapelare sulla circostanza, a costo di giocar una partita persa in partenza, a costo di dargliela vinta nel momento stesso di cominciare, assolutamente nulla.
Poiché nessuno sa cosa vuol dire avere in casa un sorcio e, insieme, uno che ne è terrorizzato, e organizzare le cose in modo da salvar capra e cavoli può rivelarsi un'impresa degna del pelide Achille.
L'uomo terrorizzato dai sorci è quanto di più sconcertante e ridicolo si possa immaginare, primo perché il sorcio è piccolo, secondo perché l'uomo è grande, terzo perché in nessun caso potrebbe verificarsi un caso di divoramento da parte del sorcio, quarto perché l'uomo non si è soffermato a pensare che forse il sorcio ha più paura di lui di quanta non ne abbia egli del sorcio.
Allora, fatte tutte queste considerazioni, si può ben immaginare come siano nati i drammi comici, e quanta ispirazione si possa spremere per la loro stesura dagli accadimenti quotidiani.
Concordammo di piazzare esche e trappole ad alto tradimento, un po' dappertutto ma specialmente nei territori più frequentati da Vercingetorige, vale a dire tutte le contrade che portano in dispensa, compresa quella che attraversava la stanza del nostro uomo terrorizzabile, in caso di sua assenza.
Dopodiché credemmo di abbandonarci al sonno dei giusti.
Come potemmo farlo dopo aver sì perfidamente ingannato una creatura di Dio, non si sa.
Ma una cosa è certa: Dio non doveva dimenticarla nella nostra casa.
Così ci rincuorammo a vicenda.
L'indomani scoprimmo d'aver ragione, e capimmo anche perché: il Creatore lasciò che il sorcio scorribandasse tra gli uomini perché esso ebbe in dono la medesima malizia.
Non solo non fu trovato stecchito, né intrappolato, quando aveva dilapidato tutte le succulente esche casearie, lasciando in cambio un po' d'escrementi bruni, una pera bucherellata e due olive a metà; inoltre erano scattate tutte le trappole risparmiandolo.
Avevamo un diavolo per capello, avvertimmo l'amarezza del beffeggiato, sentimmo la stizza dello sfottuto, provammo il tormento del tormentato.
Ma non avremmo permesso a un sorcetto di fregarci e restare impunito.
Non a quel sorcetto. Non nella nostra casa.
Triplicammo gli sforzi e le idee scellerate, raddoppiammo senza pietà le dosi di vivande funeste, cospargemmo di colla l'intero perimetro della casa e, finalmente, ce ne andammo a letto col cuore in pace.
Non avrebbe avuto scampo.
Fummo molestati tutta la notte da orde di topi grossi come gatti che, astiosi e spietati, vendicarono instancabili la tragica fine cui avevamo destinato il compagno, scorrazzando per ogni dove, saltandoci addosso, rosicando e sgretolando le nostre cose più care e riducendo il vecchio Cesare uno straccio di gatto, ché non pareva possibile fosse stato, fino a ieri, un gatto...
Al risveglio, però, tutto era stranamente in ordine, cioè ogni cosa somigliava in tutto e per tutto a se stessa, a come era sempre stata, non v'era più traccia della razzia notturna e scoprimmo, così, che era stato un sogno.
L'incubo, invece, ebbe inizio al nostro metter piede a terra. La colla s'era liquefatta, oppure qualcuno l'aveva disseminata in giro a sproposito, o il barattolo doveva essersi rovesciato, insomma doveva essere capitato un accidente alla colla, poiché le nostre pantofole erano divenute insolitamente ciacchettose ché pareva masticassero e si tiravano dietro dei filamenti lattiginosi e appiccicaticci, di nuovo le esche erano state dilapidate, le trappole messe fuori uso e, come se non bastasse, un'intera colonna di formiche e due lucertoline verdi ci avevano rimesso le penne.
Sembrava l'epilogo di una guerra, quando gli eserciti ormai in rotta non si risparmiano nessuna reciproca offensiva. Un'apocalisse di corpicini, ma non quello di Vercingetorige.
Dovevano aver assaggiato i saporiti manicaretti alle erbe tossiche che avevamo preparato con cura, e il gusto li aveva sconvolti, buttandoli pancia all'aria.
Mi ricordai che qualcuno mi aveva detto che il sorcio morto o, almeno, moribondo corre a nascondersi da qualche parte, come avesse vergogna, e assai difficilmente lo si può trovare stecchito dove capita capita...
Fu un vero sollievo. Sicuramente anche il nostro ospite la pensava così, e giaceva da qualche parte in temporaneo abbandono.
Rimettemmo tutto in ordine e, quella sera, ce ne andammo a letto come chi è scampato da un flagello di Dio, tranquilli e sereni come un cielo stellato.
Era solo l'occhio del ciclone.
Passarono i giorni, e ognuno aggiungeva una goccia di tranquillante ai nostri spiriti che avevano rischiato d'andare a carte quarantotto, tanto che alla fine ci sembrò il tutto esser stato abbastanza ridicolo e dannoso alla salute.
Poi, come sempre accade, non se ne parlò più. Nemmeno tra noi.
Ma successe un caso strano, uno di quei casi che sembrano ideati apposta non si sa da chi perché si possa venire a capo di altri casi lasciati in sospeso.
Una sera ero intenta a preparare una cena più decente del solito, perché m'ero ficcata in testa di guadagnare un po' di punti nella classifica culinaria domestica; ero sola in casa, avendo anticipato il rientro proprio per realizzare l'idea che m'ero ficcata in testa, non si sentiva volare una mosca, in compenso lo sfrigolio era piuttosto intenso e particolarmente aromatico, e già cominciavo a immaginarmi l'apoteosi cui sarei andata incontro...
Andavo avanti e indietro, aprivo chiudevo, a tratti canticchiavo, guardavo sorgere dal pentolame visioni fantastiche gonfie di tutte le mie bramosie gastronomiche...
A un tratto, non so ancora perché, mi ritrovai a fissare un angolino. Era un angolino vuoto, completamente privo di cose che potessero attirar l'attenzione, perciò non v'era alcun motivo perché io lo guardassi. Eppure lo guardai.
Mi sembrò che qualcosa mi osservasse, qualcosa come due puntolini neri e luccicanti, incredibilmente fissi e grossi pur nella loro dimensione a capocchia di spillo, qualcosa come due occhietti di topo.
Realizzai il tutto in meno di tre secondi, dopodiché sentii i capelli, e tutti gli altri peli incluse le sopracciglia, drizzarsi come pinnacoli gotici, e avvertii le facoltà sonore e motorie dare le dimissioni senza preavviso, e anche senza motivo, visto che io non avevo paura dei sorci.
O almeno avevo sempre creduto di non averne.
E che paura potevo avere di due occhietti neri montati sul muso infinitesimo di una testa ridottissima su un corpo piccolissimo?
Nessuna!
Mi guardò. Sfacciato! Come sapesse il flagello di Dio che gli avevo preparato...
E avrei voluto dirgli : guarda che non ce l'ho con te, è solo che hai una pessima reputazione, un'autentica taccia; sei il simbolo della sporcizia, dei morbi pestilenziali e della ribalderia, in più corri come un ladro, ti rintani come il peccato, mangi a ufo e vivi a tradimento... che cosa vuoi che faccia? Che ti prepari una cenetta?
Tutte queste cose mi attraversarono la mente come lampi, senza nemmeno darmi il tempo di supporle come vere o se, piuttosto, non fossero frutto di supposizioni congetturate da secoli di raccapriccio rosicatorio.
Fatto sta che il tutto trovò espressione nel trasalire della mia faccia e nello svettare repentino del mio equipaggiamento pilifero.
Nel frattempo lui era sparito, puf! dileguato, come non fosse mai apparso, come se quei due occhietti neri li avessi solo immaginati, sognati.
Ma, dati i precedenti e il fatto che non rammentassi d'aver mai patito le allucinazioni, dovetti convincermi dell'assoluta autenticità dell'accaduto.
Tuttavia non ne feci menzione con alcuno, riservandomi l'esclusiva del rinnovato grattacapo, ché troppo mi piaceva il ritrovato equilibrio statico dei nervi familiari; avrei trovato da sola il modo di cavarmi d'impiccio, anche se al momento non sapevo quale né come...
Fu allora che gli appioppai il nome di Vercingetorige, seguendo l'elementare analogia che in casi come questo il cervello predilige seguire agganciandosi alle cose sottomano e ai luoghi comuni.
Si dà il caso che avessimo in casa un gatto, che questo gatto avesse nome Cesare, che Cesare mise a morte Vercingetorige, che era il capo dei Galli, che il gatto è il nemico del topo e lo mette volentieri a morte, che il gatto si chiama Cesare, che è opportuno che il topo si chiami Vercingetorige, anche se non è il capo dei galli ma dei sorci.
Ecco, né più né meno, il prodotto delle mie argomentazioni.
Il fatto che ormai avesse un nome non significava che dovesse aspettarsi una miglioria del suo stato sociale né un avanzamento di grado... era solo un eccesso di zelo.
Ci avrebbe pensato Cesare, era fuor di dubbio. Era quello più adatto, l'unico che sapesse come trattare il soggetto perché preposto allo scopo dalla natura, da Dio stesso.
Anche se ormai vecchiotto e amante della scioperataggine, non avrebbe potuto esimersi, era giunto il momento di fare il suo dovere... dopo anni di disoccupazione (ammesso che nel frattempo non avesse scordato d'esser nato gatto).
Così da quella sera, e per tutte le successive almeno fino a quando non avesse ottemperato ai patti, gli spostai la stanza da letto in cucina e lì lo chiudevo a chiave fino all'indomani.
Naturalmente il tutto si svolgeva clandestinamente tra la tarda serata e il far del giorno.
Si andò avanti così per una settimana, o forse di più; accompagnavo Cesare la sera nell'arena e lo ritiravo al mattino. Lo ritiravo è la parola giusta, proprio come un fagotto, ché invariabilmente lo sorprendevo nel pieno dei suoi sogni gatteschi... ma di Vercingetorige nessuna traccia.
Ora, pur non essendoci fondamento alcuno per provare la sua presenza, ugualmente ne mancavano per sostenere la sua assenza.
E il dubbio prese a tormentarmi.
Che l'avesse beccato? Che lo avesse mangiato? Che lo avesse messo in fuga? Che il sorcio se la fosse data a gambe? Che avesse cambiato nascondiglio? Che si ignorassero a vicenda? Che le cose fossero rimaste invariate? Che fossero destinate a rimaner invariate?..
Così non si poteva andare avanti o, meglio, non potevo, ché nessuno sospettava i miei crucci; del resto non avrei saputo che pesci pigliare per forzare la mano agli eventi.
Ignoravo gli accadimenti notturni, anzi ignoravo addirittura se vi fossero o no accadimenti.
In questo clima di generale ristagno, decisi la mia estraneità al conflitto, lasciando al caso e alla natura il da farsi.
E fu così che nel bel mezzo di una tranquilla serata tra amici, in cui si discuteva sull'importanza della freddezza d'animo nelle situazioni più orripilanti, Vercingetorige consumò la sua casalinga epopea, attraversando la soglia del nostro sconcerto, oltrepassando il disorientamento dei nostri piedi in fuga, valicando gli urli insensati, e mandando al diavolo tutte le teorie.
Inseguito da Cesare, varcò il confine del balcone, e non se ne seppe più nulla.
123456
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- e... me lo immagino come un vero e proprio "principe del foro"... grazie, Michele
- Il mio si chiamava Giulio Cesare, ti dice niente?
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0