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Un quaderno
Noi crediamo di vivere la vita al presente, ma commettiamo un grave errore. La vita è costituita da tanti momenti, potremmo scattare delle foto per ognuno di loro, e poi costruirci un grande, enorme album fotografico.
Un album che poi potremmo sfogliare ogni volta che dovesse rendersi necessario, per piacere o per dovere.
Così funziona la nostra memoria, costituita da innumerevoli tasche ognuna delle quali conserva una o più immagini. Noi pensiamo di vivere la vita al presente, invece la viviamo al passato. Ogni istante della nostra vita va ad aumentare le dimensioni di quell'album. Molte volte, però, il semplice ricordo non basta, abbiamo bisogno di lasciare testimonianze tangibili che provino l'intensità, l'importanza di quel momento. Procediamo allora ad accumulare ricordi, un fiore, un oggetto qualsiasi, un libro, qualche volta un foglio di carta su cui abbiamo tracciato le sensazioni provate, le emozioni, gioia, dolore... paura.
Tempo fa, in un banco di un mercatino antiquario ho trovato tra gli oggetti in vendita, sommerso tra cartoline, buste affrancate del dopoguerra e fumetti di personaggi di cui ignoravo perfino l'esistenza, un vecchio quaderno a quadretti, di quelli con la copertina tutta nera tranne un riquadro bianco al centro. Probabilmente non era mai stato usato, sensazione peraltro confermata da una rapida ispezione al suo interno.
Sempre affascinato da simili oggetti, chiesi il prezzo e pagai i pochi euro richiesti. Mi stavo allontanando con il mio acquisto quando la mia attenzione venne richiamata dal venditore con una mano che impugnava un vecchio foglio ingiallito. In breve mi informò che il pezzo di carta era caduto dal quaderno che avevo appena acquistato, quindi mi apparteneva. Io provai a replicare che si stava sbagliando, ma il foglio era già nelle mie mani; il venditore era stato chiamato da possibili clienti che poco più in là stavano guardando in estatica ammirazione una lettera autografa palesemente artefatta del Re d'Italia V. Emanuele II.
Rimasi con quel foglio in mano per alcuni secondi, incerto se rimetterlo sul banco, poi decisi di infilarlo dentro il quaderno e di li a poco me ne scordai completamente, impegnato com'ero nella scrupolosa analisi di una bellissima maiolica di Casteldurante del settecento.
Il giorno dopo, tornato a casa dopo una giornata di lavoro particolarmente intensa, feci appena in tempo a salutare mia moglie mentre stava uscendo con una sua amica per degli acquisti. Mi stesi sul divano del soggiorno leggermente irritato, indeciso se accendere la tv o prendere un libro. Optai invece per una passeggiata, dato che fuori c'era ancora un bel sole ed il parco era a pochi passi. Prima di aprire la porta vidi il quaderno nero appoggiato sulla libreria e mi ricordai di quel foglio. Lo presi al volo ed uscii di casa.
Camminando lungo il viale che conduceva al parco, passai di fronte ad un caffè con dei tavolini esterni. Mi sedetti ed ordinai un analcolico.
Mentre stavo aspettando dedicai la mia curiosità all'esame del foglio che avevo messo in tasca. Era la porzione rimanente di una parte più grande, piegato in quattro, tagliato grossolanamente, di una carta molto sottile, giallastra. Una scrittura minuta lo riempiva per metà della sua ampiezza, e nel cercare di dispiegarlo mi accorsi di quanto i lembi fossero aderenti, quasi incollati. Cercando di usare la massima attenzione, riuscii ad aprire quel foglio che, probabilmente, non veniva letto da moltissimo tempo.
Era una lettera, una missiva scritta con una fitta ma chiara calligrafia femminile. Non dovetti penare molto per attribuire quello scritto ad un epoca particolare. In alto, a destra, c'era la data: 22 Maggio 1901.
" Amatissimo marito mio, questa è la quarta e temo ultima lettera che vi scrivo da quando voi decideste di farmi ricoverare presso questo ospizio. Quando venite a farmi visita, la domenica pomeriggio, mi trovate sempre profondamente addormentata. Non possiamo vederci mai, tanto meno parlarci; questo rende il mio soggiorno presso questo orribile posto ancora più difficile da sopportare di quanto già non lo sia. Giuseppe, potessi almeno avere il conforto di una vostra parola, di un vostro sorriso, di un vostro bacio. In questo tetro ospedale anche le mura piangono, per le orribili nefandezze che osano compiere sulle malcapitate persone qui ricoverate. La notte vengono delle infermiere dall'aria così cupa ed oscura che incutono terrore solo a guardarle. Voi non sapete che cosa sono capaci di fare con quei loro orribili strumenti, con quelle loro luride mani.
Ho paura, Giuseppe mio, ho paura di non rivedervi più. La prossima volta che verrete a recarmi visita, se, come penso accadrà dormirò, sarà a causa dei barbiturici che sono costretta ad ingoiare per impedirmi di parlarvi, e credo che entro breve toccherà anche a me la triste sorte già capitata a quelle povere disgraziate. Non credete ad una sola delle loro parole, portatemi via da qui, vi supplico, vi scongiuro, vi imploro."
La lettera recava la firma di Vittoria Ghistolfi in Malaspina.
Quel nome mi fece trasalire. Palazzo Ghistolfi era la dimora nobiliare più importante della città, tuttora abitazione principale degli eredi della casata.
Proprio in quel momento mi portarono un bicchiere pieno di un liquido giallastro, che bevvi immediatamente. Subito dopo pagai e me ne andai verso casa, rinunciando alla passeggiata nel parco. In bocca conservavo un sapore amaro, più per quello che avevo letto che per ciò che avevo bevuto.
Arrivai in poco tempo. Non sapevo cosa fare, visto che non potevo certo sporgere denuncia per degli avvenimenti probabilmente frutto della fantasia di una mente malata, accaduti un secolo prima. Decisi infine di telefonare ad una mia amica, professoressa di italiano alle scuole medie, insigne conoscitrice della storia cittadina.
- Pronto!? -
- Ciao Giovanna, sono Alberto! -
- Oh carissimo, come stai? Quant'è che non ci vediamo! -
- Pensavo proprio di venire da te, domani, se non disturbo. -
- Oh, ma domani non posso, sono impegnata tutto il giorno, mi dispiace! Ma possiamo vederci dopodomani, se per te va bene. -
- Si, certo, certo. È che sono entrato in possesso di uno scritto autografo della marchesa Ghistolfi, ed allora...-
- Ghistolfi!? Che nome? -
- Vittoria Ghistolfi in Malaspina -
- ... -
- Giovanna? -
- Vieni domani mattina, alle nove. -
Il clic della linea mi informò che aveva riagganciato. Il giorno dopo avevo una serie di appuntamenti di lavoro; decisi comunque di andare da Giovanna, ne avrei spostato qualcuno.
Raggiunsi l'appartamento di Giovanna con dieci minuti di ritardo. Quando mi aprì la trovai già completamente immersa nelle sue ricerche, il tavolo del soggiorno ricoperto da ogni genere di libri. Quarantenne, alta, castana, formosa, Giovanna aveva tutto quello che serve per rendere una donna attraente agli occhi di un uomo. Io la conoscevo da una decina di anni, e sebbene fedele a mia moglie, ne subivo da allora il fascino, senza purtroppo avere nessuna speranza. A Giovanna gli uomini non interessavano. "Il sesso" mi disse una volta "è un mezzo usato da voi uomini per sfogare le vostre frustrazioni credendo in tal modo di ottenere la sottomissione della donna, ma non vi accorgete che, ormai, siete assolutamente rimpiazzabili." Da chi o da cosa è una curiosità che tenni per me, non avendo il coraggio di proseguire il discorso.
- Ciao Alberto!-
mi disse, salutandomi con un bacio, accrescendo a dismisura il mio rammarico. Mi guardava con la stessa aria con cui fissava i suoi studenti quando, in vena di interrogare, contemplava la vasta platea di visi preoccupati. Aveva però gli occhi cerchiati, segno di una notte passata in piedi.
- Allora? -
- Cosa!? -
- Il foglio. -
Le porsi immediatamente la lettera. Nel prenderla la sua espressione mutò leggermente, accennando una leggera apprensione. Si sedette ed incominciò a leggerla. Io, nel frattempo, andai in cucina. Mentre la moka andava saturando l'ambiente del profumo intenso del caffè appena preparato, sentii Giovanna chiamarmi. Riempii due tazzine e ritornai in soggiorno.
- Ah, bravo, ci voleva proprio!-
- Niente zucchero, vero? -
- No, amaro, come la vita. -
Mentre stavamo assumendo la nostra dose quotidiana di caffeina la osservavo cercando di capire le sue reazioni dopo la lettura di quello scritto. Scrutare una sfinge avrebbe dato più soddisfazione. Intuendo la mia curiosità, dopo aver spento l'ennesima sigaretta sopra un cumulo di mozziconi che il portacenere non era ormai più in grado di contenere, decise infine di parlare.
- Dunque, prima di tutti una premessa. La prematura scomparsa della marchesa Vittoria Ghistolfi, all'epoca, fece molto scalpore ed i giornali ne palarono a lungo, ma ben presto la vicenda venne dimenticata, almeno ufficialmente. Sì, perché se da un lato le autorità avvalorarono la tesi di una morte causata da tubercolosi, motivo per cui venne a lungo ricoverata in una clinica specializzata, successivamente iniziò a diffondersi una versione ben diversa dei fatti. Si parlò, con sempre più insistenza, di suicidio, causa la relazione clandestina del marito, conte Giuseppe Malaspina, con un'altra donna. Ma qui usciamo dalla storia, ed entriamo nel regno dei pettegolezzi. E questa è una strada impervia da seguire, soprattutto dopo tutto questo tempo. -
Finì il suo discorso con un tono deciso, come se volesse concludere un discorso. Mi affrettai a riaprirlo:
- Questa la premessa, bene. Ma ora, con questa lettera, cambia tutto, no!? -
- No Alberto, non cambia niente. Voglio dire potrà servire per avvalorare i nostri discorsi, nulla più. Del resto non abbiamo nessuna prova che questo scritto sia autentico, e certo non possiamo tentare una perizia calligrafica dopo tutto questo tempo. -
- Dunque vuoi dire che...-
- Che questa lettera è solo un pezzo di carta, scritto chissà da chi e per quale motivo. -
Troncò in questa maniera il discorso. Conoscendola bene sapevo che insistere non sarebbe servito a niente. Iniziò a riordinare il tavolo, riposizionando i libri al loro posto negli scaffali della libreria. Io, però, non ero per nulla convinto di quella affrettata conclusione, e manifestavo con evidenza la mia contrarietà. Tentai una sortita.
- L'esperta sei tu Giovanna, faremo come vuoi. Però non mi trattare da
stupido, va bene? Appena hai appreso la notizia, ieri sera, hai rovesciato su
questo tavolo tutti i libri e documenti in tuo possesso riportanti notizie su
quella povera sventurata, trascorrendo l'intera nottata nella loro lettura. O forse
mi sto sbagliando? -
- È per via di un forte mal di testa. -
Rispose guardandomi con aria di complicità, come se volesse dirmi che avevo ragione, ma che non poteva dirmi niente.
- Ho udito molte volte una donna usare questo argomento, mai però per negarmi una notizia! -
Non raccolse la provocazione.
Mi accompagnò alla porta e al momento del commiato mi disse che comunque mi avrebbe avvertito nel caso di novità.
- Riguardati! - Le dissi mentre con la mano le facevo una carezza sulla guancia.
- Anche tu! - Mi rispose, mentre con la sua mano toglieva la mia dal proprio
volto. Nei suoi movimenti, però, notai un attimo di esitazione, come se quel mio gesto affettuoso non le dispiacesse più di tanto.
Da quel giorno passarono un paio di settimane, ed io mi ero ormai dimenticato della vicenda, quando una mattina, mentre ero al lavoro mi giunse una strana telefonata.
Eravamo in riunione da circa un'ora, stavamo discutendo di questioni eminentemente tecniche che esulavano dalle mie competenze, pertanto la mia attenzione era vicino allo zero, mentre ero alla ricerca di una scusa qualsiasi per allontanami, sentii la vibrazione del cellulare, nella tasca interna della giacca. Normalmente avrei ignorato quel segnale, ma in quel momento capitò a proposito. Scrutai il display del telefono, vidi un numero sconosciuto, mi alzai in piedi dicendo ai miei collaboratori di proseguire da soli ed uscii dalla sala.
- Sì? -
- Carlini Alberto? -
- Sì, chi è che... -
- Un momento. -
Aspettai al telefono una decina di secondi, leggermente irritato da quella procedura perentoria.
- Carlini Alberto? -
- Sì, sono sempre io. Ma chi...-
- Commissariato di Polizia -
Mi allarmai subito. Risposi concitatamente.
- È successo qualcosa? -
- Senta, dovrebbe venire subito da noi, -
A quel punto mi preoccupai seriamente.
- Mi dica qualcosa, perché devo venire da voi! -
- Pronto? Sono l'ispettore De Paoli, non si preoccupi dottor Carlini, nulla di
grave. Il suo numero ci è stato indicato da una persona. Lei conosce Santini
Giovanna? -
- Giovanna? Certo, è una mia amica. Che le è successo!? -
- Niente di grave. Ci raggiunga prima possibile, prego. -
Rimasi per un attimo con il telefono in mano, incapace di dare un senso a quella telefonata. Poi, con decisone, avvertii la segretaria del mio bisogno di allontanarmi e mi recai sollecitamente in commissariato.
Arrivato al posto di polizia chiesi dell'Ispettore De Paoli; mi risposero che si era dovuto assentare per questioni urgenti, e mi accompagnarono dalla collega che lo sostituiva momentaneamente.
- Buongiorno signor Carlini, si sieda pure. -
- Buongiorno Ispettrice, vorrei... -
- Ispettore Daniela Bonelli, prego. -
- Sì, scusi. Dicevo vorrei vedere la signora... -
- È di là, nella stanza accanto. Non si preoccupi, la vedrà tra poco. Prima le vorrei porre alcune domande. -
- A me? E perché, che ho fatto? -
- Lei conosce bene la signora Giovanna Santini? -
- Sì, siamo amici da circa dieci anni. -
L'Ispettrice mi guardò freddamente senza parlare. Il mio nervosismo, già accentuato, si manifestò con un leggero tremolio della mani.
- Ma che problema c'è, che cosa...-
- Le risulta che conducesse una vita tranquilla, regolare? -
- Senta, questo interrogatorio è ridicolo, non intendo proseguire oltre se non alla presenza del mio avvocato! -
- Un avvocato!? E perché? Guardi che lei non è accusato di nulla, e le domande che le sto ponendo sono rivolte solo ed unicamente al fine di poter aiutare la signora Santini! -
La poliziotta si alzò in piedi per avvicinarsi ad una parete della stanza dove era collocato uno sportello di legno di ampie dimensioni. Ne fece scorrere lateralmente le ante, non prima di aver spento la luce.
In un piccolo locale senza finestre né mobili se non un piccolo tavolo, c'era Giovanna, seduta di fronte ad un uomo in uniforme che le stava parlando.
Non sembrava lei. Il volto attonito, le mani tremanti, (come le mie pensai), non aveva nulla della sua abituale sicurezza.
Mi avvicinai al vetro. Giovanna si voltò verso la mia direzione accennando un sorriso.
Istintivamente feci un saluto con la mano, ma l'Ispettore mi disse che non poteva vedermi, sapeva solo che dietro lo specchio qualcuno la stava osservando.
Richiuse le ante, riaccese le luci, si sedette. Dopo avermi guardato a lungo in silenzio, iniziò a parlare.
- L'abbiamo trovata alle sei di questa mattina sulla statale, vicino al raccordo
dell'autostrada. Siamo intervenuti a seguito della segnalazione di varie persone
che l'hanno vista barcollare lungo la strada. Era in stato confusionale,
infreddolita e l'unica cosa che ha detto, finora, è il suo nome ed il numero del
suo cellulare. -
- È vostra abitudine interrogare come fossero criminali le persone che
rintracciate sui bordi della strada? -
- No, è nostra abitudine pensare prima a curarle e rifocillarle. -
La poliziotta mostrava di essere a suo agio, mentre io stavo perdendo ogni punto di riferimento.
Il mio nervosismo, se possibile, aumentava ancora.
- Si può sapere, allora per l'amor di Dio, perché la state trattando in questo
modo? -
- C'è stato un omicidio, questa notte. Hanno ucciso il professor Roversi, che abitava a circa un chilometro dal luogo in cui è stata rintracciata la sua amica. -
- E allora? -
- Abbiamo trovato impronte digitali e tracce di sangue in abbondanza sul luogo del delitto. Appartengono alla signora Santini. -
Il suono della voce dell'Ispettore non si spense subito, ma continuò a risuonare nella mia testa a lungo. Cercavo di parlare, di dire qualcosa, ma l'unica cosa che mi uscì dalla bocca fu uno scontato commento sulla presenza di un errore.
- Nessun errore. Ma venga con me, la accompagno dalla sua amica. -
Entrammo nella piccola stanza. Giovanna, quando mi vide fece un gesto con la testa appena percettibile, ma i suoi occhi mi dissero che lei era pronta a combattere.
Senza parlare le presi le mani e le strinsi forte tra le mie.. Poi, vedendo i due poliziotti confabulare in un angolo, richiamai la loro attenzione.
- Senta, vorrei parlare con lei, da solo! -
- Non è possibile, mi dispiace. - rispose l'uomo in divisa.
- Lascia perdere, Alberto, sono pronta a rispondere alle loro domande. - disse
Giovanna, rivolgendo successivamente lo sguardo in direzione della poliziotta.
L'ispettore Bonelli si sedette di fronte a Giovanna con lenti e studiati movimenti, agitò i lunghi capelli neri, mi guardò un attimo come per tranquillizzarmi, poi rivolse lo sguardo verso Giovanna, che la stava guardando affascinata.
- Lei conosceva il professor Roversi? -
- Sì -
- Da quanto? -
- Da circa due settimane. -
- Roversi era un medico illustre. Lo frequentava per motivi professionali? -
- Si, ma non per via della sua professione, ma della mia. -
- Si spieghi meglio. -
- Sono laureata in letteratura, insegno alla scuola media e mi occupo di storia. In questo periodo sto effettuando delle ricerche sulla clinica Villa Maria, di cui Roversi era il direttore. -
- Quante volte ha incontrato il professore, in questo periodo di tempo? -
- Tre volte, compresa questa notte. -
I due poliziotti si guardarono, poi l'ispettore mi fissò un attimo. Io abbassai lo sguardo.
- A che ora è andata a casa del professor Roversi? -
- Poco prima di mezzanotte. -
- Un'ora un po' insolita. -
- Avevo assolutamente bisogno di parlargli, ma era fuori per un congresso.
Tornato a casa verso le nove di ieri sera, acconsentì di vedermi solo dopo
Le mie estenuanti insistenze. -
- Quanto rimase dal professore? -
- Me ne sono andata questa mattina alle cinque. -
Un brivido attraversò il mio corpo.
- E quando lei se ne è andata, in che condizioni era Roversi? -
- Morto. -
- L'ha ucciso lei? -
- Sì! -
Ora ero preda di un tremore continuo, cominciando ad intravedere una mia responsabilità in quella assurda vicenda. I due poliziotti si guardarono, annuendo con il capo.
- Senta, la avverto che è suo diritto proseguire questo colloquio alla presenza del
suo avvocato. -
- No, niente avvocato! -
- Perché ha ucciso il professor Roversi? -
- Perché qualcuno doveva farlo. -
- Scusi, ma non capisco. Si spieghi meglio. -
Iniziò a quel punto la trasfigurazione del volto di Giovanna, che nello sforzo del ricordo di eventi così drammatici perse ogni traccia dell'antica risolutezza, rivelando tutta la sua fragilità.
- Nessuno di noi è sicuro. Loro sono lì che ci aspettano e proprio quando
abbiamo più bisogno di aiuto, ci agguantano e succhiano la nostra vita.
Nessuno di noi è sicuro. Nessuno. -
- Loro. Ma chi sono, loro!? -
Giovanna si girò verso di me, guardandomi con infinita tristezza.
- È tutto vero, sai Alberto? Il foglio della marchesa era autentico. Le uccidevano, ma prima facevano i loro sporchi esperimenti su quelle povere sventurate. È tutto scritto nei loro registri, ogni intervento minuziosamente descritto, illustrato, catalogato. Li ho trovati negli archivi, non pensavano che ci sarei riuscita. -
- Giovanna, aspetta, sei sconvolta, non sai quello che dici! -
Cercai di fermarla per non aggravare la sua posizione, ormai consapevole di essere stato la causa scatenante di quella triste vicenda. Ma Giovanna era risoluta.
- Tu Alberto, non sai quello che dici. Io non ho solo letto le carte, ma ho visto,
con questi occhi. Gli esperimenti continuano, non sono cessati mai! Più di un
secolo di orrori, centinaia, forse migliaia di vittime innocenti, colpevoli solo di
essere povere, e sole. La marchesa Ghistolfi venne uccisa solo perché
testimone delle loro nefandezze, ma la totalità delle cavie viene scelta tra la
povera gente. Un secolo fa gli orfanotrofi e le campagne erano il loro territorio
di caccia, oggi sostituito dal gran numero di clandestini a disposizione. Siamo
nelle loro mani, e dispongono di noi come meglio vogliono. -
Recitò le ultime parole come in trance, e pensai che forse la stanchezza la faceva sragionare. Poi ricominciò, più lucida di prima.
- Scusami, Alberto, se ti ho chiamato, avevo solo bisogno della tua compagnia, del tuo calore, ma mi rendo conto di averti coinvolto in un tragico epilogo, da cui non si esce. Sette inchieste, sai? Tante sono le volte in cui la polizia ha indagato su quella clinica, dalla sua apertura ad oggi, in quasi centoventi anni. Indovina chi fu il fondatore. Il nome Roversi ti dice nulla? L'esimio Professor Roversi, Bisnonno dell'attuale esimio. Sai perché in tutti questi anni non è emerso niente, dopo tante indagini? Soldi. Tanti soldi. Dispensati a tutti quelli che venivano coinvolti. Li hanno offerti anche a me. Non sai quanti. Ma io ho sputato sui loro soldi. Ma non tutti sono capaci, vero?-
Finì il discorso con quella domanda, guardando verso il pavimento. Poi iniziò a sollevare lo sguardo, mi guardò sorridendo, poi fissò con durezza l'Ispettore.
- Vero, Ispettore? O devo chiamarla in un altro modo? A proposito, che fine ha riservato al suo collega, De Paoli? Anche lui cominciava a sospettare, vero? Lo avevo informato di tutto, e mi diceva che qualcuno, dentro la polizia, era coinvolto. Lo ha ucciso lei, non hai ancora capito? -
Porse la domanda all'agente di polizia che udendo l'ultima parte del discorso di Giovanna si era allarmato, girandosi in continuazione a guardare l'ispettore Bonelli, che invece era immobile e fredda come una statua. Una statua con una pistola in mano. Una pistola con silenziatore. Udii una specie di soffio, e vidi l'agente afflosciarsi come un sacco vuoto, e poi cadere in terra.
- Ipotesi interessante, signora, ma che non la porterà da nessuna parte. Abbiamo già sistemato tutto, la incolperanno di quattro omicidi, ma è uguale, non si preoccupi. In fondo più del carcere a vita che cosa la può aspettare? -
Io, stupefatto dagli ultimi eventi, mi sorpresi intento a meditare sulle ultime parole dell'ispettore. Mi voltai verso di lei, vidi uno sguardo di ghiaccio.
Cercai allora gli occhi di Giovanna, che mi fissavano terrorizzati.
Udii di nuovo quella specie di soffio.
I miei occhi orano fissavano quelli impietriti dell'agente di polizia ucciso dall'ispettore, mentre avvertivo una sensazione di bagnato provenire dal ventre.
L'ultima cosa che ricordo è il volto di Giovanna, china su di me, che mi sta accarezzando i capelli, e le sue parole.
- Perdonami, amore mio. -
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