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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte (4)
Il problema dunque era che io non ero Bukowski e questa non era l'America, ma a me andava bene lo stesso. Avevo le mie strade assolate che finivano chissà dove, qualsiasi posto faceva parte del mondo e la magia esisteva dovunque. Io ero l'esteta. Dovevo coglierla e stenderla con mani gentili su fogli di carta. Ero nato per questo. Il problema non era la sensibilità, ma la gentilezza. Non mi sentivo gentile. A volte lo ero controvoglia. Spesso mi facevo pena per questo e finivo per prendermi per il culo e per ridermi addosso.
Riuscii a riprendere dopo un anno e mezzo il secondo libro. Si chiamava Schizzando nel vento. Era un tentativo di razos. Non mi ero impegnato molto, anche se avevo cercato di fare il bravo. I risultati sembrarono esserci quando rilessi per la prima volta il testo dall'inizio fino al punto in cui l'avevo lasciato. Era una storia. Una specie di storia d'amore. Il mio estremo tentativo di celebrare i complessi adolescenziali di un innamorato. Un po' come I dolori del giovane Werther, ma mi era mancata la spinta al suicidio.
Con noia estrema, ricollegai tutte le pagine con quelle da poco vergate e mi rilessi il testo dall'inizio alla fine. Come secondo libro mi parve buono e non mi sembrò che ci fosse persino nulla da modificare, come spesso succede a chi è convinto di essere un grande scrittore in quanto tale. Andai ad ubriacarmi e dimenticai tutto dopo aver cercato di parlare della cosa ai miei amici e dopo aver ricavato una scarsità di interesse e una voglia di sviare senza eguali. Soltanto uno, lo scrittore piccolo piccolo, decise di leggerlo e mi garantì che sarebbe potuto tranquillamente divenire un bestseller. Era fissato con il continuo successo di Stephen King. Per lui scrivere significava avere metodo: svegliarsi puntuali tutte le mattine e piazzarsi alla scrivania con la macchina da scrivere posta di fronte ad una finestra che dava su un cortile ordinato e stendere righe per tre ore la mattina e per tre ore il pomeriggio. Lui sognava di poter scrivere così. Nell'inconscio dovevo sognarlo anch'io, che scrivere potesse essere una cosa ordinata, fatta per elaborare un prodotto da poter vendere. La cosa così si faceva semplice e a suo modo accettabile. Invece io impazzivo con le parole, mi arrotolavo nella consecutio, cazzeggiavo con i condizionali e sbagliavo le scene con un ché di drammatico. Avrei voluto studiare, ma mi sembrava di non avere tempo per quello. Per di più mi annoiava e così apprendevo quello che potevo e non mi curavo della forma. La forma mi ingentiliva e io mi sentivo stupido. La questione era irrisolvibile. Tanto valeva lasciarla tale.
Quando decisi che le acque sembrassero buone per navigare sul natante del secondo libro, lo lanciai in mare.
Bari, Ladisa editore, toccata e fuga, contatto avvenuto per mezzo di un professore d'italiano della ragazza che amavo troppo assai. Mi presentai lì come mi vestivo tutti i giorni: con le scarpe rotte. Fummo accolti in una piccola stanza in cui c'erano libri gettati dappertutto, manoscritti, fogli svolazzanti, un ventilatore spento e pile di libri ancora. A terra, sulle scrivanie, sul davanzale dell'unica finestra dalle serrande di legno verdi con la vernice crepata dal sole. Al centro della stanza, l'uomo dagli occhiali da lettura scivolati fin sulla punta del naso mi osservava, con in mano l'ennesimo libro. Parlava e leggeva, leggeva e parlava. Non aveva tempo per staccarsi dalla lettura. Era un quasi vecchio.
Pensai: questo è il mio editore, quest'uomo è colui che crederà in me, che leggerà il mio testo e che annuirà per tutto il tempo, innamorandosi di quelle parole. Tirai fuori il manoscritto. Mi chiese se fosse una storia autobiografica ma non mi lasciò il tempo per rispondere. Mi strappò il manoscritto di mano e prese a leggerlo voracemente, cercando di assimilare l'intero testo in un lasso di tempo improponibile, scorrendo come un raggio laser gli occhi sulle parole, sulle righe, sulle pagine. Pareva che volesse valutarlo in quello stesso istante. Annuiva per tutto il tempo, diceva - Sì, sì -, nel frattempo parlava di tante cose, ma io guardavo i suoi occhi. Era il mio editore.
A un certo punto si fermò. Staccò gli occhi dal libro e mi fulminò e poi fulminò il libro e poi di nuovo me. Io fulminai la ragazza che amavo troppo assai che fulminò il professore che rifulminò lui.
- Qui vedo scritto... - si aggiustò gli occhiali da lettura, si allontanò dal testo - 'cazzo'.
Interessante, pensai: vedeva scritto cazzo.
Scrollò il capo in maniera abbastanza grave. Disse qualcosa del genere - Vabbe', adesso vediamo - e farfugliamenti vari. Gettò il manoscritto a caso su una delle infinite pile di libri. Riprese a parlare, ma non si capiva con chi. Io spensi il cervello, tutto divenne nero, soltanto un piccolo cazzettino si ingigantiva lentamente contornato da un buio impenetrabile. L'uomo al centro della stanza ci allungò un piccolo libro, l'ultimo che aveva pubblicato la casa editrice. Qualcuno lo raccolse. Prese a parlarne, ma non riuscivo ad interessarmi.
Andammo via nella Uno del professore. I suoi capelli svolazzavano lungo la tangenziale a duemila corsie percorsa da centinaia di auto che ci superavano da ogni lato. Ogni tanto lo guardavo con la coda dell'occhio e poi, dallo specchietto retrovisore, coglievo il viso felice della ragazza che amavo troppo assai. Aveva fatto qualcosa per me e me ne aveva reso grazia con grande umiltà e partecipazione. Nei loro occhi colti di sfuggita io cercavo soltanto la risposta ad una furiosa domanda che non smetteva di riproporsi alla mente: ma chi cazzo era quello?
Presi a sfogliare il testo che ci era stato regalato. Era la storia di una ragazza albanese con difficoltà ad integrarsi in una cittadina del sud Italia. Io avevo difficoltà a trattenere i conati nel leggerlo. O era il libro o era che il professore si sbilanciava troppo nelle curve. Sentivo distanze innominabili stendersi tra quello che avevo scritto io e quello che Ladisa editore reputava degno di pubblicazione. Gettai il libro da una parte e me ne stetti in silenzio per tutto il resto del viaggio.
Mesi dopo, il quasi vecchio mi richiamò dicendo che il testo andava completamente rivisto. Mi colse male: non ne avevo voglia. Non mi andava di perdere il mio tempo, la cosa di questi esperti di letteratura mi sembrava tutta una gran cazzata, preferivo di gran lunga starmene a girovagare sulla mia moto, immerso nel sole del sud. Pensai: mmm e decisi di non pensarci più.
Tempo dopo il professore mi mandò a chiedere se avessi cominciato a correggere il testo. Gli dissi che non sarei mai arrivato ai livelli della storia della ragazza albanese e che quindi non valeva la pena. Mi beccai tutte le sue sacrosante bestemmie, ma la realtà era che Ladisa non avrebbe scommesso un centesimo sul mio testo, soltanto cercava forse di onorare l'amicizia che aveva con il professore prestandomi attenzione e il mio silenzio non fece che toglierlo dall'imbarazzo. Certamente si fece grasse risate a sapere di essersi liberato di me e del mio manoscritto e tornò ai suoi testi seri concernenti impegnatissimi casi sociali. Dove non vedeva scritto cazzo, per intenderci.
Neanche un anno dopo, esplose la moda della allucinante finta poesia delle storie d'amore tra ragazzi. Patimenti adolescenziali, scritte sui muri, finta ribellione al mondo degli adulti e cazzate del genere. Per un periodo maturai l'insano sospetto che, chissà con quale trucchetto telepatico, qualcuno di quegli stronzi doveva avermi fregato l'idea perché alcune scene dei testi di cui sentivo parlare erano quasi identiche a quelle del mio. Poi mi diedi pace. Gli stronzi avevano fatto il boom e i soldi ed io continuavo a girovagare sulla mia moto nel torrido sole del sud. Non avevo bisogno di nient'altro.
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