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Riflessioni di uno scrittore con le scarpe rotte (5)

Vedi vedi vedi i grandi Scrittori. Loro sono dei. Vedi quelli che hanno avuto successo, quelli che hanno scosso l'opinione pubblica facendo convergere milioni e milioni di consensi/dissensi/critiche ed elogi sui propri testi. Vedi quelli che hanno fatto parlare di sé. Vedi quello che dicono, lascia stare quello che sono stati. Vedi come lo dicono. Vedi? Lo fanno ssssenza alcun dubbio in modo mmmmolto diverso da te. Qualunque cosa dicano o, meglio, scrivano. È così perché sennò non sarebbero definiti Scrittori. Tu invece, che cosa avresti dello Scrittore?
Fermo di fronte alla vetrina di una libreria nel centro commerciale dove eravamo, me ne stavo a dirmi queste terribili cose mentre osservavo le copertine dei libri in versione cartonata che quell'anno si erano aggiudicati il posto in prima fila. Dei grandi Scrittori di successo. E io non c'ero. Qualcuno si era dimenticato di far pubblicare i miei testi.
Avevo diciannove anni e stavo scrivendo il mio terzo libro. Di quelli grossi, voglio dire. La vetrina esponeva cinque libri con copertine bianche e lucide, splendide immagini sotto i grandi titoli a caratteri dorati con tanto di svolazzi di lettere. C'era il solito testo della saga sull'Egitto largo quanto un mattone, il solito giallo con le strisciate di sangue e un titolo di una banalità sconcertante, un'imitazione malriuscita del Libro Cuore che prometteva buonismo a profusione e altre cose simili.
Ognuno degli Scrittori aveva la sua fissa, per modo di dire. Composta dalle sue paranoie, da uno stile rigido e poco incline all'evoluzione, da una sequenza di personaggi squisitamente non interessanti e dal senso dell'ironia pari a zero. Tutto questo era stato definito da alcune grandi menti: genere letterario. Una cosa che io non conoscevo. Mi guardai indietro cercando nella mia storia qualcosa che potesse rappresentarsi come una mia caratteristica: una passione particolare per un certo tipo di storie oppure per una specifica civiltà del passato o del presente, un qualche oggetto di cui non avrei saputo fare a meno, una preferenza sul cibo o almeno un colore che mi piacesse di più degli altri. Non c'era niente. Nessuna passione era riuscita a coinvolgermi per più di qualche anno. Le mie costanti erano il cambiamento, l'evoluzione, il progredire e lo sperimentare. Roba che non faceva un genere e con cui non si poteva neppure stendere un piccolo racconto.
Ripensai a Ladisa e a quello che mi aveva detto nella sua stanza - Qui vedo scritto cazzo.
Adesso cominciavo a vederlo scritto anch'io.
Gli Scrittori avevano qualcosa che io non avevo e quel qualcosa era la capacità di interessare un pubblico. Di fare in modo che un lettore si aspettasse qualcosa dai loro scritti. E riuscivano anche ad appagare questi desideri della gente. Come? Non lo sapevo.
Tutti e cinque i testi dinanzi ai miei occhi sarebbero stati dimenticati da lì a qualche anno perché erano dei libri di merda in grado solo di stimolare una momentanea curiosità, perché rappresentavano la moda del momento. Ma sghignazzavano in vetta alle classifiche come se in quei mesi fossero ciò che di più interessante la letteratura fosse stata in grado di partorire dopo i lunghi travagli mentali degli autori. Qualcuno ci stava prendendo per il culo. Come facevano gli editori a non rendersene conto? E se lo sapevano, perché avevano accettato di produrre libri che non sarebbero rimasti alla storia e che sarebbero stati presto dimenticati?

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3 commenti:

  • Anonimo il 11/11/2011 16:49
    Scritto molto bene. Ironico quanto basta a far risaltare tutta la drammatica odierna realtà. Complimenti!
  • Stefano Saccinto il 11/11/2011 15:28
    Grazie. La nota ironica è ciò che mi rende orgoglioso.
  • Nunzio Campanelli il 11/11/2011 13:53
    Ottimo il tuo scritto. Reso con una nota ironica molto apprezzata.

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