racconti » Racconti brevi » Il desiderio di Lila
Il desiderio di Lila
Lila era una bambina nervosa. Gli occhi grandi a divorarle il viso, con le pupille sempre in moto come pesciolini che annaspano. La frangetta nera a nasconderle i pensieri. Pensieri piccoli, puntuti, lasciati sempre a metà.
La maestra aveva più volte chiamato i genitori, perché quella bambina non legava con gli altri, non seguiva le sue spiegazioni e ogni tanto chiedeva di andare in bagno e non tornava più.
Andava per campi, Lila. Camminava fuori dai sentieri, decapitando erbe e fiori con un lungo bastone, gettava rabbiosamente sassi piatti nel fiume, senza mai riuscire a farli rimbalzare, esplorava i dirupi, dove si diceva che ci fossero le tane delle volpi... Trovò una di quelle tane, un giorno, e lì eresse il suo tempio. Su un masso sporgente depose una latta d'olio vuota, sulla quale aveva appiccicato un'immagine della Madonna e ogni giorno aggiungeva qualcosa al suo altare: candele trafugate in parrocchia, pezzi di vetro colorato, sassi, persino rock-stars e divi del cinema ritagliati dai giornali e qualche caramella a cui rinunciava. Durante le sue fughe da scuola, correva alla sua tana e dopo aver abbellito l'altare si inginocchiava davanti alla Vergine, mettendo dei sassolini sotto le ginocchia. Faceva male, ma era una penitenza che la Dolce Signora avrebbe apprezzato. Perché Lila di una cosa era sicura: era una bambina cattiva.
Lila aveva una mamma distratta e un babbo che la voleva sempre con se', quando andava a spillare il vino in cantina. A Lila piaceva infilare il collo della bottiglia nel becco legnoso della botte, aspettare che il babbo aprisse il rubinetto e vedere il liquido color rubino spumeggiare nel vetro. Doveva stare molto attenta, e dire "Alt!" al momento giusto. Allora il padre chiudeva il rubinetto e le scompigliava i capelli. Una volta le aveva infilato una mano nello scollo del vestito, lungo la schiena e lei aveva rabbrividito di solletico. E riso forte, con la bocca storta.
Lila adorava suo padre. Comandava tutti, giù all'autorimessa e comandava pure la mamma, che non era mai pronta a servire in tavola quando lui tornava stanco dal lavoro. Lei non sapeva far altro che zappettare l'orto, leggere i fotoromanzi e andare in piazza a chiacchierare con la sua amica tabaccaia. A volte litigavano forte, il babbo e la mamma e volavano ceffoni, parolacce e urli. In quelle occasioni, Lila si chiudeva nella sua cameretta, metteva un disco dei Club Dogo e ci cantava sopra a squarciagola. Si fermava solo per chiedersi come mai suo padre avesse sposato una donna così stupida e insignificante.
Il 16 agosto era la festa di San Rocco, patrono del paese. Lila aveva un vestito nuovo, rosa con le spalline di nastro e la gonna che faceva la ruota. Alla messa grande delle dieci la mamma le aveva messo un velo bianco sulle spalle perché, diceva, a Gesù non piace vedere le spalle nude delle bambine. L'aveva odiata per quel velo. Perché nessuna delle sue compagne era costretta a portarlo? Perché ridevano di lei, o così le sembrava, voltandosi verso il suo banco e sussurrandosi qualcosa all'orecchio? La funzione era stata un supplizio. Per fortuna, alla fine della messa la mamma era corsa a casa a preparare il pranzo: come tutti gli anni sarebbero arrivate le due nonne, la zia Adele con lo zio Gino e il cugino Marco, e poi i Cassinelli, loro vicini di casa. Nell'attesa, lei e il babbo avevano fatto un giro sul borgo, addobbato di festoni e di bancarelle. Lì sì che aveva potuto esibire il suo vestito rosa! Il babbo le aveva anche concesso tre giri sulla giostra e comprato una collana e un braccialetto di cristalli cangianti, che quando ti muovevi mandavano bagliori in tutti i colori dell'arcobaleno.
Erano tutti un po' brilli alla fine del pranzo e la zia Adele, che aveva una passione per la musica sudamericana, aveva messo un disco e l'aveva incitata a ballare. Non s'era fatta pregare, Lila. Aveva imparato dalla TV a spostare il bacino avanti e indietro, a muovere le anche e a far vibrare le spalle.
Gli applausi degli adulti la eccitavano e ci dava dentro a muso duro, ubriaca di ritmo e di adrenalina. Cessata la musica, guardò il padre Lila, cercando la sua approvazione. E gli vide uno sguardo liquido, strano, che non gli aveva mai visto.
- Vieni Lila, è finito il vino - le disse.
In cantina, quella volta, il babbo s'aprì i pantaloni. Era agitato, ansimava come un treno, saettava gli occhi intorno, controllando l'entrata. Voleva scappare Lila. Ma lui no, la tratteneva, la accarezzava sotto il vestito rosa, la baciava.
- È un gioco, Lila... È un gelato... Fammi vedere come mangi il gelato.
Sapeva Lila ch'erano cose brutte quelle. E il fiato di suo padre le dava il voltastomaco.
- Ehi, voi due, dove siete finiti? - gridò qualcuno di sopra e il gioco s'interruppe.
- È il nostro segreto, Lila. Nessuno deve saperlo.
Da quel giorno, il babbo la trascinò in cantina ogni volta che la mamma non c'era. E Lila era spaccata in due, le prime volte. Perché il babbo aveva scelto lei, e non la mamma, perché quando la toccava sentiva qualcosa... qualcosa che non sapeva dire... perché era il loro gioco segreto. Ma poi l'aveva fatta distendere su un canapé sdrucito che c'era nel retro, accanto al lavatoio e lì aveva sentito un dolore acuto, lacerante, che sembrava si fossero aperte tutte le porte dell'inferno. E lei aveva gridato. E lui le aveva messo una mano sulla bocca. E l'aveva inchiodata su quel canapé che puzzava.
- Se parli ti ammazzo - le aveva detto. Non era più il suo babbo, il babbo adorato.
E lei era diventata una statua di sale. Anche quando lui le aveva asciugato il sangue che le colava sulle gambe. Anche quando l'aveva cullata tra le sue braccia sussurrandole - Sei il mio amore - Una statua di sale.
Lila era una bambina nervosa. Gli occhi grandi a divorarle il viso. La frangetta nera a nasconderle i pensieri. Pensieri neri come una notte senza luna. Pensieri sempre lasciati a metà.
A scuola ci andava di rado, perché aveva sempre la nausea e ogni tanto vomitava. E la mamma non faceva che rimproverarla d'aver mangiato delle schifezze. Ma poi andava in piazza a chiacchierare con la sua amica tabaccaia.
Nella sua tana di volpe, Lila aveva aggiunto i rovi. Se li strofinava addosso stringendo i denti e implorando il perdono della Dolce Signora. Le chiedeva di farla morire, sparire, sprofondare, perché era una bambina cattiva.
La maestra vide quei graffi, sommò le assenze e si insospettì. E mandò a casa un'assistente sociale. Giorno dopo giorno la verità venne a galla, anche se la mamma non poteva crederci e in un primo tempo le dette della bugiarda. Per Lila fu una lunga melliflua devastante tortura.
Fu mandata dalla nonna, portata al luna-park, sommersa di gelati e di attenzioni... Ma quando i carabinieri vennero a prendere il suo babbo per portarlo in galera, sentì che la colpa era sua e solo sua. E scappò nei campi. No, non andò dalla Dolce Signora, quella non aveva fatto niente per lei. Solo il diavolo poteva esaudire i suoi desideri. Gli avrebbe venduto l'anima e in cambio lui avrebbe cancellato tutto, l'avrebbe fatta tornare ai tempi belli, quelli dove il babbo era buono, la mamma leggeva i fotoromanzi e lei andava a scuola con lo zaino sulle spalle. Le avevano detto che camminando a ritroso era facile incontrarlo...
Lila ci provò. Volse le spalle alle alture e incominciò a contare i passi. Non era facile: le gambe vacillavano, ogni tanto perdeva l'equilibrio, ma non poteva voltarsi indietro. Forse doveva concentrarsi di più, pestare i piedi con forza, andare più veloce.
L'avrebbe sentito, sì, il diavolo arrivare al suo fianco. Aveva paura, ma la posta in gioco era troppo grande per smettere. Un altro passo e poi... il vuoto, il burrone. Un piccolo grido e poi un silenzio vasto, sospeso nello spazio azzurro.
Morire, sparire, sprofondare. Ancora una volta, la Dolce Signora aveva vinto sul diavolo. Aveva esaudito il desiderio di Lila.
123
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
1 recensioni:
Anonimo il 23/11/2011 12:57
Scritto benissimo, con equilibrio di emozioni forti, di domande senza risposte, di infanzia negata e qui di vita stessa negata. Struggente nella crudezza narrata con un filo di voce ma che diventa un urlo per chi legge.
Anonimo il 23/11/2011 12:37
commovente anche se molto forte questo tuo scritto cara verdiana... purtroppo esistono questi padri, che così non si dovrebbero chiamare, doviazia di particolari e nonostante il tema forte scorrevole sei sempre brava un abbraccio carla
Anonimo il 12/11/2011 07:35
Bello, forte, commovente, ben scritto come sempre. C'è anche della poesia in certi passaggi... una storia che lascia il segno nel lettore; almeno, a me lo ha lasciato. Una specie di storia di ordinaria follia: un padre amato che diventa tiranno... brava Verdiana, aspetto altre storie da te. ciaociao
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0