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Trimeri trocoici strambi
Sono daccapo a dodici.
Che razza di modo di dire, perché dopo il dodici si dovrebbe andare a capo?
Mi ripeto che l’energia è la mia.
Forse si riferisce al quadrante d’un orologio.
È mia! Gli angoli della mia bocca possono sfidare la forza di gravità quando voglio!
Già, dev’essere in rapporto col tempo, dopo mezzogiorno non può che tornare l’una. Meno male, ho una fame!
Riscaldo il forno a 180°C. Monto lo zucchero, le aste ricurve del frullino risucchiano avide il burro vincendone presto la durezza. Ora tirano fili cremosi in piccoli gorghi. Aggiungo l’uovo, il cointreau e rovescio la cioccolata fusa che espande, potente, le narici e si fa aroma nelle profondità della gola.
Setaccio la farina col cacao, col peperoncino, con il lievito e poco alla volta, in alternanza col latte, incorporo all’impasto di cioccolato…inforno.
Già, già, l’energia è la mia, ma dov’è ora, mentre aspetto una sua risposta?
Controllo sotto le scarpe…non c’è, forse è colata col cioccolato o magari sta cuocendo la torta mentre balla con le salamandre del forno che intravedo dietro al vetro, sotto la graticola. Se potessi non squagliarmi le raggiungerei volentieri.
Saltellano frenetiche dentro scarpe blu-metano e agitano le teste tirandosi dietro lunghi capelli rossi, qualcuna li ha biondi.
Sono le figlie gas-labili delle longilinee danzatrici dei falò. Anche loro conoscono Prometeo*, ma non lo reputano affatto un ladro. Nella danzante tradizione, mi ha svelato l’abitante d’uno zippo, si balla (la tradizione è tramandata appunto con i movimenti armonici di tutti i componenti del fuoco) che il popolo delle salamandre decise spontaneamente d’abitare la terra e volendo ringraziare il figlio di Giapeto, per avergli indicato la strada, portò in dono Pandora. Non avevano nessuna intenzione di menare seco sciagure e mali come del resto dimostra l’etimologia (*1).
Per la buon riuscita d’una offerta serve anche ottima disposizione d’animo nell’accogliere, sosteneva lo spiritello………………. Drrrrrriiiiiin!
Apro lo sportello e respiro il nembo di cacao caldo che si sprigiona. Fiotti di saliva s’impossessano delle mie facoltà volitive. Mi ustiono la lingua.
Chiamo Salmace: “Alloa ftai avvivando?”
Non capisce una parola per via della mia scottatura, è nel traffico e non crede di fare in tempo a raggiungermi per pranzo. Se posso aspettare passa nel primo pomeriggio.
Potrei: “Devo uscire, ti chiamo dopo”.
I genitori di Salmace, contrariamente a quanto si possa pensare, non sono studiosi né curiosi di mitologia greco-romana, neanche si può dire di loro che abbiano inclinazioni particolarmente eccentriche, decisero però di chiamare il frutto del loro furtivo amore come la fonte in cui avvenne il concepimento.
Era una notte calda e sotto il cielo di Bodrum soffiava un vento pacato e sabbioso.
Poco più in là, sotto le stelle dell’antica Alicarnasso, giungevano solo gli ultimi sprazzi del Libeccio, quelli più imprevedibili e capricciosi, intervallati da aria ferma e fitta.
Un giovane fotografo pensava alla sua arte.
- arte per chi non è capace di esprimere con arte, di esprimere se stesso. - pensava.
Vedeva scatti ovunque, la Fujica appesa al collo, senza coglierli.
Una raffica particolarmente energica ed arenosa gli fece tenere gli occhi strizzati sotto le mani. Quando li riaprì non erano più i suoi. Erano quelli di lei e la guardavano da vicino muoversi nell’acqua rovente della fonte di Salamace.
La torta scotta, l’attesa brucia …
M’infilo una tuta e corro.
Nel parco la luce invernale svela attraverso un’impercettibile nebbiolina, foglie pudiche dietro verdi brillanti di rugiada. Il freddo pizzica gli occhi e la gola.
Un piede saltella avanti all’altro, vogliono entrambi credere di saper volare e nel tentativo ammortizzano la spinta verso l’alto.
Testa vuota, bagnata di sudore.
La mia ombra lunga e appuntita sembra superare le altre solo in diagonale, ne passa una più corta, quella d’un tronco, una bucherellata di luce tra i rami. Scompare in una pozza e ne esce di testa senza bagnarsi. Cambia angolazione, perde la sua forma ad ogni fusione con le altre ombre e riemergendone subito si ricerca controllando i contorni. Si ritrova, con poca certezza di non aver perso o rubato macchie di luce. Si riabitua a se stessa neanche il tempo di dire: “Io”. Ma non sono in un mito e non c’è nessuna caverna, potrei forse guardare direttamente le statuette in luogo delle loro ombre proiettate (*2).
Alzo dunque lo sguardo da terra: corpi, abbastanza ignoranti per avvertire le proprie mancanze, ma non tanto ottusi da non sapere quel che gli manca e di cui hanno bisogno, corrono nella direzione opposta e nella mia stessa.
Ciò che li mette in moto è la bellezza. Galoppano in scarpe da footing senza corrispondere i propri anni: bianchi capelli veloci e corvine marionette ansimanti.
I miei alveoli iniziano a crepitare in modo inquietante. Malefiche sigarette!
L’aria punge sempre di più la gola fino alla trachea ma non posso inspirare solo col naso perché parzialmente intasato, probabilmente anche dal catrame che risale i bronchi. Se resist…ooooh! “Ma porca paletta!”
Sono incespicata su un ramo? O era un malefico Doppelgaenger(*3)?
“Non te la prendere”
La voce non ha bocca. Mi guardo intorno senza alzarmi dall’enorme pozzanghera che mi ricopre. Non c’è proprio nessuno. Posso continuare a imprecare: “Maledetto pantano!”
“Non te la prendere, che senso avrebbe? Che senso ha? Vuoi correre su un pianeta fatto di terra e bearti di non essere sporca di fango?”
Questa domanda ha quasi un senso …ma chi ha parlato?
“Chi parla?”
“Il mio nome è Agni”.
“Scusami ma proprio non ti vedo”.
“Vorresti farlo?”
Questo ha meno senso, parlare con nessuno.
“Farlo? Dici vederti? Credo di sì”.
“Eccomi”
I petali bianchi di un fiore cadono atterra formando lillipuziane scarpe. Il polline si disordina, si allunga, s’increspa intorno a lineamenti tondetti che sembrano prendere corpo e guance dall’addensarsi dell’aria.
Un cugnet (*4) da taschino mi fissa dal basso in alto.
“Chi sei?”
“Ti ho detto il mio nome, è quello della divinità vedica del fuoco”.
“Io sono…”
“Non dare nomi se prima non sai spiegarne il significato”
“Ma ogni cosa ha un nome”.
“Sei sicura? Questo come si chiama?”
Indica uno stagno straordinariamente limpido. Guardo meglio, indago i riflessi e il fondo…
Il cugnet ha ragione. Non ha nome o forse ne ha un miliardo.
Se ne frega, esiste, e mi basta e mi avanza e mi volteggia in trimeri trocoici strambi.
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- Veramente carinissima, brava.
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