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Vestirsi per mostrarsi o nascondersi
L'abbigliamento e la cucina sono forse le principali caratteristiche di un paese non globalizzato e rispecchiano la storia e cultura dello stesso che con la globalizzazione appunto si è persa.
In effetti nelle società profondamente gerarchiche i vestiti riflettevano il potere della persona che li indossava. Oggigiorno gli abiti hanno subito parecchi cambiamenti, soprattutto in seguito all'influenza occidentale globalizzante, ma nonostante tutto non è diminuita l'importanza dell'abito tradizionale in molte delle comunità indigene dove l'indumento rappresenta ancora una collocazione all'interno della comunità.
Gli universali, resistenti e pratici jeans si trovano oggi ovunque; come gli indumenti più eterogenei offerti anche dalle molteplici organizzazioni benefiche, sia europee sia americane, che da anni raccolgono e distribuiscono vestiario usato e talvolta assolutamente inadatto al clima, al particolare ambiente culturale e alla dignità dei destinatari.
Gli ornamenti e i gioielli di pura tradizione africana hanno però mantenuto, presso alcuni gruppi, una loro vitalità: merito di radicate consuetudini che forse si manterranno ancora a lungo nel tempo, a dispetto delle pressioni e lusinghe esercitate dai prodotti dell'economia consumistica.
In taluni paesi le donne, in modo diverso e nello stesso tempo simile, utilizzano dei semplici tagli di tessuto che abilmente avvolti intono al corpo costituiscono l'abito da indossare quotidianamente.
Per esempio in Guatemala gli uomini portano ancora oggi una faja (cintura di tessuto ricamato che serve a reggere i pantaloni) . Le donne portano una blusa di stoffa tessuta a mano o meglio e più spesso ricamata. Nelle cittadine e villaggi ( ad esempio Chichicastenango, cittadina molto particolare dalle strette viuzze piene di bancarelle colme di coloratissima merce) ci sono coloratissimi costumi indossati dai locali. In particolare le donne che indossano abiti multicolori ricamati a mano, di cotone pesante, per fare i quali impiegano molti mesi. Il ricamo è talmente fitto che trasforma il tessuto rendendolo più pesante e, pur in cotone, può riparare dalle temperature più fredde delle quote di circa 2000 mt dei villaggi. La gioia dei colori degli abiti e dei fiori che adornano le donne contrasta talvolta con i visi affaticati e tristi. In alcuni villaggi isolati tutte le donne sono stranamente vestite nello stesso modo, il tessuto di base è ad esempio bleu e i ricami sono tutti di fiori simili : tutto il villaggio assomiglia ad una gigantesca scolaresca in divisa.
Il modo di vestire può raccontare molto di una persona o della storia di una popolazione. Ciò è particolarmente vero in Tanzania dove gli abiti "parlano", o meglio comunicano messaggi inequivocabili. Gli abiti sono i tradizionali kanga, lunghi e colorati veli di cotone indossati dalle donne ed hanno la peculiarità di sfoggiare frasi e slogan in lingua kiswahili. Diventano così messaggi svolazzanti - stampati sui tessuti - che sono innumerevoli e talvolta curiosi: "L'amore è cieco" (Mpenzi hayana macho ya kuona), "Non mi vendico, ma non dimentico" (Na wala sitasahau sitalipiza), "Un vicino ti sta spiando" (Girani za pekepeke ndani hazinitoi), "La forza del povero è la resistenza fisica" (Ninguvu zake mtagi wa maskini).
Ricavo informazioni dalla rete e mi spiegano che la kanga è un rettangolo di tessuto in puro cotone, con stampe appariscenti e colori brillanti. La stoffa è alta circa un metro e mezzo e lunga quanto basta per coprirti dal collo al ginocchio o dal seno alle caviglie. La kanga viene spesso venduta in coppia.
I mariti regalano la kanga alle loro mogli, i bambini alle loro madri e le donne spesso la dividono a metà per darne una parte alla loro migliore amica. La kanga nacque sulle coste dell'Africa orientale verso la metà del XIX secolo. L'idea nacque quando, a Zanzibar, alcune giovani ed eleganti donne, anziché comprare sei fazzoletti di stoffa singolarmente, cominciarono a comprare la striscia intera per poi tagliarla secondo la lunghezza.
In questo modo potevano unire varie strisce di colori e disegni differenti, personalizzando così il proprio "vestito".
I disegni raffigurati sulla kanga si sono evoluti con il passare degli anni: da semplici "macchie" e bordi si è passati ad un'enorme varietà di motivi e colori.
A cominciare da questo secolo sono stati aggiunti, oltre ai complicati disegni, dei proverbi swahili. Inizialmente i detti, gli aforismi e gli slogan erano scritti in arabo, successivamente vennero tradotti in Kiswahili. Sui kanga si trovano messaggi d'amore, frasi augurali, aforismi, proverbi, persino annunci funebri. Il kanga viene usato anche per avvolgere comodamente i propri bambini sulla schiena. L'abito non viene scelto dalle donne in base alla fantasia o al tipo di cotone, quanto piuttosto alla "frase" che si trova impressa sul telo.
La diffusione dei "kanga parlanti" è cominciata una cinquantina di anni fa, quando le industrie tessili tanzaniane - in perenne concorrenza con quelle keniote - ebbero l'idea di rendere i vestiti delle donne, più accattivanti. Trasformarono i parei classici in lunghi teli bordati con delle frasi originali. Fu un successo clamoroso. Una moda contagiosa che ha saputo rinnovarsi nel tempo per conquistare le nuove generazioni. È una questione di stile, ma non solo: mentre i giovani europei inviano messaggi d'amore cifrati, via sms, col proprio cellulare, in Africa i sentimenti ce li si cuce addosso e li si indossa senza vergogna.
In Mozambico ho visto che è sufficiente un'unica pezza di tessuto che costituisce una sorta di gonna mentre in Tanzania l'abito è composto da due pezze di tessuto identico che compongono da un lato la gonna e dall'altro la parte superiore. Questi svolazzanti tessuti avvolgono le figure delle donne donando un aspetto estremamente elegante alla immagine, soprattutto in presenza di un poco di brezza oppure mentre si muovono in sintonia con i passi. Queste donne cambiano frequentemente i loro abiti e i variegati colori dei tessuti creano effetti cromatici che rimangono sicuramente impressi nella memoria.
I masai sono un popolo pittoresco di pastori che vivono negli spazi aperti della Great Rift Valley dell'Africa orientale. Stanziati nel Kenya e nella Tanzania, sono sopravvissuti a un'epoca passata e vivono più o meno come vivevano i loro antenati secoli fa. Noncuranti del passare del tempo, la loro vita è regolata dal levare e dal calare del sole e dal continuo mutare delle stagioni. I masai hanno un ottimo aspetto, sono alti e slanciati e con bei lineamenti. Il loro abbigliamento è estremamente pittoresco. Si avvolgono intorno al corpo snello drappi sgargianti rossi e blu. Le donne di solito si adornano con larghi collari piatti ornati di perline e fermacapelli multicolori. Attorno a braccia e caviglie portano massicce spirali di rame. Uomini e donne spesso si allungano i lobi degli orecchi modellandoli con pesanti orecchini e ornamenti di perline sono sempre presenti nel loro abbigliamento.
In canada sono andata in inverno ed è un viaggio bellissimo in mezzo alle nevi e al gelo. Lì pare che i giovani non abbiano mai freddo, in effetti avevo notato che quasi tutti indossano Jeans anche con temperature abbondantemente al di sotto dello zero, pur indossando invece tutti rigorosamente il cappello e i guanti e la cosa era strana.. Non mi spiegavo questa indifferenza al freddo solo parziale. Se invece vi recate in uno shopping center capirete il mistero. Sotto ai jeans indossano tutti delle calzamaglie che vengono vendute di pesi diversi fino a pesantissime e caldissime calzamaglie di lana merinos. Ne ho fatta una bella scorta che utilizzo in montagna e mi salva dalle temperature glaciali delle piste da sci nel mese di gennaio.
Io ho uno strano rapporto con l'abbigliamento. Gli abiti degli altri e i miei mi hanno sempre attratto per i loro segnali nascosti: ognuno con l'abbigliamento dà una rappresentazione di se' stesso. I miei ricordi sono sempre associati a un qualche tipo di abbigliamento, così la memoria cromatica dell'abito si collega indissolubilmente a ricordi di circostanze ed eventi importanti.
Ecco rivedo mia figlia che mi corre incontro quando la vado a trovare in occasione di un suo soggiorno in un campo estivo: era molto piccola, credo avesse intorno ai sette anni. Si era messa tutte le cose preferite e di maggiore effetto anche se non aveva affatto tenuto in considerazione l'aspetto terrificante che assumeva l'insieme policromo degli accostamenti, le righe della maglietta, i pallini dei pantaloncini, il colore flash del cappellino e a completare il quadro un paio di scarpe arancioni estremamente grandi. La vedo con la sua bocca di sorriso sdentato, orgogliosa della sua policromia mi viene incontro dolcissima e felice del nostro ritrovarsi dopo una settimana, forse il primo allontanamento dalla famiglia e la prima autonomia nella selezione degli abiti da indossare per una occasione importante.
Ancora con gli abiti si associa il ricordo delle tragedie, il mio maglioncino di ciniglia verde indossato in tutta fretta il giorno dell'aggressione a mio padre e delle lunghe attese in questura. E poi ecco la scelta degli abiti per mio padre da fargli indossare nella camera mortuaria, come era dimagrito in quei pochi giorni di ricovero!. Che dire poi delle scarpe e del rimprovero ricevuto da mio zio per il fatto di aver rivestito la salma di mio papà anche con le scarpe: Non avevo imparato le regole della morte perché nessuno è morto vicino a me fino a quel giorno. Ricordo anche le macchie di cibo sugli abiti durante il ricovero e come avrei voluto aver portato degli ulteriori ricambi e come mi sono sentita in colpa per il suo imbarazzo di questo aspetto disordinato. E ricordo le montagne di abiti regalati alla Caritas quando ho vuotato gli armadi per chiudere la casa paterna.
Dopo tanto tempo ho ritrovato gli occhiali da vista di mio padre e ho indossato un cappotto di cashmere che non avevo avuto il coraggio di dare in beneficienza, le cose parlano e trasmettono dei segnali, ho sentito come un calore che mi avvolgeva insieme ai tessuti e nuovamente ho avuto la netta percezione che vi siano abiti diversi nei momenti topici di ognuno di noi, indumenti che io non riesco più ad indossare senza sofferenza perché riemergono troppo prepotentemente i ricordi di situazioni dimenticate che non voglio rivivere.
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