Noi esseri pigri, improduttivi, troppo stanchi o senza nulla da fare, forse la spesa o un aggiornamento di stato sul PC, reduci da esplorazioni nei nostri labirinti mentali e ansiosi di ritornare in uno stato di catalessi malinconica, ci sentiamo come ladri a stare in giro per troppo tempo. La città ci assorbe e ci rimescola quando usciamo vestiti anonimamente, correndo tra passerelle acciaccate e vicoli depressi, senza dare spettacolo e con la fretta di chi non vuole arrivare a casa ma solo togliersi di lì, sobbalzando e bestemmiando per i rumori improvvisi, lo stridere dei treni in frenata sui binari e i clacson dei centralinisti al volante, che vedrebbero meglio con un'anguria spiaccicata sul parabrezza. Tutto si risolve nel percorso in linea retta, pianificato nei suoi piccoli, inconsci rituali: aspettare battendo un piede che il semaforo diventi verde, camminare sul lato opposto dei vari ragazzi delle comunità e venditori di rose, che ci puntano sempre come se fossimo fasciati di carta moschicida, e ancora volare con lo sguardo in cerca di un tabellone che indichi l'ora, gettare oceani di ortiche a chi, passando, osa guardarci negli occhi. Non vogliamo soste, deviazioni, non traiamo gioia alcuna dall'esplorazione, dal contatto casuale. Tra paranoie e diffidenza, a volte ben riposta dati i tempi striscianti e burrascosi, il nostro ultimo scopo è sempre e comunque sentirci avviliti, arruginirci lo spirito, riducendolo a una figura lacera e brutta a vedersi, che passa il tempo rannicchiata in un angolo a vomitare minacce e oscenità, senza che le innumerevoli fughe immaginarie possano salvarla. Non abbiamo il tempo di riflettere, di riempire la metà del bicchiere. Perché tirare il fiato quando molti problemi aspettano, pazientemente in coda, di aggiungersi alla nostra catasta? Affidare un buon quarto d'ora di quiete a noi poveri masochisti è come dare in custodia uno Stradivari a un toro infuriato.