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Rosso
Il Professor Redford era fuori di sé, come sempre più spesso accadeva.
Seduto sulla sua poltrona, coperto da un plaid a quadri verdi e blu, farneticava nel suo mondo come sospinto su una zattera alla deriva.
Dietro di lui il balcone lo illuminava lasciando visibile solo la sua silohuette. Sapevo che i suoi occhi mi osservavano senza vedermi, mentre mi avviavo verso l'altra poltrona che gli stava di fronte dopo averlo salutato con affetto.
"Buongiorno Professor Red " gli avevo detto con un sorriso.
Era stato il mio professore d'inglese del liceo. Era gallese e se ne vantava. Aveva un buon accento italiano, non comune fra i parlanti anglosassoni e un aspetto poco britannico quanto il passato da rugbista. Era infatti un uomo di piccola statura, piuttosto leggero, con folti capelli neri picchettati di grigio. La stempiatura lo faceva somigliare a Lev Trotsky di cui condivideva anche l'ideologia; per questo nel nostro istituto tutti lo avevano soprannominato professor Red.
John Redford mi aveva osservata per un attimo e aveva sorriso dicendo:
"Ciao cara, da quanto tempo!"
Ero stata da lui il giorno prima, ma non lo ricordava.
"Siediti qui" aveva detto battendo col palmo della mano su un pouf che gli stava vicino, alla luce del balcone che affacciava sulle montagne viola, nel tramonto immobile. Seguendo il suo comando, mi ero seduta in silenzio, mentre lui si era girato a guardare fuori, poi mi aveva osservata nuovamente. Il suo sguardo faceva riaffiorare i miei ricordi.
Indietro nel tempo, mi rivedevo all'entrata del liceo, mentre mi spiegava quanto fossero importanti le acca aspirate nell'inglese standard. Mi parlava ed io pensavo di non aver mai visto in vita mia occhi più belli: un blu chiaro, compatto, intenso come certi mari lontani. Doveva essersene accorto, poiché ci eravamo interrotti in un breve silenzio imbarazzante senza alcun seguito.
Alla luce limpida che ci avvolgeva dai vetri del balcone, i suoi occhi erano ancora intatti, escluso per un eccesso di luminosità dovuto alle lacrime che li avevano riempiti e la patina di assenza, la lontananza senza intenzione, la confusione di una malattia che non lo lasciava neppure per un istante. Coprii la sua mano con la mia, per consolarlo da quel pensiero triste che doveva averlo colto, frutto di un ricordo vero o immaginato. A quel contatto, come se avessi girato la manopola di una radio, lui aveva cominciato a raccontare:
"Ricordi quando la scuola organizzò la settimana dell'arte e ospitammo alcuni istituti europei nel duomo della città?"
"Certo" gli dissi io.
E come avrei potuto dimenticare quanto tempo attesi che nella penombra delle volte a crociera, dietro ad uno degli enormi pilastri della gelida basilica, lui la smettesse di parlarmi di Shakespeare e della somiglianza fra i suoni "try" e "dry" e i nostri " trasu" e " cuddruriaddru". Ricordo che negli ultimi due giorni disertai la manifestazione perché avvilita da quella attesa estenuante, convinta che quell'amore ingenuo fosse una mia personale invenzione etilica.
Continuò : "Erano trascorsi due giorni dal suo inizio. Volevo parlare con Paola, Paola Lodi, la tua compagna di banco del liceo, ma non ne avevo il coraggio; persistevo nel cercare sicurezza con gli argomenti che conoscevo meglio. La letteratura, la linguistica... avevo continuato così per due giorni, ma al terzo mi ero deciso a dirle quanto significava lei per me. Purtroppo, la sua mancanza era nell'aria. La percepii immediatamente, entrando nella fredda inaccogliente chiesa romanica. La figurina esile, timida eppure sicura della propria bellezza, mancava. Mi prese l'ansia della sua inaspettata assenza mentre ricomponevo la sua immagine in mozziconi nella mente. Un naso, alcuni capelli scurissimi, le labbra lucide e i suoi occhi: ardenti occhi, scuri come il mio animo solitario.
Ero passibile di denuncia e di pena, ne ero cosciente, ma il desiderio veniva prima di ogni senso di colpa, e di ogni colpevolezza.
Forse era solo amore per qualcosa che ammiravo e che avevo perso da tempo indefinito, che non sarebbe mai più tornato, per me.
Mentre lei c'era dentro e irradiava luce su tutti coloro che le stavano attorno, quando in quei giorni, io la scorgevo da lontano, nei sorrisi, negli sguardi, in quei rassegnati, improvvisi silenzi estranei.
Guardava una brochure, il primo giorno, come se non sapesse che leggere appena. Lunghi minuti fuori da quel tempo di baldoria e allegria dei suoi compagni. E da lontano sosteneva il mio sguardo, che desiderava, più del suo, oltre ogni ragionevole dubbio.
Si può essere adulti a 17 anni, mi chiedevo? Mi sembrava che lo fosse.
Ed ora sono qui, malato e vecchio. La vedi ancora Paola?" mi chiese. Ma non mi diede tempo per rispondergli e continuò: " Se dovessi incontrarla, comunque, non dirle nulla di me, sarebbe troppo penoso rivederla in queste condizioni. No! Non voglio sapere e non voglio che lei sappia"
Si voltò verso i vetri dell'ampio balcone. Fuori era quasi buio.
"Red " gli dissi, "sono io!"
"Io chi?" mi rispose
"Paola!"aggiunsi.
"Mi spiace, non ricordo di conoscere nessuno con questo nome signora, lei chi è? E soprattutto, chi l'ha fatta entrare?"
Ostinarsi a spiegare era inutile. I suoi occhi erano tornati opachi, assenti, ed io ero troppo triste per combattere una guerra senza vincitori. Lo baciai sulla fronte avvertendo pietà, amore, dolore ma non solo. Quel che provavo era troppo per essere contenuto in una sola persona. Mi divincolai da quella casa lasciandolo con gli occhi rivolti all'oscurità, meno scura del vuoto che certamente portava dentro.
La radio diffondeva la notizia della morte prematura di Steve Jobs, mentre guidavo.
Non che le mele mi piacessero, ma riflettevo su una frase che avevo letto qualche tempo prima e che gli apparteneva. Aveva a che fare con la morte e più o meno diceva così: "La Morte è l'agente di cambiamento della Vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo!!!" Forse era vero, ma quanto poteva essere complicato e imprevedibile quel che c'era tra la vita e la morte?
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