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Un amore bambino
Si chiamava Francesco. Perché conoscevo il suo nome fin dall'inizio?
Alla scuola elementare Luigi Cadorna c'erano migliaia di bambini. Una scuola gigantesca, con molte sezioni per ogni classe. E lui era in un'altra sezione, pur facendo la terza elementare come me. L'avevo notato, perché era straordinariamente pulito e stirato. Sempre in ordine. Con una faccetta seria e gli occhi fondi, da adulto. E in contrasto i capelli: tanti, castani, mossi come le onde del mare. Aveva un che di romantico, di cavalleresco e durante gli intervalli era spesso appartato. Una delle mie compagne mi aveva riferito ch'era il migliore della sua classe in italiano e lì avevo avuto un tuffo al cuore: anch'io ero la migliore della mia classe e ciò era bastato per creare un link. Da quel momento, nella mia testolina io e Francesco fummo uniti, una spanna al di sopra degli altri. Eppure, non ricordo d'averlo mai avvicinato nei corridoi della scuola, non una parola, né uno sguardo d'intesa, né un gesto. Anzi, quando lo vedevo da lontano giravo al largo, o mi impegnavo in qualche attività del tutto inutile, per paura che la mia emozione fosse troppo palese e mi tirasse addosso il dileggio delle compagne.
Il primo contatto fu in chiesa. Non era una chiesa come le altre, la nostra. Era la chiesa dei missionari del PIME, preti terrigni, veementi, perennemente abbronzati. Andavano e venivano da terre lontane, raccontavano d'Africa, di foreste e capanne, di serpenti e magìe.
Era il mese di maggio. Profumo intenso di tigli e di rose nell'aria. Un'eccitazione serpeggiante tra noi bambini del quartiere, perché ci era concesso di uscire la sera, per assistere alle funzioni in onore della Madonna e poi di giocare per un'oretta sul marciapiede sotto casa, finché i genitori non ci chiamavano dalle finestre e noi a mercanteggiare "ancora cinque minuti, tre minuti, un minuto..." Senza contare che l'ultimo giorno del mese ci sarebbe stata la processione nel parco dei missionari, con la statua della Vergine ondeggiante sulle spalle dei portatori e noi bambine con grandi cesti di petali da spargere lungo il cammino!
Una sera di maggio, dunque, nella chiesa dei missionari. I primi banchi sono riservati ai bambini. Le femmine a sinistra, i maschi a destra. La primavera a rimescolare il sangue, l'incenso, i fiori, i canti a stordire le menti. Cantare a squarciagola è il nostro unico modo per rompere gli argini, gridare al mondo la nostra vitalità. E io canto, stretta tra mia sorella e Rita, la figlia della portinaia, sempre indecisa se fare la ballerina o la suora, da grande.
Canto perdendo la testa, e con essa anche il velo, che cade a terra senza che me ne accorga.
Ed ecco che un bambino si stacca dai banchi dei maschi. Francesco! Attraversa il corridoio centrale quasi strisciando. Si china a raccogliere il mio velo e me lo porge timido, impacciato per poi tornare velocemente al suo posto. Il cuore mi batte all'impazzata. Mia sorella mi dà di gomito, ma non la guardo. Mi metto il velo e continuo a cantare, lo sguardo fisso sull'immagine di San Francesco Saverio che domina l'intera arcata dietro l'altare. Ma non capisco più dove sono, che sto facendo e perché. Un vortice di emozioni impazzite. Uno sforzo immane per dominarle.
Quella stessa sera Francesco si unisce ai nostri giochi sul marciapiede. Strano, non è del mio quartiere, chi l'ha invitato ad unirsi a noi? Palla avvelenata prende il sopravvento su tutte le emozioni. Siamo tanti e scatenati. I piedi corrono veloci, la palla rimbalza sui nostri corpi guizzanti, le grida raggiungono le cime dei pochi alberi che costeggiano la strada. Ci ritroviamo alla fine ansanti, sudati e soddisfatti. Finché qualcuno propone un gioco "da fermi". Verbi o difetti? Difetti, naturalmente: tagliare i panni addosso agli altri dà sempre a tutti quel gusto sadico di cui s'adornano spesso i bambini. È d'obbligo essere cattivissimi. Rita viene allontanata. "E tappati le orecchie" le gridiamo. Ci mettiamo tutti in fila, spalle al muro e Francesco "ritira", che significa che raccoglie da ognuno di noi i difetti di Rita per poi riproporglieli uno per uno: "Indovina chi ha detto che...". E se non indovina c'è la penitenza.
Quando Francesco passa da me, non c'è più nessun imbarazzo tra noi. Il gioco scatenato di prima lo ha sciolto come neve al sole. Gli sussurro nell'orecchio il "difetto" che ho riservato a Rita: "Una racchia come quella resterà sempre zitella". Si allontana di un passo, mi guarda stupito, i suoi occhi luccicano di entusiasmo "Almanacco di Topolino di marzo - mi dice - penultimo racconto!" "Sììììì!" L'avevo proprio letta lì quella frase. Nel ricordo, c'è una sospensione di tempo, tutti i bambini immobili in un freeze frame in bianco e nero. A colori solo io e Francesco, isolati da tutti e da tutto, tre metri sopra il suolo. Un'ebbrezza mai provata nel veder confermato il mio link: io e Francesco, Francesco ed io, gli intellettuali del gruppo, uniti per sempre. È questo l'innamoramento?
Poi la recita di fine anno. Un pomeriggio intero, un alternarsi di classi sul palco. Una folla di genitori e parenti. Cos'aveva preparato la mia classe? Nebbia assoluta. Di certo una cosa corale,
qualcosa di noioso che non lascia traccia. Di lui invece, di Francesco, il ricordo è nitido: faceva
il presentatore. Pantaloni grigio-perla, camicia bianca, papillon. Era sempre in scena, tra una performance e l'altra. Impeccabile. Dizione perfetta. Ma fu quando interpretò anche Muzio Scevola che sentii contemporaneamente di essere innamorata di lui e di esserne indegna.
Lo vedo ancora, nella sua tunica da antico romano, un serto di alloro intorno al capo, il braccio proteso sul braciere ardente. Un eroe, un mito. Una stella che si allontanava dal mio firmamento, per contornarsi di altre stelle. Un morso di gelosia.
La sera, a tavola, mio padre commentò lo spettacolo. "Mi è piaciuto molto quel bambino che faceva il presentatore... e poi Muzio Scevola" disse senza guardarmi, concentrato sul piatto. Sentii una vampata di calore salirmi dalla punta dei piedi e invadermi la faccia. Mio fratello mi puntò il dito contro, cantilenando "È diventata rossa, è diventata rossa. Le piace Francesco!" Non so perché, ma nessuno rivolse a me l'attenzione. Tutti si concentrarono su mio fratello e cominciarono a rimbrottarlo. E mia madre poi si alzò per andare ai fornelli e mia sorella accese la radio... Insomma ebbi il tempo sufficiente per far sbollire la mia emozione, trasformarla in sudore freddo e far finta di niente.
Pensai molto a Francesco, ma non lo rividi più e non ne feci parola con nessuno. Che si fosse trasferito con la famiglia in un'altra città? Solo dopo molti anni, avevo passato i trenta, se non sbaglio, entrai in una salumeria all'altro capo della città. "La signora desidera?" mi chiese un ragazzo corpulento dietro il banco. Gli occhi fondi e tanti capelli, mossi come le onde del mare.
Ci misi un bel po' a riconoscerlo. Lui no, ero solo una delle tante clienti. "Quattro e cinquanta, alla cassa. E arrivederci!". Mi mossi come un'automa, con il mio cartoccio di prosciutto in mano.
Non potevo crederci! E non ci credo neppure adesso. Forse quel salumiere assomigliava tanto a Francesco, ma lui, il mio amore infantile starà certamente scrivendo un poema, o recitando un dramma da qualche parte. Nel mio cuore, sicuramente.
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0 recensioni:
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- leggendo questo bel racconto dicerto autobiografico mi ritornano in mente tutte quelle sensazioni che ha provato l'autricein questa sua bella descrizione se vogliamo dire piena di ricordi nostalgici. molto bello. salvo
- Sono arrivato tardi, ma sono felice di esserci. Arrivato alla fine sono rimasto un po' in trance... con la mente che vagava non so dove. Segno che questo racconto ha fatto proprio centro:nl cuore e nella mente. Una penna straordinaria e una storia raccontata con tanta delicatezza e leggerezza da strameritare più di un plauso! Ringrazio Giacomo per avermene consigliato la lettura.
- scrivi molto bene...è un piacere leggere ciò che scrivi.. condivido i commenti di Massimo... Giacomo.. Anna
Anonimo il 08/12/2011 18:47
Bravo Massimo... sono d'accordo con te al cento per cento... che poi Verdiana sia una scrittrice con i fiocchi che non guarda minimamente queste cose, come ha già avuto mo0do di dire, nulla toglie al problema che anch'io dubito fortemente che le opere vengano lette. Chi legge questo bel racconto non può esimersi dal dire due parole... almeno. ciaociao, Massimo. Se pubblichi avvisami.
- Un quadretto magnifico questo che hai offerto qui, davvero! Apprezzatissimo.
E dopo sei giorni solo altri due commenti, che vergogna. Sarà che i miei gusti sono completamente diversi da quelli degli altri o che la gente non capisce niente o che davvero gli tenti di PR non leggono gli scritti altrui? Ma come possono pretendere di ricevere letture e commenti se sono i primi loro a non farlo? Complimenti.
Anonimo il 03/12/2011 10:38
Quando i ricordi sono ancora così nitidi portano l'unicità delle emozioni! Ma i palpiti, i sogni, le attese, i rossori di allora forse si ripetono all'inizio di ogni nuovo amore... Splendido narrare!
Anonimo il 03/12/2011 08:00
Stupendo... uno dei racconti più belli che abbia letto su questo ed altri siti. Hai avuto la capacità, in questo brano, di farmi sentire bambina... si, ho detto bambina, non bambino. Bello l'argomento e magica la tua penna. Cinque stelle e cinque applausi. ciaociao
P. S. ho capito anche che a me non solo piace scrivere autobiografico ma anche leggerlo... in particolare i bei tempi andati... che sarà? vecchiaia? mah, io non mi sento poi tanto sgangherato... ahahah... ciaociao
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