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Caffè
Ero una che non era.
E quando spiego questo concetto alle persone, mi guardano con aria annoiata,
Martina si tocca ripetutamente i capelli, per incastrarseli dietro l'orecchio,
Alessandro, più classico, guarda l'orologio ad oltranza anche se siamo all'antipasto,
Mia madre, al telefono mi interrompe ed inizia a fare un lungo elenco di quello che allora dovrei iniziare ad essere, un elenco che fa più o meno cosi:
" Beh allora inizia ad essere più educata, zia Lidia poverella mi ha detto che non l'hai salutata l'altra sera, mentre usciva dalla messa, ed anche un po' più sveglia che ti fai sempre passare avanti quando fai le file, magari ecco potresti iniziare dall'essere ordinata non oso immaginare in che condizioni è quel povero monolocale, torna a casa che ci penso io a te"
Monolocale.
Forse la porta di un molocale è troppo piccola per farci entrare un po' di felicità,
oppure è proprio il concetto stesso di monolocale che la esclude.
Non ci possono stare troppe cose dentro, o io o lei.
Quasi quasi, mi chiudo fuori io.
Oppure inizio da qui, dal cercare di sviscerare sola il perché sia stata per tutto questo tempo una che non era. Non volendo che le persone uscissero dalla mia vita, non le facevo neanche entrare.
Pensavo non ci fosse spazio, come nel monolocale. C'ero gia io e io non mi sarei mai sfrattata.
Gli altri invece, loro ringraziavano per l'ospitalità, e puntualmente bevendo una tazzina di caffè salutavano.
E io mi ritrovavo a sentirmi come quella tazzina. SVUOTATA.
E loro se ne andavano, con le loro pance sazie di caffè e delle mie energie.
Non facevo entrare un uomo nella mia vita, perché non mi piaceva l'idea di stare una notte intera a vederlo dormire, volevo essere io quella guardata. Ma soffrivo d'isonnia.
Ogni volta pensavo che avrei voluto un rastrello.
No, non volevo ucciderli, avrei scelto un'arma migliore, volevo rastrellare tutto quello che di mio era incollato a loro. E riprendermelo, e sentirmi meno vuota.
Riempire la tazzina con i granelli di zucchero caduti sul tavolo.
I miei genitori avevano divorziato sul tavolino di un bar. Lì avevano firmato i documenti e sciolto i loro nomi, da un incastro che li teneva in trappola. Ricordo il rumore che fece la tazzina quando mio padre la posò sul tavolo prima di alzarsi.
L'amaro del caffè, mi faceva paura.
Mi ritrovavo cosi a bere ananas alle 2 di pomeriggio se si era in compagnia.
Oggi il pavimento è freddo.
Sono scalza, sulle punte.
Ferma. Immobile. Sono in un monolocale ma siamo in due. Rido della mia colpa.
L'acqua ha raggiunto la valvola di sicurezza della parte inferiore della Moka.
Moka. Madagascar. Vorrei svegliarmi e fare il bagno nell'oceano indiano. Con lui.
Prende il piccolo imbuto di metallo. Io Ogni volta che vedo un imbuto penso all'uomo di latta, quello del mago di Oz: "I desideri l'avevano fatto diventare pazzo e a ricordargli quella sua triste condizione, restava il copricapo: un imbuto rovesciato, simbolo della sua follia." Glielo recito. Lui sorride e mi da un bacio sul naso. Lo aiuto. Mi concentro, tolgo il tappo dal contenitore di vetro del caffè macinato. Con meticolosa attenzione tento di riempire l'imbuto di caffè. È ormai una sfida con me stessa.
Misuro la mia vita in cucchiaini di caffè
Il pavimento è ricoperto di libri e fogli. È la camera più luminosa, c'è una grande finestra, quindi spesso studio qui. I miei piedi scalzi sono come ghiaccioli, avvicino un libro e ci salgo su. Arrivo alla sua spalla. Dall'alto mi basta leggere l'autore per capire che sto calpestando Flaubert. Mi assale quasi un senso di potenza e sorrido compiaciuta per essere cosi profana.
Emma un giorno ha bevuto veleno. Io oggi bevo caffè.
Che poi io oggi bevo caffè
Perché voglio iniziare ad essere.
Perché voglio iniziare ad essere una che ha vizi.
Perché voglio iniziare a dipendere da qualcuno e allora mi scelgo anche da cosa.
Perché ricerco sempre il dolce, ma devo imparare a conoscere anche l'amaro e magari parto da qui, e nessuno potrebbe insegnarmelo meglio di lui. Che quel caffè me lo vende nel bar sotto casa.
Perché per un quarto d'ora al giorno voglio regalarmi il silenzio dovuto ai grandi rituali.
Rispetto.
Il caffè sta uscendo. È pronto.
Allungo la mano per prendere un cucchiaino, lo miscelo quando è ancora nella macchinetta. Lo verso nelle due tazzine bianche e si fanno subito calde.
E quel caldo scende giu, fino ai miei piedi fino a Flaubert.
Metto un cucchiaino di zucchero.
Suono acuto di cucchiano in movimento.
Ticchettio che è come una sveglia.
Alzo il mignolo e butto il caffè nello stomaco. Mamma si sarebbe arrabbiata ma lui non vuole saperne di stare giu. Mignolo senza BonTon, ma ho sempre fin troppo BonTon chisenefrega se ho i mignolo cafone!
Mi prende per mano. " Possiamo dormire tutto il giorno, è domenica"
Dopo quel caffè, sono sprofondata in un sonno che mi ha fatto riposare da tutte le battaglie contro me stessa. Caffè che riposa. Caffè che si versa sulle mie paure.
Io dormo e per la prima volta sono guardata.
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