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Resto o vado via
"Lu, c'è qualcosa che non va? Se ti scoccia stare qui possiamo anche andare da un'altra parte.. ormai il nostro dovere l'abbiamo fatto, abbiamo presenziato." Disse Pablo sfoggiando quello sguardo complice di cui lui solo era capace e che avrebbe fatto sentire al sicuro il più feroce degli assassini.
"Dai, stellina, prendi il cappotto, facciamo un giro; in macchina ho una bottiglia di vino che ci aspetta."
Gli rivolsi un cenno di assenso e un sorriso appena abbozzato, mentre cercavo di infilare la giacca troppo leggera imbavagliando i sensi per buttare giù l'ultimo sorso di vodka in fondo al bicchiere.
"Ti aspetto fuori", gli dissi, mentre si apprestava a procedere con i convenevoli.
Uscii dal locale senza salutare i pochi conoscenti della festa, l'alcool e la musica martellante avrebbero celato senza sforzo la mia assenza.
La pioggia finissima di quel sabato sera di ottobre mi raggiungeva a stento sotto la tettoia del pub, regalandomi una piacevole sensazione di ritrovata intimità con il mio sentire frastornato dietro alle palpebre pesanti; non mi andava di tornare a casa, pensavo solo a questo, quando la mano inconfondibile di Pablo si strinse con scherzosa decisione intorno alla mia, facendo cadere sul selciato ciò che restava di una Camel Blu sporca di rossetto.
"Piantala di avvelenarti", disse.
"Da ragazzina dicevi che non avresti mai fumato."
"È perché ero una piccola moralista."
"Lo sei ancora in fondo, per questo ti voglio bene."
Qualche minuto dopo era già passata un'eternità. Non avevo più bisogno di bere, ma sentivo che potevo riempirmi di tutto, delle colline che si rincorrevano fuori dal finestrino dell'automobile, della radio che stavolta suonava solo per me, di quel meraviglioso silenzio tra noi.
Ci accostammo in un piccolo parcheggio che dava su un parco giochi, dove intravidi dietro allo scivolo una coppia di adolescenti che si scambiavano un bacio infuocato, incuranti della pioggia e del resto del mondo. Sorrisi e mi accesi un'altra sigaretta.
"Luna, vuoi dormire da me stanotte? Non mi fido a lasciarti sola... "
"Invece dovresti", risposi, mentre gli occhi mi si gonfiavano di pianto.
"Vedi quei due ragazzi dietro allo scivolo? Loro hanno avuto tutto, io non ho niente."
"Ma che dici?! Tu puoi avere tutti i baci che desideri, lo sai che sei bellissima."
Cercavo a fatica di trattenere le lacrime, nascondendo il viso tra le mani, implorando Pablo di scusarmi e di riportarmi subito a casa.
"Come puoi pregarmi di fare qualcosa che non vuoi nemmeno tu? Sono io che ti prego, anzi ti supplico, per una volta... non scappare da te."
Ancora prima di rendermene conto avevo già iniziato a raccontare, con una voce sconosciuta, di un mondo lontano dai ricordi, un dolore antico che zampillava dalle labbra con l'impeto della corrente.
Tornai con la memoria in quella casina in cui sono cresciuta, vidi la bambina triste che aveva smesso di sognare guardare intimorita i coetanei che passavano spensierati per la strada, fuori, lontano dalla finestra dalla quale lei era a costretta a spiare quel mondo sconosciuto a cui non apparteneva.
Anche quel giorno il peggio era passato, era riuscita a sopravvivere all'ennesima mattinata di umiliazioni a scuola. La piccola decise che nemmeno oggi avrebbe mangiato, accese la tv e sfoggiò alla mamma più apprensiva del pianeta un sorriso più che rassicurante a testimonia del suo ottimo umore, forte del fatto che non si sarebbe mai accorta del pranzo che finiva immancabilmente nella ciotola di Max, il pastore tedesco che viveva alla catena in uno spazio vitale di si e no dieci metri quadri, unico complice e compagno di quei giorni in cattività. Luna aveva quasi tredici anni, detestava il suo corpo e la sua condizione di emarginata sociale.
I suoi guai cominciarono proprio quell'anno, quando a scuola arrivò un nuovo compagno. Veniva dal Sud Africa ed era più vecchio degli altri ragazzi; a causa delle difficoltà linguistiche aveva bisogno dell'aiuto e del sostegno di tutta la classe, che non tardò di certo ad arrivare; Ronnie imparò la lingua e molto altro ancora, e dopo appena due mesi era l'indiscusso paladino della 3B. Il ragazzo aveva conquistato compagni ed insegnanti con la sua frizzante esuberanza e anche se a volte peccava di eccessivo protagonismo, si chiudeva un occhio ridendo tutti insieme alle sue bravate.
Tutti tranne lei.
Luna la piagnucolona, Luna la cicciona, Luna come una chiazza di letame sul vestito bianco. Lei non rideva mai, era diventata antipatica a tutti, perfino i suoi migliori amici di un tempo ora la evitavano come la peste. D'altronde non stava mai agli scherzi, se la prendeva per qualunque cosa le venisse detto e non faceva altro che guardarsi furtivamente intorno per accertarsi che nessuno stesse complottando alle sue spalle o la stesse bonariamente prendendo in giro. Davvero una persona da cui mettersi in guardia.
Il momento peggiore della giornata di Luna era senz'altro il risveglio, più precisamente il primo attimo di lucidità della mente, quando al suono della sveglia il suo giovane cuore pulsava all'impazzata annunciandole come un messaggero infernale di essere ancora viva.
Si prendeva molto tempo per sé prima di andare a scuola, dedicandone il meno possibile alla colazione e alla scelta degli abiti, che di certo non avrebbero influito sulla sorte della mattinata.
I minuti che le rimanevano si consumavano troppo velocemente, rannicchiata in quel cantuccio del bagno accanto al termosifone, chiedendo a un Dio troppo arrabbiato o troppo impegnato di ascoltare le sue preghiere; chiedendo, per favore, per carità, di venire a prenderla e portarla accanto a lui in Cielo, dove gli angeli avrebbero giocato con lei, le avrebbero voluto bene e soprattutto non l'avrebbero mai e poi mai toccata. Perché lei era una creatura abietta, uno sgorbio, ma non poteva più sopportare quelle mani strisciare sul suo corpo, quella sudicia bocca senza vergogna e senza pietà; lei era debole ma non meritava quelle parole oscene, e le minacce, e le terribili conseguenze dei suoi sporadici rifiuti. Nessuno vedeva, nessuno parlava, si mormorava soltanto dei suoi comportamenti lascivi nei bagni, negli spogliatoi della palestra e qualche volta perfino nel bel mezzo della lezione.
Ronnie era il Re della classe, rifiutare il Re significava rifiutare tutti quanti e dare il via ad un delizioso gioco di guerra in cui l'unico nemico, prigioniero e sconfitto, non era davvero vinto se non veniva sistematicamente annientato.
Luna era stanca e decise che era giunto il momento di prendere una decisione, andarsene per sempre o restare e resistere, trovando la forza di raccontare tutto a qualcuno.
A seguito di meticolose elucubrazioni, preso coscienza del fatto che non sapeva fare un cappio e che il sangue le faceva impressione, decise di parlare con suo padre, la prossima volta che sarebbe venuto a farle visita; era un uomo corretto e le voleva bene, le avrebbe creduto.
Il giorno tanto atteso non tardò ad arrivare; era così felice di poter passare del tempo con qualcuno che la trattava con gentilezza che non ebbe il coraggio di fare ciò che andava fatto fino a mezzanotte passata, quando il padre le disse che era giunta l'ora di andare a dormire. Luna afferrò un lembo della giacca dell'uomo in procinto di andarsene, e con un filo di voce rotta dal pianto sussurrò: "Papà, aiutami", come se fosse al cospetto di quel Dio a cui aveva affidato sé stessa per tanto tempo.
"Lui ti ha creduto, vero..?" Sussurrò dolcemente Pablo stringendo la mano dell'amica che a poco a poco tornava in sé. Luna sorrise, stavolta per davvero.
Si rese conto che aveva trovato qualcosa di prezioso per cui restare.
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