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La mia vita... il suo dolore
LA MIA VITA... IL SUO DOLORE
Arriva sempre un certo punto della nostra vita in cui cominciamo a guardare al passato e a chiederci che cosa è stata la nostra esistenza. Che cosa o chi è rimasto nella nostra mente, così insolentemente da non riuscire a cacciarlo pur volendo, perchè una parola, una frase, una sensazione, l'aria "strana" della primavera, il profumo intenso del mare, ci porta a ricordare.
Se tutti ci fermassimo a riflettere e ricordare, certamente noteremmo che la vita è un'alternarsi di avvenimenti e situazioni, a volte piacevoli, a volte ci fanno incazzare, altre volte invece ci fanno soffrire. È nelle circostanze particolarmente tristi e spiacevoli che si ha l'abitudine di dire che quanto accaduto è stata una bruttissima esperienza...
Ma, obbiettivamente credo non si possano classificare le esperienze in brutte o belle, tanto è vero che in entrambi i casi, sicuramente abbiamo appreso qualcosa, perchè no, anche ad assaporare il boccone amaro del DOLORE.
Già, quella strana sensazione di cui avevi avuto il sentore di aver provato un tempo, magari da ragazzina/o, quando a farci soffrire era stato il nostro "primo amore"!
In quei momenti, ti sembrava di star male talmente tanto, che persino la vita non aveva più senso e si aveva la certezza che probabilmente niente e nessuno avrebbero potuto far molto per restituirci la felicità.
Ma poi, una semplice passeggiata in "comitiva" e all'improvviso, un gesto carino, una battuta simpatica ti spingeva a guardare con occhi diversi un amico che fino ad allora non avevi notato e, che all'improvviso suscitava in te, l'impressione di avere le " farfalle nello stomaco" o il notissimo batticuore! Qualcuno ci aveva restituito la felicità!.
Accade poi, qualcosa di gravissimo, irreparabile, drastico ed irreversibile, qualcosa a cui non eravamo preparati affatto e che, nonostante fossimo consapevoli che prima o poi sarebbe successo, ci prende a pugni nello stomaco e ci lacera letteralmente il cuore. Ci rendiamo conto di non aver mai provato un tale sentimento e un così grande DOLORE, quando la Morte ci porta via qualcuno a noi caro.
Ed è allora che ci accorgiamo della nostra fragilità , di quanto sia instabile il confine tra il razionale e l'irrazionale. Di quanto è relativamente breve il tempo che intercorre tra l'inizio e la fine della nostra esistenza. Si pensa magari al tempo che si è consumato e perso dietro ad inconcludenti litigi e a quante parole invece si è negata l'opportunità di essere ascoltate. Anche un semplice "TI VOGLIO BENE" non detto perchè, dato per scontato.
Ci si accorge di tutto questo, soltanto quando è ormai troppo tardi.
Una foto sbiadita, una frase lasciata scritta su un foglio di carta apparentemente senza senso, un modo di dire o di fare e in un attimo ci ritroviamo catapultati in un tempo che non è più il presente e non sembra neppure passato. Una dimensione nuova, alla quale non possiamo dare una definizione concreta.
Lo spazio dei "ricordi"! Ma i ricordi, appartengono anch'essi ad una strana categoria. Il "revivre le passé" , provoca in noi diversi stati d'animo. Tornare a rivivere, ricordando, avvenimenti del passato, magari quando si era più giovani o bambini, genera quello strano senso di tenerezza, malinconia del " tempo andato che non tornerà più". Rievochiamo in noi persino i pensieri di allora, quelli che fino a quel momento avevamo del tutto scordato di aver pensato.
Basta un piccolo input e all'improvviso, un mondo si apre davanti ai nostri occhi.
Ci sono invece quei ricordi che straziano il cuore e che fanno piangere. Sono si, di certo i più dolorosi, ma nulla può sostituire i ricordi degli affetti più cari, quelli perduti per sempre e l'unico modo che abbiamo per non dimenticare, è lasciare che continuino a vivere nel nostro intimo. Li custodiamo con cura ed amore, gelosissimi, impedendo con ogni mezzo che qualcuno o qualcosa possa contaminarli. Ci appartengono. Sono la nostra storia ed il nostro rifugio. Parlarne a volte non è facile, ma neppure far finta di non volerlo fare lo è. Come ogni bella storia che si rispetti, tutto ha un inizio e tutto finisce. Anche la vita stessa.
Ogni singola esperienza vissuta insieme ad altri, rimane scritta nei nostri ricordi in maniera diversa. Ognuno di noi conserva della stessa, momenti e sensazioni differenti.
Questa è la particolarità che rende l'essere umano, a prima vista simile, ma profondamente diverso l'uno dall'altro.
Confidiamo nel tempo.
Si dice che il tempo riesca a guarire tutte le nostre ferite. Da sempre lo consideriamo un "nemico", colui che non dà tregua, puntuale, inesorabile ed uguale per tutti. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, ora dopo ora. Passato, presente, futuro e nulla può condizionare il suo andare. È impalpabile, "passa", ma non possiamo vederlo, né toccarlo e quando ci accorgiamo che sta per arrivare ed è "presente" , è già "passato". È irraggiungibile, astratto e spesso il suo trascorrere è per noi inconcepibile e inaccettabile. Il più ambito miraggio dell'essere umano: riuscire ad addomesticare e condizionare il suo andare. Vincere il nemico. Ma l'avversario da battere è più forte, astuto e leale. Non fa distinzioni, è imparziale. Il suo scandire non ammette ritardi, passa e non torna mai indietro. È Padre dell'oggi e del domani, di cui ha cura e assillo, ce ne lascia assaporare solo parte, ma allo stesso tempo è generoso del suo grande erede: il PASSATO, figlio suo e dell'uomo.
E proprio guardando al passato, quando ci si accorge che la nostra vita ha accumulato tanti ieri, si pensa al Tempo non più come "nemico", ma come maestro e di quanto realmente prezioso esso sia. Allora, soltanto allora cominciamo ad occuparci del TEMPO, impegnandolo nel più regio dei modi, rispettandolo proprio come un Re, assaporandone ogni attimo che accrescerà ed arricchirà il Passato.
OGGI, Le ansie, gioie, dolori, preoccupazioni, lavoro. La quotidianità.
DOMANI, Le speranze, l'incertezza ; il Futuro.
IERI, i ricordi dell'oggi e del domani... La SAGGEZZA... (il passato).
Il Tempo è davvero il più prezioso dei doni.
I
Mi ritrovo a pensare spesso a quando ero bambina, a quando la vita mi sembrava tutto un gioco, facile e da fare in compagnia, come uno di quei tanti giochi di società !
Che meraviglia, ripensare a quei giorni spensierati, non solo mi rallegra, ma mi fa salire quel famoso nodo in gola e un po' di malinconia.
Chiudo gli occhi ed è come se mettessi indietro il nastro di una di quelle vecchie videocassette di un film anni 80.
Ecco che mi rivedo in una giornata di maggio, quando l'aria cominciava a scaldarsi e le giornate ad allungarsi, seduta al mio posto, insieme a tutta la famiglia, intorno al tavolo tondo della cucina, (che poi era anche salotto e la stanza da letto mia e di mio fratello più grande).
Casa nostra era piccolissima, due stanze ed un bagno minuscolo, con una microscopica finestra, tanto che, per fare il bagno la domenica mattina, bisognava che scaldassimo l'acqua in un grosso pentolone, su una di quelle stufe a legna! Mi rivedo a trangugiare letteralmente il pranzo, tanto era la fretta di finire, per poi andare a fare i compiti e finalmente poter uscire fuori, giù in strada a giocare con gli altri.
Già, la strada, la mia strada, l'ultima delle 3 piazze.
Le 3 piazze (che poi piazze non erano e non sono, ma strade collegate tra loro da vicoli e vicoletti dove noi ci appostavamo quando giocavamo a nascondino), il cuore del paese, il vecchio centro storico, dove ci sono le chiese, il municipio, l'asilo, i portici, la farmacia, il vecchio carcere, palazzi antichi con enormi portoni verdi che il tempo ha scrostato quasi a sottolinearne l'età, con altrettanti antichi batacchi in bronzo ossidato, con lo stesso identico disegno, "la testa di leone", che immancabilmente ci divertivamo a "battere"!
Tra una casa e l'altra, non mancavano di certo le corde a carrucola dove stendere il bucato non appena il sole cominciava a fare la sua uscita.
Quelle "piazze" di basalto, reso lucido ed imperfetto, in continuo "movimento", consumato dal tempo e dall'andare e venire di gente solo alla fine, convergono in un'unica piazza.
La domenica mattina, dopo la "messa delle 9 e 30" quella piazza diventava luogo d'incontro dove noi, un'orda di ragazzini di tutte le età e vestiti a festa, ci divertivamo a giocare: "L'Italia chiama in guerra... la Francia!".
Oppure a far mucchio pronti a scommettere sulle teste dei mitici calciatori.
E come dimenticare le leggendarie partite di strada a pallone! Ho le ginocchia ed i gomiti martoriati da quelle tremende cadute nello spiazzo di pietrisco che c'era dietro casa. Che dolore! Le breccioline si infilavano letteralmente nelle ginocchia e nei gomiti lacerati, graffiati e sanguinanti. Dopo un paio di giorni venivano su enormi croste.
Non c'erano Barbie e Ken, né camper, né ascensori e né quant'altro la riguardasse...
A parte la pista delle macchinine o dei trenini, di telecomandato c'era ben poco.
Noi eravamo semplici, forse anche un po' tonti. Ci bastavano una palla, le figurine, una corda e un elastico lunghi per saltare o un gesso per disegnare a terra una campana e... via al libero sfogo!
E come dimenticare quelle sorte di litigate tra bambini, maschi e femmine.
Spesso si litigava, perchè davamo a qualcuno strani appellativi. .
Accidenti! Ci "strappavamo" letteralmente i capelli; pugni e calci sferrati senza sapere dove miravi, purchè li tiravi, prima o poi dovevi centrarlo il bersaglio...
E mentre eri lì, quasi con lo "scalpo" dell'avversario tra le mani e lui il tuo, ti chiedevi perchè mai si stava litigando.
Poi verso sera, qualcuno cominciava a rincasare perchè era quasi ora di cena e all'epoca il pranzo e la cena erano sacri.
Bisognava stare seduti a tavola tutti insieme. Si rientrava in casa senza essere richiamati, sapevamo che quella era la "regola" di tutti.
Ed era proprio prima di rincasare che ci riunivamo ancora una volta tutti e prendevamo accordi per il pomeriggio successivo. Di nuovo, per giocare tutti insieme.
Col tempo e crescendo, le cose cambiano e tutto resta soltanto un ricordo.
Magari, da grandi, quando le cose non vanno proprio secondo i nostri piani e le nostre aspettative, quella famosa vocina bambina si sveglia e riecheggia nella nostra testa presa da mille problemi, ansie e pensieri.
Continua a ripetere "VORREI TANTO TORNARE BAMBINO/A!". Allora tutto era molto più facile e le nostre uniche preoccupazioni erano i compiti e gli amici. E cominciamo a chiederci perchè e che senso ha la nostra vita!
A chi non è mai capitato di chiederselo?
Perchè abbiamo optato per quella precisa scelta piuttosto che l'altra.
Che senso ha incontrare determinate persone in altrettanto determinati momenti della vita, che diavolo bisogna capire ed accettare della malattia, delle sofferenze, perchè succede questo o perchè succede altro...
Credo sia una domanda innata, che cresce insieme a noi, prepotente e alla quale bisogna dare una risposta. È prerogativa dell'essere umano quella di cercare e dare risposte. Se chiedessimo in giro cosa o chi definisce il nostro avvenire, beh in molti risponderebbero che le nostre scelte fanno il nostro futuro e che potremmo persino cambiarlo (sembrerebbe tutto così semplice detto in questi termini).
Qualcuno non saprebbe cosa rispondere, altri invece direbbero "il libero arbitrio".
Il libero arbitrio.
Letteralmente significa, responsabilità di un individuo per le sue azioni.
In termini teologici invece è la libertà di fare le proprie scelte. Tesi paradossalmente in netta contrapposizione con la filosofia che contrariamente sostiene che, tutto ciò che accade e che esiste è un concatenarsi di eventi avvenuti precedentemente.
Quindi, il libero arbitrio è illusione, una grossa fregatura insomma. Vale a dire che : tutto ciò che accadrà in futuro è prestabilito da tutto ciò che è stato.
Ergo: nulla avviene per caso, ma tutto accade secondo ragione e necessità , tutto ciò che è ed accade "deve essere così e non altrimenti". In altri termini è il destino.
Ebbene, per un lungo periodo della mia vita da adulta, non ho fatto altro che chiedermi che senso avesse la mia esistenza ma soprattutto che cosa c'era che avrei dovuto capire e che invece continuavo ottusamente a non voler vedere ed afferrare.
II
Ero sposata ormai da 7 anni, avevo già due bambini e tra poco sarebbe nato anche il terzo.
Le mie giornate trascorrevano in completa tranquillità e semplicità.
Ero un po' preoccupata per il parto (che sarebbe stato un secondo cesareo).
Mi tormentavo spesso, pensando che mio figlio potesse nascere con seri problemi, o non essere "normale".
Ricordavo a quando da ragazzina, guardavo negli occhi Maria (madre di tre ragazzi affetti da distrofia muscolare) e continuavo a chiedermi come potesse il cuore di una madre sopportare tanto dolore e che se mai un giorno, mi fossi trovata nei suoi panni, non sarei mai stata capace di affrontare la situazione, non avrei mai avuto la forza e aiutare così uno dei miei figli nella sua lotta.
Un giorno gliene parlai e fu lei stessa a dirmi che la forza nasce dal proprio dolore!
III
Il 17 gennaio 2002, presso l'ospedale civile, venne alla luce il mio terzogenito ma, come se i miei pensieri avessero voluto avvertirmi e prepararmi per l'intera gravidanza, Pierpaolo (è questo il nome che abbiamo scelto per lui), nacque in "pantaloncini"(in pantaloncini? Si sente dire "nato con la camicia", ma coi pantaloni!?!).
Nacque con un N. M. C. G ("Nevo Melanocitario Congenito Gigante a mutandina da bagno" da qui i pantaloncini) e con una spruzzata di nevi sparsi su tutto il corpo.
Non nego che la prima reazione fu pesante, da parte di tutta la famiglia, perchè spesso, (diciamo sempre), si ha la convinzione che le "COSE" succedano ad altri, come se noi stessi, fossimo protetti e che nulla possa mai accaderci.
Beh, sorpresa sorpresa!!! La realtà non è questa. Facciamo o potremmo far parte del "CLUB dei prescelti" anche noi, direttamente o indirettamente.
Mi trovai difronte ad una situazione per me, del tutto nuova, alla quale non ero preparata!
Non ero pronta ad imbattermi nell'insensibilità ed ignoranza della gente! Rispondere a tutte quelle domande stupide. Ma soprattutto, non ero pronta all'idea di poter perdere mio figlio per una complicazione che andava ben oltre le mie capacità e responsabilità di madre. Non avrei mai potuto sopportare un dolore così grande, straziante. Come avrei potuto rassegnarmi all'idea? Chi o cosa avrebbe colmato quel vuoto?
Si è vero, avrei continuato a sopravvivere con l'amore degli altri due bambini, ma non sarei stata più me stessa.
Decisi comunque di affrontare la cosa giorno per giorno e di non fasciarmi la testa prima ancora di averla rotta. Non ne feci mai un dramma, cercai di far crescere mio figlio, in completa serenità vivendo il mio dolore in silenzio, trattenendo le lacrime, che immancabilmente col suo sorriso scomparivano! Insomma, a vista indossai gli abiti da "super mamma, moglie e donna", sul mio viso sempre un sorriso "d'ordinanza". Una vera forza della natura! Già, per lo meno ci provai ad esserlo. Ma, nonostante tutto il mio l'impegno e la mia forza di volontà, non ci riuscii.
Troppo l'onere e la responsabilità nei confronti di tutta la famiglia, marito compreso. Lui, un uomo dall'apparenza forte data la sua mole, la sua risolutezza, ma altrettanto fragile, "emotivamente troppo coinvolto". (Diciamo pure che tra i due, la meno piagnucolona sono io, nel senso che, mi sforzo sempre di trovare il buono in ogni situazione).
Prima delle dimissioni, il pediatra ci consigliò di portare il bambino da uno specialista. Optammo per Roma, presso il Bambin Gesù, prendemmo appuntamento per il lunedì successivo.
Partimmo di buon'ora, mi sedetti dietro, godendomi, per tutto il viaggio, la "piccolezza" di quell'essere e la sua fragilità. Continuai ad osservarlo mentre dormiva, accarezzandogli la testolina piccola, tonda e piena di capelli scuri. A tratti sembrava che fosse persino infastidito da tutte quelle carezze.
Finalmente arrivammo, dritti dritti a destinazione. Aspettammo circa un quarto d'ora e poi entrammo nello studio del dottore.
Mi chiese di spogliarlo, in modo che potesse osservarlo meglio. Lo feci, lui lo guardò un attimo e mi disse di rivestirlo.
Cominciò col dire che il nevo andava rimosso onde evitare possibili trasformazioni e che l'intervento (il primo di una lunga serie), bisognava farlo nei primo venti giorni di vita. Spiegò tecnicamente come avrebbe trattato il nevo di mio figlio. Parlò di dermoabrasione. Ci osservò un attimo e si rese conto che quel termine per noi non aveva nessun tipo di significato e decise di semplificare il tutto con un esempio pratico: "Ipotizzate che il bambino sia un pezzo di legno ed io un falegname che per lisciarlo e modellarlo utilizza una pialla. Ecco, la dermoabrasione è pressappoco la medesima tecnica".
Mi sentii mancare, cominciai a stringere mio figlio tra le braccia, quasi fossi stata una leonessa pronta a proteggere in tutti i modi i suoi cuccioli. Continuò a parlare ininterrottamente per circa venti minuti che a me sembrarono un'eternità.
Del discorso capii ben poco. Dermoespansori, trasfusioni, anestesie, dolore, immobilizzazione e morte, è tutto ciò che ancora ricordo. Il dottore, rivolgendosi direttamente a me, concluse il suo monologo con una frase che mi pietrificò: "Signora ricordi, suo figlio ha un handicap: al mare non potrà mai indossare il costume da bagno".
Guardai il mio "cucciolo" negli occhi e feci la mia scelta: lasciarlo vivere in tutta tranquillità.
Ripartimmo. In macchina regnava il silenzio più assoluto. Nessuno osava esprimersi.
Arrivammo a casa e solo allora comunicai a mio marito quale fosse stata la mia decisione. Lui mi ascoltò e per tutta risposta mi disse : "Sei tu la madre, tu sai cosa è meglio per lui".
Divenni una bestia. Lo aggredii verbalmente. In seguito riuscì a dirmi che aveva piena fiducia in me. Sapeva che la mia scelta era quella giusta, per il bene del bambino (altra responsabilità).
Gli spiegai allora che la scelta di un ipotetico intervento, spettasse al diretto interessato, lui. Io mi sarei limitata a fare la madre, una semplice madre normale nei confronti di un bambino altrettanto "normale".
Certo, mi assunsi l'impegno e la responsabilità di portarlo periodicamente dal dermatologo per i controlli necessari.
IV
Il tempo passò così in fretta e Pierpaolo, festeggiò il suo primo compleanno. Ma per me, fu l'inizio della fine. Il mio corpo e la mia mente, non ressero più ad un tale stress: fingere sempre che tutto andava per il meglio. Crollai. Cominciai a soffrire di ansia e ben presto cominciai a capire cosa realmente significasse il termine panico.
Divenni un'automa.
Del tutto apatica, persi il sorriso e la mia positività. Ogni cosa, ogni rumore e persino le grida dei miei bambini mi infastidivano. Giornate intere passate davanti alla tv. Niente amici, niente famiglia. Dovunque andassi avevo la sensazione di soffocare, di morire. Meglio restare al sicuro, a casa, col mio silenzio e con le mie paure. Questa situazione mi stava letteralmente uccidendo, rubandomi persino la speranza che tutto potesse tornare alla normalità. Il mio unico sollievo erano i ricordi di bambina, quando però i miei compiti di madre me lo permettevano.
Non trascuravo mai niente e nessuno, sempre pronta e disponibile. Ma non ero più serena, neppure sapevo cosa volesse dire tranquillità emotiva. Riuscivo a sollevarmi un po', tornando per qualche ora una bambina spensierata, scrivendo su un quaderno tutto ciò che mi faceva star bene allora.
Ma io dovevo farcela. Dovevo vincere, riprendermi la vita!
(Impiegai ben 4 anni per tornare a godere a pieno del mio quotidiano).
Nel frattempo mio figlio frequentava già la materna.
V
Una mattina di settembre, accompagnai Pierpaolo a scuola.
Il suo primo giorno di scuola!
Ero emozionata, ma allo stesso tempo preoccupata, per la reazione che avrebbe potuto avere, se un amichetto avesse visto il suo nevo. Feci un respiro profondo e decisi di andare, tutto il resto sarebbe venuto in seguito.
Mentre salutavo la maestra e mi accingevo all'uscita, una mano "bagnata", afferrò la mia. Mi girai e i miei occhi ne incontrano un paio di un azzurro splendido che illuminavano il viso sorridente di una bambina. Sapevo chi era, conoscevo i suoi genitori, ma non avevo mai avuto modo di stare con lei.
Il suo sguardo e quel sorriso, mi conquistarono all'istante.
Li ho ancora impressi nella mia mente.
Lei, una bambina minuta con i capelli nero corvino, raccolti qua e la da mollettine e pinzettine tutte colorate! Con un'enorme bavetta legata al collo.
Una meravigliosa bambina di nome Marika!
Marika però non era come tutti gli altri, ma come dice sempre mio figlio, Marika era malata.
VI
Marika, nacque in un piccolo paesino del Molise, dall'amore di due normalissimi ragazzi,
Come tutte le giovani coppie anche loro cominciarono a pensare di metter su famiglia decidendo di avere un figlio.
Il loro desiderio venne subito esaudito e poco dopo annunciarono a tutti la splendida notizia.
La gravidanza trascorse nella maniera più naturale, tranquilla, con tutti gli esami e controlli; come da "manuale".
Finalmente, il 25 Dicembre 1998, come un meraviglioso regalo di Natale, con un naturale e tranquillo parto, Marika, venne alla luce.
(Stranamente quel giorno ero anche io in ospedale, ero in attesa del mio secondogenito ed ero andata a fare un controllo, dopo una seria minaccia d'aborto.)
Ma il regalo di Natale, conteneva anche una brutta sorpresa! Tanto che la felicità iniziale dei neo genitori venne stroncata immediatamente.
Marika, aveva qualcosa che non andava.
Era affetta da una grave malformazione anorettale detta M. A. R. (che coincidenza, una malformazione che porta parte del suo nome...).
Venne subito trasferita in un ospedale fuori regione per sottoporla ad un intervento e riparare al danno. I medici anticiparono ai ragazzi che bisognava aspettarsi il peggio e che generalmente una malformazione esterna nasconde spesso una interna.
Purtroppo le cose andarono esattamente così
Le riscontrarono complicazioni cardiache, sensoriali neurologiche. Insomma una valanga di termini scientifici e medici (spesso anche loro faticano a ricordarne i nomi).
Cercarono di dare un nome alla malattia di Marika, con studi genetici, mappe cromosomiche, DNA
Decisero di chiamarla comunque, DELEZIONE DEL CROMOSOMA 6 o anomalia cromosomica.
Detta in soldoni: Madre Natura, mentre disegnava Marika, ha dimenticato di fare un minuscolo tratto al cromosoma numero sei. Facendo un esempio pratico: è come se scrivendo la parola Casa, dimenticassimo di mettere la "zampetta" alla A, in tal caso leggeremmo Caso e il significato non sarebbe più lo stesso.
Dunque questa minuscola distrazione di madre Natura, stravolse la vita di tre persone, che da allora, è ancora tutta in salita!
VII
Nel primo anno di vita, Marika sembrava una bambina normalissima, l'intervento andò bene, gravi problemi non ce ne furono, non restava che darle attenzioni, come ad un qualunque bebè.
L'intero anno però, non servì alla mamma a metabolizzare la verità. Una verità con la quale non volle ancora confrontarsi.
Purtroppo dovette scontrarsi presto con la dura realtà.
Marika non era una bambina "normale".
Non sentiva né freddo né caldo e non sentiva dolore, o meglio, aveva (ed ha) una soglia del dolore altissima.
Ma la cosa peggiore era il fatto che non riuscisse a parlare né tanto meno a camminare.
(Per quanto riguarda quest'ultimo punto, direi che è il caso di tornarci su più avanti.)
Intanto il tempo passava, la bambina cresceva, i genitori erano in continua ricerca di risposte alle loro domande. Risposte mai avute. Cercavano qualcosa o qualcuno che potesse aiutarli ad affrontare al meglio la diversità di Marika, ma intorno regnava il silenzio assoluto!
Ad ogni visita veniva puntualizzato sempre tutto ciò che non poteva e avrebbe potuto fare, mai che venisse detto invece, ciò che lei poteva e avrebbe potuto fare.
Era talmente sconosciuta la "malattia" (a questo punto direi di chiamarla Sindrome di Marika che abbrevierò semplicemente con una M.) che non restava altro che scoprirla giorno per giorno.
Nel frattempo crescendo, la sindrome di M. si rivelo più grave di ciò che si pensasse.
Fu necessario intervenire anche sul cuoricino della piccola.
Come se ciò non bastasse, col trascorrere del tempo, dovettero affrontare una nuova situazione. La "scialorrea"... (Oddio! Che sarà mai? Utilizzo Wikipedia per capire di cosa sto parlando).
Più semplicemente, Marika non era in grado di deglutire la sua saliva e quindi "sputazzava" a destra e a manca, bagnando qualsiasi cosa le capitasse a portata di mano.
Questo problema, tutt'oggi è ancora irrisolto, ha creato e crea non pochi disagi alla famiglia che spesso si sente rifiutata e costretta ad allontanare la bambina
Fu per questo motivo che la mamma, decise che era arrivato il momento di reagire... (ohhhh!! E lei si che sa come si fa!).
VIII
Nonostante la sua giovane età e l'ignoranza del caso, cominciò a lavorare su Marika, perchè dentro di sé era convinta che la sua bambina potesse dare molto.
Grazie alla sua testardaggine di mamma, e al duro lavoro di terapie di ogni genere, Marika fece enormi progressi.
Si cominciava a correre dalla mattina, tra sedute di fisioterapia, la scuola, la piscina e anche l'ippoterapia.
Eh si! Non tralasciarono nulla che potesse essere d'aiuto ed insegnarle qualcosa. Marika si rivelò una fonte preziosissima, capace di imparare velocemente e di mettere tutto in pratica.
Ottennero ottimi risultati (ora è in grado di mangiare relativamente da sola, di comunicare, anche se non a parole) tanto che a 5 anni finalmente riuscì a camminare da sola, salire e scendere le scale, a dispetto di ogni precedente previsione.
Un traguardo talmente importante non poté non essere festeggiato che con una magnifica festa e tutta la classe della piccola, con tanto di invito speciale che recitava più o meno così...
Ora che i piedi a terra so posare intorno al mondo vorrei volare...
... Ma siccome non si può, sognando ballerò...
E se con me vorrete ballare, alla mia festa dovrete arrivare!!!
IX
Quasi ogni giorno, mio figlio, di ritorno da scuola, mi parlava di Marika. Mi raccontava dei suoi progressi, di come l'abbracciava e qualche volta delle botte che dava ai suoi amichetti.
Del fatto che fosse un po' dispettosa perchè voleva sempre i giochini degli altri bambini, che alcuni avevano paura di lei e piangevano quando si avvicinava, di quanto urlasse e battesse le mani quando era felice. Cominciavo a conoscerla attraverso i suoi racconti.
Arrivò il giorno in cui mio figlio mi chiese che cosa fosse quella macchia che aveva sul suo corpo, (sapevo che sarebbe arrivato il momento presto o tardi).
Cercai di spiegarglielo nella maniera più semplice possibile, senza nascondergli nulla, nel limite delle sue capacità di comprendere, considerando la sua età.
Gli dissi che era un segno di riconoscimento, e che nel caso si fosse perduto, lo avremmo riconosciuto anche in mezzo a tanti bambini!
Esordì così:
"Allora mamma, anche Marika, se dovesse perdersi, i suoi genitori riuscirebbero a trovarla subito!"
La sua ingenuità e innocenza mi spiazzarono.
Non riuscii a dire più neanche una parola. Lo fece lui per me continuando a parlare di Marika, concludendo dicendo di quanto fosse fortunato a poter camminare, correre, saltare, parlare, andare in bici, cose che la "povera" Marika non può fare!
"In fondo il mio è solo un neo!"
Quelle parole? Un doccia fredda. Come se mi avessero svegliata e riportata alla realtà.
Mio figlio, un bambino di tre anni, aveva trovato in Marika un esempio di vita.
La più piccola delle mie sorelle, era in cerca di un lavoretto part-time, che le desse la possibilità di guadagnare qualcosina. Si ritrovò così ad occuparsi di Marika nel pomeriggio. Doveva farle fare alcuni esercizi, portarla a passeggio, farla giocare e mangiare.
In quelle ore che era con lei, su madre aveva modo di poter respirare un po', rilassarsi e occuparsi anche degli altri due bambini.
E si. Nonostante la situazione i due ragazzi, avevano deciso di fare a Marika e a loro stessi un regalo, Luigi e Francesco.
Col fatto che andasse a scuola con Pierpaolo e che mia sorella si occupasse di lei, Marika divenne giorno dopo giorno, una presenza quotidiana per me. Non mi ricordo come o il perchè, ma mi ritrovai a frequentare casa sua.
X
Eravamo sedute, davanti una tazzina di caffè, sua madre ed io.
Marika gironzolava come suo solito per tutta la cucina, facendo una gran confusione. Cominciammo a parlare del più e del meno e fu inevitabile parlare anche di lei.
Mi raccontò di quando era ragazzina. "Avevo 15 anni e non sapevo dell'esistenza di questo mondo così..." (evitò aggettivi).
Mi raccontò che durante le catechesi degli adulti, conobbe una bambina con la sindrome di down. La prima cosa che fece quando la mamma la portò, fu accovacciarsi alla sua altezza e salutarla.
Lei, la bambina, per pronta risposta le diede uno spintone.
Tornò a casa e raccontò l'accaduto a sua madre e una sua carissima amica. Disse che Piera (così si chiamava la bambina) aveva la forza di un camionista.
Dopo pochissimo tempo entrarono in perfetta sintonia e un pomeriggio, davanti a un caffè, con l'amica e sua madre disse che se era vero che la sofferenza ed il sacrificio sono destinati a chi ha la forza di sopportare, lei, avrebbe avuto un figlio disabile!
Disse che, nei primi anni di vita di Marika questo pensiero le diede sempre la forza di non fermarsi, consapevole del fatto di non essere stata punita dalla Vita.
Mi raccontò di quanto fosse stato difficile (e continua ad esserlo ancora) occuparsi di lei. Di quanto fosse straziante starle vicina nei suoi momenti "no"! Di come fu dura all'inizio, accettare che Marika venisse messa da parte dagli altri bambini e adulti perchè le sue manine e i suoi vestiti erano sempre bagnati a causa della scialorrea! Dell'ansia che viveva ogni volta che bisognava fare i controlli, di come ogni diritto bisognava conquistarselo con forza.
Ma con lo stesso fervore, mi raccontò anche di quanto fosse bello stare con lei. Scoprirla giorno per giorno. Vedere quanto potesse imparare, di come cominciasse a farsi rispettare ed imporsi. Di quanto fosse in grado di comunicare con i suoi semplici gesti. Di come fosse capace di capire che tipo di persona avesse davanti e comportarsi di conseguenza.
Se l'atteggiamento di chi le era accanto lasciava trasparire un po' di debolezza nei suoi confronti, aveva la capacità, di farle fare ciò che voleva. Se invece intuiva che era a disagio e un po' schizzinosa, diventava dispettosa, continuando a toccare in continuazione con quelle sue manine "sputazzose".
E di quanto fosse importante ed essenziale, la presenza fissa di tutta la famiglia.
Continuò a parlare ininterrottamente, e nel frattempo "dentro" mi vergognai profondamente.
Avevo fatto di un relativo problema un enorme drago.
Quella sera tornai a casa, guardai mio figlio e cominciai a piangere e chiedere scusa a chi come Marika e i suoi genitori, debba ogni giorno lottare, contro l'ipocrisia, la burocrazia, la diffidenza e l'indifferenza.
Fu allora che afferrai veramente il senso di tutto ciò che fino ad allora mi ostinavo a non voler capire. Qualcosa mi spinse e continua a spingermi ad andare ancora in quella casa.
XI
Marika frequenta ormai la scuola elementare come tutti i bambini. All'inizio non è stato facile per lei essere accettata. Ha dovuto faticare un po', ma come sempre è riuscita nel suo "compito".
Lei ti guarda, ti sorride e tu non puoi fare a meno di contraccambiare.
Mi è capitato di stare con lei, quando è stata ammalata.
Anche allora, ha sempre un sorriso ed un abbraccio pronto.
Spesse volte però la prenderei a schiaffi! È dispettosa come una scimmietta. Grazie a quelle due pesti di Luigi e Francesco, ha imparato ad essere, nel gioco, una bambina "normale". Al più piccolo fa i peggiori dispetti e sa benissimo ciò che sta facendo, perchè poi ride, ride a crepapelle. Spesso la guardo giocare da sola. In quei momenti mi si stringe il cuore, penso a cosa sarà di lei quando sarà grande. E mi chiedo, in che cosa ancora dovrà imbattersi.
Se qualcuno mi chiedesse oggi cosa rappresenta per me Marika e tutta la famiglia di così straordinario, beh, risponderei semplicemente che l'amicizia di Marika è stata un dono.
Quando sono con lei e la guardo, vedo nei suoi meravigliosi occhi azzurri, tutto l'amore, la forza e la dignità che la famiglia le ha saputo donare.
Quando sono triste e mi sembra che il mondo sia ingiusto, un suo abbraccio, una sua carezza, un suo bacio "bagnato", riescono a tirarmi su, ricordandomi quali sono le vere ingiustizie della vita e che cosa vale la pena vivere.
La sua famiglia? Esempio di Forza. Mi dà la forza, la serenità quotidiana per andare avanti per il bene e la tranquillità di mio figlio.
Mai che si siano abbattuti o che abbiano fatto della loro "situazione" un impedimento.
Inconsapevolmente sono stati il mio esempio d'Amore.
La loro esperienza di vita quotidiana, è stata e continua ad essere il mio punto di riferimento. L'unico modo per poterli ringraziare, mi è sembrato quello di dirglielo apertamente. Visto che a parole però, non ne sono capace (non riesco a parlare di loro, senza esser presa dall'emozione!) ho pensato che fosse meglio mettere tutto nero su bianco.
D'altra parte "Verba volant Scripta manent".
Mi è sembrato il modo migliore per rispondere alla domanda legittima della mamma quando spesso si chiede "che senso ha?"
Ho deciso di concludere questa storia, trascrivendo letteralmente il pensiero di alcune persone, tra cui mio figlio Pierpaolo, nei confronti del mio Angelo.
"Io conosco Marika da quando andavo a scuola materna. Lei è malata però capisce l'ostesso, lei è molto brava però furbetta. A Marika gli piace guardare la tv. Lei è furba perchè se tu tieni una penna o una matita e altre cose, lei te le prende. Lei mi sorride e mi abbraccia. Non è cattiva. Ogni volta che vado a casa sua, guarda la tv, ma poi giochiamo a pallone. Lei è simpaticissimaissimaissimaissimaissimaissima". (Pierpaolo)
I più "Grandi", invece la raccontano così...
"Marika, una bambina di estrema dolcezza capace di donare affetto a coloro che si occupano quotidianamente e non, di lei. Una donnina dal carattere forte e determinato, capace di esprimere con i suoi occhioni dolci la sua felicità, ma anche la sua muta sofferenza, unica al mondo com'è unico al mondo ogni angelo che Dio ci manda sulla terra..." (zia Natalina)
"Marika è la mano che tante volte, in quei lunghi pomeriggi chiusi in cameretta sua cercando di farle imparare qualcosa, mi ha aiutata a rialzarmi; mi guardava come se sapesse tutta la storia e mi abbracciava, nei suoi occhi vedevo la speranza, la voglia di andare avanti, di lottare! Che cos'erano i miei problemi in confronto?? Il suo sorriso in quei momenti, mi dava calma e una serenità interiore perchè era fatto con il cuore, da una bambina priva di malizia e che non voleva niente in cambio da me! Nel suo piccolo è riuscita a ridarmi uno scopo nella vita!!! Grazie Marika per avermi insegnato a vedere oltre!" (Ivana).
Lascio raccontare Marika, a qualcuno che in questa storia è la protagonista nascosta, alla quale va tutto il mio affetto e la mia Stima...
Marika: la mia vita... il mio dolore!
È disarmante nel suo AMORE, nella sua SIMPATIA e nell'essere un URAGANO.
È lei che mi da' la spinta e il sorriso tutti i giorni anche se a volte quando sta male mi chiedo: "Che senso ha?"
La sua grandezza, è l'amore che la circonda.
La sua forza (anzi la nostra forza) sono le due famiglie che ci sorreggono alle spalle e la lunga schiera di amici più o meno presenti nel nostro quotidiano.
Bimbi e adulti che ci riempiono di affetto sincero.
Il tempo mi ha insegnato ad amare la mia piccola gioia e Dio mi ha donato due altri gioielli sani e stupendi. Ora sono cresciuta e sono molto serena anche se non sopporto vederla soffrire ed ammalarsi, ma anche in questo abbiamo fatto passi da gigante e il nostro inverno è passato alla grande...
"Lei"... una meravigliosa bambina di nome Marika".
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