trasalire d'un tratto alle conversazioni fitte, con un francesco che credevo perso tra i meandri non così segreti del mio cervello. non potevo fare a meno di pensare a quanto potessi dare al mondo, mia casa o meglio mio squallido rifugio impostomi sin dalla nascita. il sentirsi immensamente stretti in questo concatenarsi e affollarsi di gente non era poi così poco convenzionale. se ne parlava ovunque, della discrepanza di idee che portava ad un'alienazione psicosociale e nettamente separata da quella che definiremmo pazzia. scioccamente, ero certa che ad un tratto l'ispirazione per un qualcosa di almeno lontanamente collegabile alla sacra e verginissima arte, sarebbe arrivato. venuto come un uomo durante l'orgasmo più animalesco e puerile. ma sotto strati e strati di idee si affollavano numerose voci, tutte urlanti e gementi una sola cosa: inerzia. la mia pigrizia non era solo fisica, come ero certa che fosse. covava nella mia maligna dissociazione tra io e subconscio un doloroso fatto, tangibile e come io stessa avevo descritto allo stesso francesco: "toccabile". ma come o dove la cosa avesse preso la forza di svilupparsi non sapevo. ero solo tremendamente consapevole del fatto che prima o poi non sarebbe bastato il parlare o scrivere del fatto in sé. c'era un disperato bisogno di sviluppare, fecondare l'utero delle idee nonostante fossi nel pieno del mio ciclo mestruale. daniela aveva definito la cosa come un aborto spontaneo e nicoletta, rincalzando nella sua beata ignoranza della guerra che stava per dichiararsi nel mio utero, l'aveva definito un pianto di quest'ultimo. quindi le idee morivano e venivano espulse come il sangue che colava molle e tiepido. come lui, le mie sacre e verginissime idee stavano per finire in un pantano morto. non avrei potuto permettere una così affascinante auto aberrazione. dovevo farle nascere, dovevo nutrirle con quelle mie lacrime interne. nutrienti come latte di madre biologica, mortali come le pillole al cianuro che avevo pensato di portarmi dietro sotto anelli antiquati e adatti allo scopo. collezionare la morte avrebbe significato forse inscatolarla? avrebbe significato forse riuscire a produrre davvero la sacra e verginissima arte che contemplavo da anni? tremenda e lontana, la mia musa diamanda galàs era da qualche parte a continuare a non sapere della mia incauta esistenza. i metri che mi separavano dalla vera natura del mio cervello e la banale rappresentazione del mio corpo erano mine anti uomo che provavo a far espoldere. ne sarebbe risorta una creatura sostanzialmente più interessante, seppure riottosa ad essere considerata tale da quest'umanità così lontana e piatta. a pochi km da lei, ignari del fatto di essere mete raggiunte dai miei pensieri, giacevano nei loro letti persone davvero stimolanti e che mio malgrado avrei dovuto ancora conoscere per anni. forse decenni. francesco non aveva solo fatto sesso con il mio corpo, era riuscito a darmi idee per due anni. daniela aveva a sua volta reso incline alla poesia più futurista e crudele che potesse esistere la mia mente. nicoletta era la musa del teatro, nonostante sorridesse troppo spesso per i miei gusti. aveva le sembianze di una niade dei boschi irlandesi. in realtà, come me, era una creatura fatta di ombre e silenzi. nell'inconscio ormai manifestatosi della mia natura ero e sarei stata per molto tempo una creatura scheletrica e vertiginosamente alta. la pelle cadaverica non era un inno alla perfezione diafana tardo ellenistica, ma un conciliante legame tra vera morte e mera vita. una necrofilia platonica e suggestiva che aiutava a farmi capire quanto fossi inadatta nel mio corpo.