È come oltrepassare la boa, il punto di non ritorno. Una distesa di acqua placida, nessun corpo a turbare la superficie. Chi nuota. I pedalò. Il morto a galla. Chi si immerge respirando acqua a pieni polmoni. Chi annega appeso ad un albero. Chi galleggia, sempre più su, ciao Luna, ci vediamo quando torno. Dieci, forse cento, mille anime, forse nessuna. Grigio acrilico in ogni tonalità, cercando colori cancellati e dimenticati. Sepolti e lontani.
Capita però che lo spazio si dilati. È allora che tutto si fa d'ombra: le sinapsi vanno in corto, le lancette si fermano. Forse non si sono mai mosse. Le pareti si allontanano, pochi corpi compressi in spazi illimitati. Eventi soltanto sognati corrono al loro orizzonte di Converse e jeans aderenti. Capelli come di seta stritolano il mio corpo, a stento respiro. Scudisciate di smeraldo sulla schiena nuda. Il silenzio si fa assordante, i timpani sanguinano, il petto esplode. Vedo labbra danzare, tessere sogni troppo distanti per essere afferrati. Il desiderio di estrarre il serramanico. Recidere, straziare. Come se questo avesse senso. Come se questo potesse ricucirmi. Come se questo potesse donarmi la voce.
Ma ormai dietro a ben altro orizzonte corre a nascondersi il sole. Forse meno aggraziato e sensuale, eppure ugualmente necessario. Sento anziani anagraficamente inappropriati contendersi un osso. Che sia segnato da un "non trasferibile", virtuale o infilato in autoreggenti e tacchi alti. Poco importa. La lotta. La supremazia. Io ce l'ho più lungo, sono io il perdente alfa.
Nella penombra, Lilith implora qualche carezza. A volte mi domando se possieda un'anima. Forse lacera, ridotta a brandelli, come quella del suo compagno. Forse decisa, a volte sognante, mai fredda e scavata. Come la sua stessa voce.
Ancora una volta Lilith canta il suo dolore, per un pubblico di stelle. Ancora una volta geme per le dita che la sfiorano. Ancora una volta sangue e qualche lacrima minore si abbracciano sotto lo sguardo, ormai materno, della dolce Selene.