Da tempo non calava questa nebbia su Venezia. El calìgo, come lo chiamiamo noi. Un'ovatta umida, a tratti fumigante, avvolge la città. Si attraversa in gondola il Canale e si intuisce appena la massa livida dei palazzi, i quali, nei piani più alti, scompaiono alla vista. I gondolieri stessi sembrano non conoscere la direzione e la prua fende l'acqua densa e diaccia, quasi seguisse, mansueta, un tragitto imparato a memoria. Appare di colpo il pontile per l'attracco e sopra ogni palo sta fermo, marmoreo, un gabbiano. Nelle calli i muri ravvicinati, seminudi dei loro intonaci, trasudano salsedine. Bisogna davvero amarlo questo odore, che non è buono, ma e' il medesimo di cinquecento anni fa. I passanti, dapprima li senti dal rumore del passo, scendere i gradini di un ponte, imboccare una calle, ma li vedi solo quando ti sfiorano. Un prete, un ragazzo, una donna con la borsa della spesa.
All'angolo di campo San Stin, dove si incunea una stretta calle tra negozi artigiani, la nebbia ha intrappolato il profumo di vaniglia del laboratorio di un pasticciere, e come si gira l'angolo, una vaga percezione di crema e delicatezza ti avvolge... Piazza San Marco nella nebbia è come un teatro in cui parte delle quinte sono diventate mobili. Appare e scompare a tratti. La basilica nemmeno la si vede tutta intera. Ecco il portone di sant' Alipio e mezza cupola centrale, l'oro dei mosaici sembra volgare ottone, senza la luce del giorno. I mori battono l'ora dall'alta torre, colpi di bronzo soffocati. Immagino l'umidità della nebbia colare in rivoli lungo le loro armature. Impossibile poi ammirare il bacino. Si intravede soltanto il nero dondolìo compatto delle gondole, ma oltre, forse, lo Stige... Solo la sirena cupa ed attenta delle motonavi, dirette verso non so dove, avvisa che oltre c'è l'acqua.
Venezia nella nebbia si muove ancor più lenta, ed essa è quanto di meno moderno si possa immaginare. Venezia schiaccia ogni telematica, ogni velocità. La sua immutabilità suona come una sfida al mondo. O così o distruggetemi!