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La scannatura del maiale
Ai miei tempi era tradizione, al sopraggiungere dell'inverno, poco prima del Natale, ammazzare il maiale. Più precisamente l'operazione è conosciuta come "scannatura" del maiale, da cui il titolo.
L'origine della parola scannatura viene dal verbo "scannare", usato ancora oggi con un'accezione truculenta, riferendosi più specificamente ad una morte brutale e animalesca. A sua volta dal verbo scannare deriva lo scanno, ossia lo strumento utilizzato e appositamente creato per ammazzare il maiale.
Naturalmente, non tutti all'epoca potevano permettersi questo "lusso" ma solo chi possedeva una campagna e abbastanza mezzi per acquistarlo e mantenerlo.
Ho avuto la sventura di assistere a tale pratica, in quanto la famiglia della mia madrina, proprietaria di numerosi appezzamenti di terra e piuttosto facoltosa, la eseguivano con regolarità ogni anno.
La mia famiglia, o per meglio dire mia madre, (mio padre non aveva lo stomaco per parteciparvi) era solita dare una mano in queste occasioni, come in molte altre, pur meno tragiche e meno impegnative, ma per noi noiose, ad eccezione di questa, a cui partecipavamo con curiosità mista ad una certa dose di paura.
Dopo averlo nutrito a puntino con "pastoni" a base di crusca e piante grasse cresciute in loco, mescolate insieme con siero di latte (che i pastori davano al contadino in cambio dei prodotti della terra) e avanzi di ogni tipo, comprese bucce di cocomero o di altra frutta, scarti di pasta, croste di pane muffito o secco e quant'altro non fosse per l'uomo più commestibile; dopo averlo allevato e ingrassato per circa un anno, tenuto al riparo dalle intemperie o dal sole cocente nel suo bel porcile appositamente costruito per il suo ricovero, il quale veniva ripulito dagli escrementi ogni mattina; dopo averlo fatto "pascere" in uno spazio piuttosto ampio, apparentemente aperto ma protetto affinchè non superasse i confini per esso stabiliti, libero di rotolarsi fra la terra e di grufolare a suo piacimento, arrivava il momento fatidico per il maiale di restituire tutte le cure e le attenzioni che esso, ignaro di tanta magnanimità e generosità, aveva ricevuto nel corso della sua agiata e comoda vita, servito e riverito come un pascià.
Prima di sottoporre il maiale al suo supplizio, si disponeva nel locale che doveva servire per la scannatura, tutto il necessario per conservare e depositare quanto si sarebbe ricavato dal suo bel corpo grasso e ben pasciuto.
Al centro della sala si poneva lo scanno, il tavolo "operatorio" o delle "torture" a seconda dei punti di vista: una pesante e spessa tavola, leggermente inclinata da una parte che terminava ad imbuto, proprio dove si sarebbe dovuta posizionare la testa del maiale, a penzoloni, col collo libero e in bella vista e con la faccia rivolta verso il pavimento.
Il resto del corpo occupava il largo scanno, a pancia sotto e con i piedi legati e fissati con una corda ai quattro lati della tavola. Per terra, proprio sotto la testa, veniva deposto un capiente orcio di terracotta per poter raccogliere tutto il sangue defluito dalla sua gola e che doveva essere costantemente mescolato affinchè non si coagulasse.
Questa accortezza era necessaria perché, contrariamente a quanto si pensi e si faccia oggi, il sangue del maiale non veniva buttato ma usato per farne il tipico sanguinaccio, un dolce ottenuto mescolando al sangue lo zucchero, il cacao, le noci in pezzi o l'uva sultanina: una vera prelibatezza, da mangiare puro, così com'era (un antenato della nutella) o per preparare delle ottime crostate. Il sangue poteva anche, per chi lo preferiva, essere cucinato in padella con un pizzico di sale e una volta rappreso consumato ancora caldo.
Sul soffitto venivano fissati, con dei grossi ganci, lunghi bastoni che sarebbero serviti in seguito a sostenere ben allineati i salumi, le coppe, le pancette e tutti i prodotti ricavati dalla dissezione del corpo dopo la scannatura e la pulitura, e ai quali sarebbero rimasti appesi fino alla giusta stagionatura.
Naturalmente nel corso dell'operazione il maiale non aveva nessuna intenzione di collaborare, non gradendo affatto il trattamento ad esso riservato. La povera bestia si dibatteva come un ossesso e lanciava degli urli così strazianti e terrificanti che a noi bambini facevano accapponare la pelle.
Istintivamente ci coprivamo gli occhi con le mani ma pur con tutto lo spavento e il ribrezzo provati non arretravamo di un passo dalla scena tremenda che di lì a poco sapevamo si sarebbe svolta.
Anzi, più esso gridava, più scostavamo le mani dagli occhi per osservare meglio la scena e non perderci il momento decisivo.
Per quanto raccapricciante il fatto potesse risultare, la nostra reazione davanti alla prospettiva del cruento avvenimento era una sensazione a metà strada tra orrore e gusto sadico, tra repulsione e curiosità, tra disgusto e piacere di crudeltà, tra istinto di fuga e punto critico di "sopportazione".
Gli strilli acuti e laceranti emessi dal povero animale avevano una valenza differente a seconda di chi li ascoltava: per gli adulti rappresentavano la consapevolezza che la bestia conoscesse la fine che l'attendeva, per noi bambini, invece, la convinzione che essa soffrisse per le torture cui veniva sottoposta.
Anche noi lanciavamo delle urla quando il maiale strillava e io, meno coraggiosa e apparentemente dispiaciuta, piangevo per la sua sorte. Tuttavia restavo lì, impietrita dal terrore ma al contempo masochisticamente inamovibile.
Gli adulti ci lasciavano assistere durante la fase preparatoria ma all'avvicinarsi del momento decisivo, ci facevano allontanare, adducendo come scusa che il nostro pianto o le nostre urla avrebbero sortito come unico effetto il prolungarsi dell'agonia della povera bestia.
Noi fingevamo di allontanarci, ma restavamo nei paraggi, acquattati dietro le porte dei locali attigui, spiando a turno o tutti insieme, facendo capolino dagli stipiti, sicuri di non essere visti dai grandi perché troppo impegnati a compiere ciascuno il proprio compito: chi a tenere fermo il maiale nonostante fosse legato, chi a sgozzare il maiale tenendo aperta la ferita con la lama del coltello, chi a mescolare con un lungo bastone il sangue che colava dallo squarcio che si apriva poco per volta per facilitarne e accelerarne l'uscita, ma più probabilmente per porre fine più velocemente all'agonia della bestia, che infine moriva dissanguato.
Quando tutto il sangue era defluito dalla profonda ferita e il corpo della bestia aveva ormai smesso di agitarsi, si passava alla fase successiva che consisteva nel versare sul corpo del maiale morto acqua bollente affinchè i pori della pelle si dilatassero e lasciassero staccare le setole.
Si dice che del maiale non si butti via nulla e in effetti anche le setole avevano la loro importanza. Da esse se ne ricavavano delle spazzole o degli scovolini per pulire il fondo di quelle bottiglie su cui si depositavano dei residui resistenti alla semplice sciacquatura, difficili pertanto da raggiungere e da rimuovere e che poi venivano utilizzate per fare la conserva.
Dopo la scuoiatura, la pelle del maiale appariva bianca e levigata come quella di un pupo dopo il bagnetto, ma non altrettanto morbida, così lo si rigirava a pancia all'aria e si passava all'incisione centrale del corpo partendo dal foro del collo fino all'attaccatura della coda.
Proprio come in un'autopsia, si allargavano pian piano i lembi dei quarti fino all'apertura ottimale, per poterne vedere le interiora e provvedere alla loro estrazione.
Mi chiedevo come facessero a non vomitare o a non vacillare per un solo istante di fronte allo spettacolo di tale squartamento, mentre oggi deduco che la lunga pratica avesse reso del tutto indifferenti e meccanici i loro movimenti, eseguiti senza errori o esitazione, con incisioni sicure, nette, degne di un vero chirurgo, compiute con la medesima freddezza, la stessa ferma impassibilità e lucida precisione.
Ancora fumanti e a mani nude si iniziava l'estrazione delle interiora: un'operazione che richiedeva una certa competenza, da svolgersi con delicatezza ma al contempo con destrezza perché si dovevano rimuoverle (cosa non facile, vista la scivolosità delle sue pareti, sfuggenti come anguille) senza farle rompere.
Una volta estratte, districate e svuotate dei residui organici puzzolenti, venivano lavate più e più volte con abbondante acqua calda fino a che risultavano candide e non più viscide al tatto. Esse venivano selezionate e a seconda della loro grandezza dovevano servire in seguito come contenitori per salami magri o grassi, schiacciate o soppressate.
Si passava poi ad estrarre gli altri organi: cuore, fegato polmoni, rognoni, milza, stando attenti a non forare la cistifellea che, se aperta, avrebbe reso pressoché inutilizzabile la carne "irrorata" dal verde e amarissimo liquido; venivano ripuliti dalle loro pellicole, guaine o grasso che li ricopriva ma che come tutto il resto non veniva scartato, bensì utilizzato, ciascuno preposto ad uno scopo diverso.
Persino la vescica del maiale, una volta svuotata, lavata e sterilizzata, veniva fatta essiccare, dopo averla gonfiata come un palloncino, per essere in seguito utilizzata come recipiente per lo strutto, o "sugna" come si chiama dalle nostre parti. A sua volta la sugna si ricavava facendo sciogliere in un grosso recipiente una parte del grasso di maiale, da cui si ottenevano i deliziosi e gustosi ciccioli, mangiati ancora sfrigolanti e croccanti o per preparare delle ottime e friabilissime torte salate, che venivano avidamente consumate da noi bambini non appena sfornate. Tolti i ciccioli, il grasso liquido restante veniva versato in vasetti di vetro o di coccio e lasciato raffreddare.
Io mi divertivo a guardarne la sua graduale trasformazione: il liquido fumante e giallastro pian piano si rapprendeva e raffreddandosi diventava mano a mano sempre più chiaro e denso fino ad assumere la definitiva colorazione bianca, simile a neve o calce viva in cui le dita affondavano come burro nonostante l'apparente solidità e consistenza.
Solitamente lo strutto veniva (e viene tuttora) impiegato per la preparazione di sfoglie o di impasti per torte dolci e salate, molto spesso veniva usato al posto dell'olio che non tutti potevano permettersi in grandi quantità.
Una volta svuotato di tutto il suo contenuto e averne mozzato il capo, il corpo del maiale veniva tagliato in due e appeso con dei grossi ganci ad uncino, fissati all'alto soffitto e impietosamente conficcati negli arti della bestia, dove venivano lasciati ad "asciugare" e a riposare per un giorno.
Poi veniva la parte della dissezione vera e propria: gli arti posteriori venivano preparati per farne dei gustosi e succulenti prosciutti; dal collo veniva prelevata la carne per farne le coppe, stese o arrotolate e le lonze, magre, ben arrotolate e confezionate col loro spago; dal ventre si ritagliavano grassi e consistenti tranci di pancetta, da salare e speziare a piacimento; tutto il resto veniva tagliato a pezzi, poi a listarelle e infine tagliate più minutamente con coltelli ben affilati fino a ricavarne un impasto di pezzetti minuscoli di carne magra, separata dal grasso, anch'esso tagliato a piccoli pezzi. Alla fine di questo certosino lavoro, svolto quasi prevalentemente dalle donne, tutta la carne veniva condita e selezionata per essere poi insaccata.
Questa operazione viene eseguita oggi con l'aiuto di macchine apposite con gli annessi strumenti atti a triturare e ad insaccare, mentre ai miei tempi tutto veniva eseguito rigorosamente a mano. Questo richiedeva sicuramente un gran dispendio di tempo ma tutta la fatica era compensata dai risultati ottenuti.
Dalla testa privata del cervello (che per noi bimbi costituiva una vera leccornia) si ricavava la gelatina, ottenuta facendola bollire in un pentolone per ore in abbondante acqua salata a cui si aggiungeva aceto e foglie d'alloro per stemperarne il forte e poco piacevole odore. Dopodichè si procedeva a ridurre la testa in grossolani pezzi che poi venivano sistemati in piccole giare di terracotta o in vasi di vetro, coperti dal liquido in cui la carne era stata bollita, il quale una volta raffreddato diventava trasparente e, giustappunto, gelatinoso.
Le zampe venivano anch'esse bollite e si trasformavano in prelibate pietanze da cucinare con i legumi o con le verdure, a seconda del gradimento.
E la cotenna morbida? Quella che non poteva essere utilizzata per farne degli involtini da condire e conservare? Non essendo utile alla preparazione dei cibi, veniva conciata per benino e fatta seccare tenendola ben tesa per farne uno strumento tipico delle mie parti, simile al tamburo, ma usato differentemente e dal suono particolare.
La pelle veniva fissata, ben tesa, e legata con lo spago intorno ad una cassa vuota e di forma tondeggiante ma la superficie non restava intatta, nè serviva per essere percossa, come si fa con il tamburo, bensì veniva forata al centro e nella piccola fessura si infilava una sottile ma resistente cannula. Agitando la cannula dal basso verso l'alto con la mano stretta a pugno su di essa, veniva prodotto un suono cupo e ritmico che serviva da accompagnamento agli stornelli che a turno ciascun "cantante" inventava al momento, come si fa oggi per brindare e celebrare il festeggiato del giorno. Proprio a causa del tipico suono prodotto, ossia cupo e sordo, lo strumento veniva chiamato "cupa-cupa".
Oggi non si fa praticamente più ma è possibile trovarlo in quei paesini che hanno conservato maggiormente tale tradizione e che viene usato soprattutto nel periodo di natale, insieme all'altro strumento più caratteristico che è la zampogna.
Dopo il lungo ma proficuo lavoro, c'era ben poco da buttare nella spazzatura, anzi direi proprio nulla, se si eccettua il sacrificio del povero maiale, offerto al prezzo della propria morte.
Oggi tale pratica è meno diffusa ma non scomparsa del tutto. Coloro che ancora posseggono terre e prole cui trasmettere oltre all'eredità materiale la cultura e la tradizione contadine, perseverano in tale usanza, per quanto essa non serva, come lo era un tempo, a garantire, insieme ai prodotti della terra, la principale fonte di sostentamento "carnivoro", essendo sostituito oggigiorno da una varietà enorme di cibi tra cui scegliere e più facilmente accessibili e reperibili, anche se più dispendiosi economicamente o meno genuini.
È strano come allora gli adulti non si preoccupassero di provocare shock o traumi infantili sottoponendo i propri bambini ad uno spettacolo così cruento come la morte, fosse anche solo quella di un animale e non si gridasse allo scandalo o allo stupro delle coscienze innocenti per aver leso o oltraggiato i diritti di un sano e tranquillo sviluppo psichico e intellettivo, come oggi si usa tanto fare ma che nella pratica non viene sostanzialmente applicato, considerata la normalità con cui la televisione bombarda giornalmente, con immagini di ogni tipo, i nostri sensi, compresi quelli di chi maggiormente dovrebbe essere protetto e risparmiato da tutto ciò.
Si trattava, allora, di beata incoscienza o piuttosto di ignoranza bella e buona, inconsapevole delle conseguenze che simili visioni potessero provocare nella fragile e ancora poco formata psiche di un bambino.
Se è vero che oggi sono uscita indenne da tali esperienze di "quotidiana e lecita violenza", non significa che non abbia conservato il ricordo indelebile di un passato in cui forte prevale la sensazione di un'innocenza rubata e violata, il turbamento di un'infanzia che poteva essere senz'altro meno segnata o deturpata dalla visione di un mondo adulto così truculento e crudo, così tanto reale e privo della tipica immaginazione creativa e sognante di cui i bambini sono naturalmente dotati.
Ma sebbene oggi non riesca a sopportare nemmeno la vista del sangue, o a giustificare la necessità della violenza, di qualsiasi forma e natura, ho voluto rievocare il ricordo nudo e crudo di ciò cui per tanti anni ho assistito con tanto "coraggio" e inconsapevole "follia".
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l'autore Fernando Piazza ha riportato queste note sull'opera
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- Piero, innanzitutto grazie per aver letto il mio lungo racconto-documentario. Se hai letto i commenti in calce avrai capito come la pratica si sia oggi evoluta ma non estinta completamente. Per quanto riguarda l'ammazzamento dei conigli e delle galline, dalle mie parti, ma in genere in tutto il sud, all'epoca dei nostri nonni era (e lo è ancora oggi, in quei paesi dell'entroterra più isolati, per le famiglie che posseggono una casa e uno spazio per gli animali da cortile) una prassi comune e molto diffusa perché gli animali venivano acquistati vivi e bisognava provvedere da soli alla loro uccisione. Pratica eseguita, tra l'altro, quasi prevalentemente dalle donne, in quanto erano loro che si occupavano della preparazione dei pasti. Per i conigli bastava un deciso colpo di mano a taglio sulla nuca, mentre per le galline esattamente come da te descritto (mia sorella, dotata di un certo gusto sadico nonchè di un notevole sangue freddo, era una specialista nell'arte di ammazzare entrambi). Anche la ricetta era quasi simile, tranne l'aggiunta del latte. Invece, la pratica della masturbazione ai maiali allo scopo di calmarli è per me una notizia del tutto inedita e piuttosto insolita. Grazie per le preziose informazioni e alla prossima. Anna
PIERO il 12/02/2012 09:10
Complimenti, Anna per la descrizione dettagliata. Mi interessava proprio sapere come andava la cosa. Dei colleghi di lavoro ferraresi mi raccontarono che, per calmare almeno un po' la povera bestia, assolutamente consapevole di quello che gli stava per capitare, lo... masturbavano. Credo che i bambini della mia generazione non venissero turbati pi di tanto dall'assistere a certe scene. Io ricordo mio padre che ammazzava il coniglio, dopo averlo appeso per le zampe posteriori, con un colpo secco del manico del martello sul naso, e mia madre che prendeva la gallina sottobraccio e poi, con le forbici, le tagliava la lingua, raccogliendo il sangue in una scodella. Scodella piena = gallina morta. Del sanguinaccio del maiale sono ghiotto: da noi si chiama budino e si fa, sopra un soffritto di cipolla, tolto dal budello e sbriciolato, unito a qualche pezzo di salsiccia, irrorando poi il tutto con un po' di latte. Si accompagna con polenta. Detto questo, se non esistessero i macellai, sarei probabilmente vegetariano.
- Quella di tirare il collo alle galline e di dare un colpo in testa ai conigli era una prassi diffusa ma necessaria anche dalle nostre parti ed eseguita da mia nonna e dalle donne in genere. Chissà perchè...
Grazie per la lettura. Anna (per la precisione il testo è mio, come scritto nella nota, non di mio marito).
- Mi hai fatto ricordare che toccava sempre a mia madre procedere in una operazione meno complessa ma non meno violenta della scannatura del maiale. A quei tempi galline e conigli si compravano vivi e toccava ammazzarli. Mio padre non ha mai fatto nulla a riguardo la vita in casa, e noi piccoli, un po' per terrore un po' per tenerezza verso la bestiola che prima avevamo accarezzato, mai abbiamo aiutato la mamma.
- Che carina Carla, ad aver letto questo lungo racconto, che come più volte detto nei commenti qui sotto ha più un valore documentaristico che narrativo. Avrai pure capito che oggi non farei più da spettatrice ma il ricordo è rimasto così vivido nella mia mente (proprio per la violenza delle immagini) che l'ho voluto trascrivere fedelmente. Un grande abbraccio e grazie. Anna
Anonimo il 09/02/2012 14:20
è stato duro leggere questo racconto anna, considerando che non mangio carne al sangue ed alcune volte cerco proprio di evitarla... anche io mi sono chiesta il perchè queste pratiche così dolorose... alla fine del tuo racconto mi sono detta beh almeno lo scopo è quello di per cibarsene, poichè in alcuni posti del mondo torturano alcuni animali tipo "gli orsi delle fattorie della luna" solo per produrre creme ed altro. Ho scritto una e-mail a "striscia la notizia "nella persona di Edoardo Stoppa per questa agghiacciante praticae devo dire dopo qualche tempo hanno dato un servizio proprio su questi dolci orsi... comunque tornando al tuo racconto e pensando solo al tuo scritto devo dire, come sempre, che sei molto brava e che mi complimento con te un bacio cara anna...
- Cara Mariateresa, hai perfettamente ragione sull'etimologia e sulla derivazione della parola scannare: è infatti lo scanno (in quanto oggetto preposto allo scopo di... e nato dopo) a derivare dal verbo e non il contrario. Molto giusto, dunque, e ti ringrazio per la rettifica, tra l'altro ineccepibile. Per quanto riguarda il far pubblicare nel mio spazio anche la roba di mia moglie forse hai ragione: dovrebbe farsi un nick suo, come anche altri hanno suggerito ma per pigrizia (o perchè non sappiamo come si fa, utilizzando lo stesso computer) abbiamo lasciato le cose così e utilizziamo le note per differenziare i nostri scritti. Ti ringrazio comunque per l'attenzione e a rileggerti
- Sinceramente io non pubblicherei mai il testo di un'altra persona... questa cosa mi lascia perplessa... vorrei solo dire che nella spiegazione della parola " scannare" che l'autrice fa risalire al sostantivo " scanno ", ci sarebbe da rettificare. Scannare deriva da canna della gola, con s sottrattivo, ossia tagliare le canne ( i vasi che portano il sangue ) e dare sbocco al sangue. Infatti vengono recise le arterie del collo e della trachea dell'animale.
- Mau, non ti preoccupare per la faccina... sapessi quante volte è capitato a me! Succede quando si usano le parentesi. Secondo me è la vendetta dei computer super oberati di lavoro (per loro niente diritti sindacali eheheh) che prendono "vita" e si divertono a giocarci dei tiri mancini...
Se hai letto i commenti sottostanti avrai capito che oggi mia moglie non avrebbe più il coraggio di assistere a tale pratica, tuttavia lo scritto è un documento, una ricostruzione fedele delle sue varie fasi. Sapevo che era in uso anche altrove e da te apprendo che la tecnica è differente, meno cruenta, forse più "umana" se così si può dire, ma comunque praticata. Dalle parti di mia moglie lo si fa per un motivo preciso, come hai letto: il sanguinaccio. Però il capretto... dalle vostre parti, non è meno fortunato del suo maiale.
- ps: quella faccina non da dove sia uscita. non vorrei essere frainteso.
- Bel racconto, senza veli e falsi pudori su una pratica diffusa ancora adesso anche dalle mie parti. Abitando io in città non ho mai assistito allo scannamento del maiale, che peraltro qui si fa in maniera diversa, con un colpo di mazza assestato in fronte (da qui il nome dell'uccisore: "mazarin", ma di galline e conigli si. E senza aver mai grossi traumi, probabilmente perchè si trattava di morti veloci e alquanto indolori. Ciò che ricordo invece ancora con angoscia è stata l'uccisione di un capretto, avvenuta anch'essa per dissanguamento, come quella del maiale dalle vostre parti. la povera bestiola ha urlato, in tutto e per tutto simile ad un neonato, per almeno 5 minuti, tanto è durato il suo calvario. E questa è una vera e propria bestialità ammessa e anzi obbligata da troppe culture. Ma è la vita. Così va il mondo. Comunque complimenti all'autrice.
- Caro Bruno, come ho già detto in altri commenti oggi non assisterei a tale pratica nemmeno pagata... e di fatto noi bambini non eravamo autorizzati ad assistervi. Tuttavia, per quanto sconvolgente potesse essere tale realtà, la curiosità in noi bambini era talmente tanta da farci superare ogni paura... I genitori erano costretti a portarci con sè, non avendo a chi lasciarci, e nonostante ci imponessero di stare altrove, noi trovavamo sempre il modo di infrangere la regola. Se pensi che ancora oggi, come ieri, i bambini non fanno altro che "giocare" alla guerra, da sempre abituati all'idea della violenza, bombardati come sono da mille immagini televisive, alla cui visione è pressoché impossibile sottrarsi... capisci come tutto sia esattamente uguale, oggi come ieri... Potrebbe forse essere un modo, sicuramente estremo e crudelmente inadeguato, per esorcizzare la morte fin dalla più tenera età, ma temo che nessun pedagogo potrebbe sostenere la validità di tale affermazione.
È vero che oggi la macellazione (fatta per la distribuzione su larga scala e ad uso commerciale) avviene con metodi meno cruenti, ma qui si tratta di una pratica ad uso "privato", di cui nulla viene sprecato... in uso ancora oggi ma non così diffusa come un tempo. Ciao Bruno e grazie del passaggio. Anna.
- È decisamente un testo da leggere cautamente se si amano gli animali in genere. La soppressione del maiale, come quella dei vitelli e via dicendo, penso sia la più cruda in assoluto. Da ragazzo ho lavorato in macelleria (sette anni) ed ho assistito all'uccisione delle mucche e dei buoi, ma lo sparo in fronte al confronto è cosa da poco. Un racconto descrittivo nei particolari che visti con gli occhi di un bimbo possono accapponare la pelle e traumatizzare pur se la curiosità di vederne la fine è quanto mai acuta e prepotente. Una pratica ancora oggi in uso... penso che oggi non potrei assistere a quello spettacolo del coltello nella gola fino allo svuotamento del sangue. Tuttavia complimenti per la descrizione accurata e particolareggiata. Brava Anna... ma come hai fatto, da bimba, ad assistere a tutto ciò?
- Giacomo, sei mancato parecchio ed è normale che ti sfugga qualcosa... tuttavia ci sei e questo Ci fa piacere. Innanzitutto complimenti per la tua gara: un 3 posto onorevolissimo, direi. A proposito del Concordia, ma lo sai che ci era passato per la mente il pensiero che tu fossi nei paraggi della tragedia? Il mess. di Karen sul tuo profilo ci ha messo la pulce nell'orecchio. Non pensavamo a nulla di tragico tra parentesi, solo che tu fossi là, testimone(da te sappiamo mancato) dell'evento. Grazie per il bellissimo commento e anche delle preziose e numerose informazioni che spesso ci regali e che arricchiscono sempre più la nostra cultura personale... Sei forte Jack. Un megasaluto, anzi doppio
- Marcello, un bellissimo e graditissimo apprezzamento da parte tua, derivato certamente da un'attenta nonchè "sentita" lettura... Era in parte un po' questo l'intento del racconto, anche se l'accento è stato posto principalmente sull'aspetto "documentaristico" della pratica in quanto tale. Ma è difficile a volte separare i diversi piani della scrittura... Ciao e alla prossima
- Come dici tu Bianca, farà pure una finaccia il povero maiale, ma si dà il caso che i suoi salumi siamo molto apprezzati da una sacco di gente, però... e comunque non meno brutale di quella di tante altre povere bestie... Oggi mia moglie non vi assisterebbe nemmeno pagata e vivrebbe benissimo senza i suoi cotechini, tuttavia ciò non impedisce che tale pratica venga dismessa...
- Vito, tu dovresti conoscerla bene questa pratica, no? Io invece non conoscevo Albino Pierro (al contrario di mia moglie) che poi, se non ricordo male, è lo stesso autore che ti ha ispirato quel bellissimo testo "L'ultimo abbraccio", vero? Mi documenterò su Pierro... Ciao e grazie per l'attenzione.
Anonimo il 21/01/2012 15:16
Mi ero perso questo pezzo... in quel momento ero in mezzo al mare, nella zona del disastro della Costa Crociere.
Un tema difficile da trattare che invece la signora Anna è riuscita a rendere in modo tecnicamente ineccepibile senza trascurare la parte psicologica dei vari personaggi che gravitavano intorno a questa specie di festa.
Ho in barca lo stesso attrezzo, lo scanno, che io uso per far perdere il sangue ai tonni e agli alletterati... per fortuna quando sono morti. Li appendiamo al bordo della barca e lasciamo poi che l'acqua di mare pensi al lavaggio. Io ero come tuo padre... dovevo scappare, in quei frangenti. ciaociao... e brava. hai il dono della narrazione... sei bravissima.
- Descrizione accurata e perfetta, oltre che della "scannatura"del maiale anche delle sensazioni contrastanti vissute dai ragazzini che assistevano alla pratica. Mi é capitato più volte di assistere, in campagna, all'uccisione di animali allo scopo di nutrirsene e, nonostante la pratica sia crudele, si percepisce comunque la "necessità". Brava, a mio avviso, un pezzo molto valido che fa vivere l'evento con emozione. Ciao, un saluto a Fernando.
- Che finaccia il povero maiale... anche se non credo che questa pratica sia in uso solo al sud. Tutti i sacrifici per allevarlo li vale tutti alla fine se, come dici, del maiale non si butta via nulla...
Anonimo il 14/01/2012 16:41
Mi sembrava una cosa lucana, e infatti è una composizione della signora Piazza C'è una poesia di Albino Pierro proprio su questo tema
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