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Come nasce e muore una passione 3° (ultimo)
conclusione 2° parte
Oggi uno prende una boccia di tranquillante, si attacca ai moschettoni di un istruttore e via, di colpo in caduta libera per un minuto. Così, senza aver mai fatto niente prima. Basta un certificato medico e duecentocinquanta euro (con trecento ti fanno anche le foto e il video) e prova già tutto. Non capirà un cazzo, d'accordo, ma intanto impara cos'è la caduta libera. Io allora non lo sapevo. E per impararlo ho rischiato del mio. Come tutti quelli prima di me. Come quelli che io chiamo parà veri.
Per ognuno di quei lanci, e in seguito pure, anche se sempre meno, io ho avuto paura. Paura di tutto, paura di qualsiasi cosa. Paura di me, degli altri, della sfiga. Fin che non son passato all'uscita in tuffo e poi al volo in gruppo (ed anche li c'è da averne di paura e non poca) io ho avuto paura. Ed è stato bello. Solo che non è durato.
Terza parte (conclusione)
L'apprendimento è una cosa appagante. Ci sono momenti in cui direi che è il sale della vita. Se però sbagli e ce ne metti troppo viene una schifezza e rovini tutto. Se ho reso l'idea, bene, se no pensate pure alla trita e ritrita "fare il passo più lungo della gamba". Ma insomma, deve essere graduale, senza mai farsi prendere dalla fretta d'imparare. Se però uno ha quasi quarant'anni e nuota in mezzo a pischelli di 18 - 20 la cosa diventa subito un tantino in salita. E questa era la mia situazione.
C'erano vantaggi e svantaggi: sul ragionato non c'era gara, a quell'età neppure si ragiona, ma sull'istinto nemmeno. L'istinto, se non lo fai da giovane non lo fai più, oppure ti serve il quintuplo del tempo. E comunque non riesce bene uguale. Altrimenti non si chiamerebbe istinto. I riflessi non sono più quelli. Lo san bene gli atleti che a 34, 35 anni le carriere le han finite o sono in procinto di. Io ne avevo 38. Ma ce l'ho fatta lo stesso.
Che cosa? Completare il percorso di addestramento? Ehi, dico, non offendiamo! Io ce l'ho fatta ad andare ben oltre, anche oltre la semplice attività amatoriale di base. Sono arrivato quasi all'attività dimostrativa e agonistica. E al volo relativo in grandi gruppi. In effetti ci avevo dato dentro come un matto, per i motivi suddetti e per carattere. Il primo anno feci più di centoventi lanci, il che, se conti le domeniche di brutto tempo e quelle in cui sei impegnato altrove, sono una media mica da ridere. E una spesa altrettanto tosta. Credo che avrò dilapidato, tra lanci, paracadute, tute e ammennicoli vari, tutti necessari per la sicurezza, 10 o 12 milioni dell'epoca. Oggi 10-11 milioni di euro. Solo nel primo anno.
Ed ero sempre col naso a pelo d'acqua. Tentavo cose che erano sempre al mio limite e anche oltre. Ricevetti delle lavate di capo dai responsabili del centro che neanche i ragazzini, ma feci una progressione spettacolare. Alla fine del primo anno ero già inserito in una formazione che saltava a quattro, ma quel che ho rischiato lo so lo io. E lo dico solo adesso.
Non mi bastava mai. Non volevo rimanere indietro, con nessuno, mai. Imparai a "fare il punto" ancora prima d'arrivare al volo relativo, per fare un esempio. Fare il punto, nell'epoca immediatamente precedente il "gps", voleva dire stare inginocchiati alla porta, guardare giù e dare indicazioni al pilota per raggiungere il punto adatto per saltare.
Sembra facile, ma non lo è, perché intanto il punto non è in verticale, ma in genere più avanti o più indietro o anche laterale, a seconda del vento che tira in quota. Poi l'aereo non è orizzontale, ma in salita, quindi non sei perpendicolare. Insomma, era una cosuccia che richiedeva esperienza. E doveva esser fatta da un jump master, perché saltare fuori zona voleva dire guai sicuri. Specialmente con gli allievi. Avevo approfittato del fatto che, a volte, pur di non lasciare a terra nessuno, l'istruttore stesso rimaneva a terra, chiedendo, a chi egli pensava che fosse in grado, di dirigere il lancio. E in questo caso, solo in questo, l'età era un vantaggio.
Ma nella discesa libera assolutamente no! Il segreto della discesa libera, che altro non è se non un "galleggiare" sull'aria che ti investe a 200 all'ora, sta nella posizione e nel rilassamento. Proprio così, rilassamento. Se sei teso, fatichi come una bestia, ondeggi, sbatacchi e senza che te ne accorgi ti sposti di qua e di là e in su e in giù. Ora, rilassarsi mentre si viaggia a 200 all'ora verso una meta che, in caso di mala o punta apertura, cosa rara ma sempre possibile, si rivelerà sarà sicuramente fatale, non è proprio così istintivo. E qui l'età, aumentando la consapevolezza, non aiuta.
Ci volle perciò un po' di pazienza, ma le soddisfazioni non mancarono. Così come non mancarono quando cominciammo a saltare in gruppo ( in gergo si dice in relativo). Le difficoltà furono notevoli per il fatto che le fluttuazioni del mio peso (quando raggiungo i cento smetto di mangiare fino a 85) variavano, e di molto il mio rateo. Le superai comprando una tuta in più e lavorando sulla posizione. Insomma, mi arrangiavo bene e, dapprima, mi divertivo anche. Fin che era una sfida.
Quando diventò routine, con sedute di preparazioni lunghe e noiose (bisognava infatti studiare a terra, su speciali carrelli, a pancia in giù, tutti i movimenti e le figure che si sarebbero poi fatte in volo, perché basta un solo errore di qualcuno e tutto il lancio va "buttato via") preparazioni, dicevo, che comportavano ripetizioni su ripetizioni e che a me facevano venire il sangue al naso, cominciai a manifestare i primi segni di insofferenza.
Non c'era più il tempo, ne la voglia, di godersi quel che si faceva. Si era in un meccanismo che doveva girare alla perfezione punto e basta. Se qualcuno faceva un errore ci si incazzava. L'attenzione era puntata sui dettagli, sulla coordinazione, sul lavoro di squadra. Ci volevano ore a organizzare un lancio, con progetti di lavoro infiniti prima e verifiche dopo, spesso noiose e frustranti se il lancio era andato male. Molto spesso il risultato non valeva la candela. Non per me.
Cercai altre strade, saltando a due, a tre, quattro al massimo, o nello stile libero, strade che durarono quel che durarono senza mai farmi impazzire, ma la verità era che se c'erano degli amici simpatici ci si divertiva, altrimenti no, come in tutti i giochi del mondo. L'aereo, le nuvole, il cielo, la bellezza dei panorami, le vertigini dei primi lanci, quando ti ritrovavi appeso a due cosciali a 1500 metri d'altezza, non c'erano più.
Restavano le attese infinite, i ripiegamenti noiosi, le incomprensioni coi responsabili del centro, le invidie e le gelosie tra di noi e tra noi e loro, e la noia di andare, alla fine dei conti, a fare sempre la stessa cosa. Sempre nello stesso posto, sempre nello stesso modo. Evadevamo, qualche volta, anzi più di qualche volta. Abbiamo, ed ho, saltato a Ravenna, Montagnana, Campodipietra, Legnago, Brescia, Bolzano e perfino in un paio di manifestazioni di paese dove tra l'altro non mi piaceva molto andare.
Ma alla fine sempre lì si tornava. Sempre le stesse cose si facevano, e sempre meno gusto si provava. Francamente non era, e non è, il mio genere. Tentai col canopi, volo relativo a paracadute aperto, tentai con i video, accompagnando i tandem, ma ormai era tardi, la noia era più della gioia. Quando mi accorsi, nella pancia di un "Casa", da dove saltavamo per un relativo a sedici, che avevo dimenticato le figure perché pensavo al mio lavoro, capii che non sarei durato.
Ebbi anche un'emergenza, dovuta, lo confesso solo adesso, a un'apertura mentre ero ancora in fase di deriva, cioè senza previo rallentamento preapertura, e anche probabilmente al rallentatore d'apertura lasciato in basso durante la fase di ripiegamento. Il risultato fu un bang micidiale, con sbreghi nella vela e trancio netto delle due bretelle di sinistra. Risultato: calotta a bandiera, sgancio ed apertura del paracadute d'emergenza.
Non presi paura, feci tutto come da manuale, compreso l'atterraggio nell'area piccola che mi procurò anche un rimbrotto da parte dei responsabili, inaspettato, dico la verità. Solo che non ricordavo assolutamente niente del ripiegamento. Era un periodo in cui anche i ripiegamenti li facevo svogliatamente.
Cominciai a saltare sempre più di rado, fin che capii che ero sceso sotto il livello minimo di sicurezza. Vendetti l'attrezzatura e comprai una moto. Erano trascorsi sei anni e 470 lanci. Per qualche anno soffrii d'astinenza, dico la verità. C'erano momenti, quando volavo per viaggi di lavoro, che avrei dato una fortuna per avere un paracadute e poter volare giù, in mezzo alle nuvole bianche che c'erano sotto, altri in cui il solo vedere il cartello con su scritto "Boscomantico" mi mandava in crisi. Perché poi la voglia torna. E come se torna!
Ma quando una porta è chiusa è chiusa. Ancora oggi, dieci anni dopo, da casa mia, sento ancora perfettamente ogni volta che l'aereo della scuola porta in quota i miei amici. Ma non soffro più. Addio amici miei, buoni lanci a tutti voi!
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