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Su di un letto di foglie secche
Si portò vicino al sofà, fece per sistemare il copri divano che si era un poco scostato, poi, con un pesante respiro, si lasciò cadere su una pila di cuscini. Sollevò le gambe e si adagiò mollemente, assumendo una posa che ricordava tanto quella di un triclinio. Occhiaie profonde segnavano lo sguardo di Rita. Si aggiustò istintivamente una ciocca ribelle dietro l’orecchio e incrociò le gambe.
“Non so nemmeno bene come dirtelo Massimo…” aveva gli occhi persi nella plafoniera della lampada appesa al muro.
“Lo so già.” Massimo stette fermo sull’ingresso, le mani in tasca e lo sguardo puntato sul pavimento. Era la confessione di un tradimento
“Sai bene come vanno queste cose… io sono distrutta…” pianse qualche lacrima, reggendosi con la mano la frangia di capelli ricci e neri che le pendeva sulla fronte. “So che anche tu stai soffrendo, Massimo, tesoro…” si portò il fazzoletto sulla bocca e riprese a singhiozzare.
“Ma non è niente, davvero, non è come tu puoi pensare… cioè, forse nemmeno me ne rendo conto, ma va bene così, sei andata a letto con un altro, pace, che vuoi che faccia…” si appoggiò con una spalla allo stipite della porta e rimase a fissare la donna, che nel frattempo si era asciugata le gote.
“Ma… Giorgio è il tuo migliore amico… e….” era incredula. Non voleva pensare che tutto si potesse risolvere così, come un cerino che si affievolisce, senza nemmeno una scenata, una scarica di botte da mettere in conto. Niente.
Il migliore amico. La classifica degli amici. Tu sei il secondo mio migliore amico. Massimo desistette dal ripeterle ancora una volta lo stesso discorso: “Non fa nessuna differenza. È sintomo di qualcosa che tra noi non funzionava da tempo, questo è quanto. Se ti aspetti che mi arrampichi sui vetri o che spacchi qualcosa o che minacci di morte qualcuno resterai delusa.”
Il solito Massimo pensò Rita. Il solito mezzo uomo che si tira indietro al primo accenno di lotta. Il solito che ha paura di scontrarsi, che piuttosto di tirare fuori le unghie si ritira nel suo guscio e tanti saluti. Provò rabbia Rita, rancore nei confronti di un uomo che non aveva mai amato e che ora detestava.
Massimo la prevenne, afferrò il soprabito e se lo mise sotto braccio; Rita lo squadrò, incapace di formulare un discorso razionale, sempre più delusa, amareggiata da quest’individuo che si permetteva di far finta di niente di fronte ad un’offesa. Faceva freddo fuori. Una luce opaca e timida provava a farsi largo tra i pesanti tendaggi dell’appartamento, erano gli ultimi bagliori del tramonto e di una giornata come le altre.
Massimo fece per aggiungere qualcosa prima di voltarsi, ma non ne ebbe l’animo, non provava più niente, solo un vago senso di nausea che lo accompagnava dalla mattina, da quando aveva ricevuto la telefonata di suo fratello Sergio. Il quale gli aveva detto che il loro nonno era morto.
Prese ancora un attimo di tempo, si diresse fino alla cucina, ingollò a canna un sorso d’acqua dalla bottiglia. Un leggero giramento di testa, poi ancora un istante di stasi, infine si decise a percorrere il lungo corridoio che conduceva all’uscita; sentì il fruscio del corpo di Rita sui cuscini, esitò ancora, ma poi si decise a varcare la soglia: due giri di chiave nella serratura ed era fuori.
Per strada si preparavano gli addobbi natalizi, c’erano negozianti inerpicati su traballanti scale che assicuravano le luminarie ai cornicioni e alle grondaie. Non era poi così freddo a farci caso, Massimo camminava lento ma deciso, voleva riuscire a parlare a quattr’occhi con suo fratello, spiegargli la sua situazione, magari elemosinare un giaciglio su cui dormire per i prossimi giorni. La casa in cui stava con Rita di sicuro era da abbandonare, non potevano più dormire nello stesso letto e nemmeno tra e stesse mura, e fa niente se il contratto d’affitto era a nome di entrambi. D’ora in avanti non avrebbe più sborsato un centesimo, non avrebbe più contribuito a niente, avrebbe solo cercato di sopravvivere, senza farsi carico di responsabilità che già in partenza non sentiva come sue.
Quella storia della convivenza poi, era un compromesso fin dall’inizio, non aveva alcuna voglia di andare a vivere con una donna, di dormirci insieme sempre, di vivere come se fossero sposati anche se non lo erano. L’alibi di dividere le spese a metà non poteva più reggere. Metà di cosa poi? Per sé aveva sempre mantenuto un tenore di vita modestissimo, ogni spesa era ridotta all’osso, mentre da quando si era trovato a dimezzare i dispendi con Rita, per un miracolo matematico che faticava a trovare un senso, si trovava con la metà esatta dei soldi in tasca. Un motivo c’era a pensarci onestamente: Rita scialacquava molto più di lui, per cui finiva per intaccare anche le risicate risorse del convivente.
Massimo ebbe un moto di rabbia a pensarci. Due anni di convivenza come due anni al passivo, due anni di imbrogli, corna, tensioni. E tutto per niente. Per poi doversene andare come un cane da una casa che, in effetti, gli faceva schifo, non gli era mai piaciuta. Pensava di accendere un mutuo, tanto per trovare un altro buco in cui infilarsi e ricominciare. In fondo un lavoro lo aveva, poteva anche permettersi di smettere di pagare l’affitto da una parte per estinguere un mutuo dall’altra.
In cielo si stagliavano bizzarre figure. Corpi senza un contorno preciso ondeggiavano mossi dal vento leggero di quei giorni. Erano masse di nembi, di fumi di scarico della grande città, di chissà quali residui che all’apparenza si mischiavano l’uno con l’altro ma che magari a chissà quali distanze si trovavano in effetti.
Si infilò in un bar, nonostante l’ora voleva un caffè, poi puntò sul cappuccino. Il gestore era un omone con un ventre sproporzionato e una barba folta e leggermente riccia che gli copriva tutto il collo e scendeva fino a metà dello sterno. Sembrava un orco delle fiabe, una qualche creatura di fantasia. Ma nei modi era cortese, certe cose, come l’educazione di una persona, si capiscono subito, dopo una o due parole che si scambiano così, quasi per un pro forma. Era la calma ora, quella sensazione di stallo, di benessere fin troppo ostentato che scende vellutata a mascherare qualcosa di troppo disagevole, di imbarazzante. Il barman gli porse il cappuccino con un lieve sorriso che fece capolino tra i flutti della sua lanugine. Massimo ricambiò. Rovesciò due bustine di dolcificante e prese a mescolare, con calma, una volta tanto. Ripensò a suo nonno. Pensò ad un uomo di ottantacinque anni adagiato sul letto di una vita, con la sorella immobilizzata dal dolore al suo fianco, i figli, i nipoti e i parenti, uno o due amici ancora in vita. In tutto una decina di persone, forse una dozzina a stare larghi. Forse un po’ poco per una vita onesta. Ripensò ai tanti bei momenti trascorsi insieme, alle vacanze, alle gite in bicicletta, alla figura massiccia e forte di quell’uomo che per lui, e anche per Sergio, aveva rappresentato tanto, se non tutto fino ad una certa età.
Suo nonno era l’uomo che aveva accudito Massimo e suo fratello fin dalla più tenera età, da quando papà era scappato, e di lui non si sapeva più niente. Era diventato un padre, non più un nonno. Era la figura da cui andare a piangere, a cui chiedere consiglio, a cui chiedere soldi, a cui chiedere comprensione. E ora era tutto finito, era tutto compresso nei metri quadri di una camera da letto degli anni Cinquanta.
Stava pensando a tutto questo, Massimo, quando lo sguardo gli cadde su di una locandina affissa al bancone del bar. Era una locandina da cinema, parlava di un film tedesco, notò in prima luogo i colori predominanti, che erano il rosso e il nero, poi una figura di giovane donna che faceva capolino dal lato destro della grafica, il che gli parve inusuale. Era una ragazza giovane e bella, con un impermeabile traslucido che la avvolgeva fino al mento; il film doveva essere una spy story, magari sulla vecchia DDR o qualcosa del genere, chi lo sa, di certo era proprio un film impegnato, anche perché era relegato al bancone di questo barista dall’aspetto luciferino e al buio di una qualche sala d’essais. Entrarono un signore distinto e in leggero sovrappeso e una donna anziana che voleva giocare i numeri del lotto, il primo ordinò un caffè corretto al bancone, la seconda puntò alla ricevitoria, lanciando uno sguardo verso Massimo che pareva carico di voglia di chiacchiere.
Il signore sovrappeso fissava annoiato un quotidiano stropicciato che estrasse dalla tasca del soprabito, aveva dei baffi folti e cadenti, sembrava un tricheco, le mani grassocce si avvinghiavano attorno alla tazzina con una sorta di noncurante avidità che sulle prime disturbò Massimo. Intorno altri avventori discutevano di calcio, di politica comunale e altre storie cittadine. Erano in media persone piuttosto anziane, quello non era un locale per giovani, non organizzava aperitivi, né alcun altro tipo di intrattenimento.
La vecchietta del lotto intanto aveva giocato la sua puntata: 10 euro sulla ruota di Milano, dopodiché si voltò verso Massimo, iniziò a sorridergli già a cinque metri di distanza e quando gli fu sotto confidò sussurrando: “I numeri del mio Gianni…”. Massimo ricambiò il sorriso, ma non aveva voglia di parlare, né tantomeno di stare ad ascoltare qualcuno. Si voltò di scatto, prese qualche euro dalla tasca e si diresse alla cassa. Spuntò dal retrobottega una ragazza giovane e sciupata, con indosso un maglione verdastro e cencioso: “Due euro e quaranta” sibilò, con le palpebre mezze chiuse dalla noia e una cicca rosea che balenava a tratti tra le sue gengive. Massimo non seppe resistere alla tentazione di domandarle se sapesse in quale cinema dessero il film pubblicizzato sulla locandina, e come risposta ottenne una mezza smorfia, un misto di incredulità e disagio di cui Massimo si sarebbe messo volentieri a ridere. Ma non era il tempo per farlo, abbozzò un cenno di diniego con la mano e tornò sulla strada, assonnato a propria volta, ma stavolta determinato a parlare con suo fratello senza altri contrattempi, non fece in tempo a muovere alcuni passi lungo il marciapiede che sentì d’un tratto un richiamo alle sue spalle: “Scusi!” si voltò: era ancora il barman barbuto, che gli si fece incontro corricchiando; teneva in mano un opuscolo che porse a Massimo: “Mia figlia mi ha detto che era interessato alla proiezione, sa quella lì è scema, eppure glielo avevo spiegato… tenga, tenga, qui c’è scritto tutto…” e così dicendo si ritirò di nuovo oltre i battenti del suo locale.
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Era almeno un anno che non andava al cinema. L’ultima volta v’era capitato quasi per caso, su insistenze di un suo vecchio amico, un compagno di studi di anni prima, cinefilo, come lui del resto. Anche Massimo infatti era stato cinefilo, ma si trattava di una passione giovanile più che altro, un modo per ammazzare il tempo durante gli interminabili pomeriggi estivi, quando si ritirava in una sala semideserta e fredda. All’epoca i cinema erano tra i pochi locali a potersi fregiare dell’aria condizionata, nemmeno tutti, ben inteso, ma parecchi sì. Esponevano all’ingresso la scritta a caratteri cubitali: LOCALE CLIMATIZZATO, come un ristornate poteva vantare la menzione del Gambero Rosso o della guida Michelin. Erano gli ultimi colpi di coda del cinema vecchio stampo. Quello fatto da sale in stile Ventennio, con le poltrone rosse, gli ottoni, le decorazioni liberty alla ricevitoria, con le maschere che conducevano ai posti liberi munite di una torcia. Per Massimo bambino andare al cinema era un evento. Si respirava ancora un’aria sacrale durante la proiezione, c’era attesa, ci si arrabbiava per un film, ci si commoveva. Tutte cose che non contavano più, o che per lo meno erano state estirpate dalle tv a pagamento, dalle multisala e così via.
Stava pensando a tutto questo Massimo, mentre camminava lungo il viale del Santuario. Squillò il telefonino. Era Rita. Per automatismo rispose. “Pronto”
“Massimo? Sono io, dove sei?” Aveva fatto in fretta a cambiare idea, pensò.
“In giro.”
“Ho saputo di tuo nonno…” La voce le tremava, era evidente che non sapeva bene cosa dire, che non aveva parole né di cordoglio né di rimprovero, aveva telefonato così, tanto per avere il pretesto per chiamarlo.
“Sì, non me lo aspettavo. Sembrava il ritratto della salute.” Quante volte capita di dire delle cose solo per convenzione, di fare e dire frasi che non si sentono proprie, che non si vorrebbero dire. Ma che alla fine si dicono, per educazione, o anche solo per colmare quegli insopportabili attimi di silenzio da un capo all’altro del telefono.
“Mi dispiace Massimo, so quanto fosse importante per te…” Sai un cazzo, stupida. Non sai niente.
“Non sai un accidente… non sei costretta a dirmi delle buone parole per forza.” Per la prima volta in quella giornata sentì potente una sensazione vitale. Era una sensazione di estrema rabbia che nemmeno il tradimento di Rita era riuscito a portare a galla. Ma sentire ora una stupida, ignorante, greve donna che cercava di consolarlo su qualcosa che lei non conosceva, su suo nonno, gli risultava inaccettabile. Il rapporto con suo nonno era privato, escluso da tutto il resto, era stretto alle sue memorie private, a quella parte di sé che non era disponibile agli altri.
“Non ti arrabbiare ora… non ora che voglio aiutarti…”
“Non aiutarmi, non mi serve il tuo aiuto. Maledetta puttana. Non mi serve il tuo aiuto, sei meno di niente per me, non farti più sentire.” Le attaccò in faccia. Il tono della sua voce era rimasto glaciale, impassibile, cadenzato quasi si trattasse di un colloquio di lavoro. Era al telefono in mezzo ad una via trafficata, con gente che passava e aveva fretta, non poteva fare una scenata, e a che scopo poi? L’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stato vendicarsi. Ma quale sarebbe stato il modo giusto? Ammazzare Rita e il suo amante si rispose. Farli a pezzi poco alla volta, dare modo alla propria violenza di fluire una volta per tutte, di convogliare tutta e tutta insieme su di un unico obiettivo. Ma, come sempre, pensò che il prezzo sarebbe stato troppo alto. Non avrebbe potuto mai uscire dall’alveo della legalità, e già il fatto di ipotizzarlo lo metteva in vivo imbarazzo, come se avesse un peso sulla coscienza. Massimo era buono, era un uomo incapace di causare del male, era incapace anche solo di fare a pugni, perché temeva le conseguenze. Non voleva che qualcuno andasse a sbattere la testa e andasse in coma per esempio. Succedeva in taluni casi, non voleva compromettersi per aver perso il controllo per un istante, anche se era stato provocato pesantemente e a sangue freddo. La legge non tutela i buoni, la morale comune nemmeno. La morale comune ti considera un rammollito se non allunghi un cazzotto al tuo provocatore, ma poi è pronta a farti a pezzi se al provocatore capita qualcosa di brutto, per quanto involontario. Reagisci ad un’aggressione, scarichi un destro al provocatore, ma questo cade, batte la testa, muore. Chi sarebbe più disposto a difenderti? Si fa presto a passare dalla parte del torto pensò.
Imboccò il lungo viale alberato che dalla chiesa portava a casa di suo nonno. Sergio era sicuramente già là, era uno preciso Sergio, e anche affettuoso a modo suo. Non era tipo da dare nell’occhio, ma era sempre presente nei momenti difficili, e Dio solo sa quanti ce ne erano stati negli ultimi tempi. Massimo era legato a suo fratello. Non si sentivano tanto spesso, ma il legame era forte, per entrambi. Avevano passato tante esperienze assieme. E Massimo era convinto che fosse l’esperienza comune il migliore collante per ogni rapporto.
Suonò al citofono, dopo pochi istanti scattò la serratura del pesante portone in ferro battuto dell’ingresso. C’era una signora anziana che non conosceva nell’atrio del condominio. Questa lo fissò con aria benevola per un paio di secondi. Probabilmente sapeva, ma non si sentiva autorizzata a fare commenti, anche perché non conosceva il nipote; avrebbe potuto essere benissimo una conoscente del nonno. Massimo chiamò l’ascensore, e in quel momento udì una voce alle sue spalle: “Mi scusi se mi intrometto…” era l’anziana donna. Massimo si voltò con lentezza, esibendo un sorriso rassicurante: “Sì…?”
“Posso chiederle se lei è parente del povero Osvaldo…?” era esitante, si manteneva a distanza di sicurezza, gli occhi piccoli e scuri saettavano spalancati nel nugolo di rughe che le contornava lo sguardo.
“Sì, sono il nipote…”
“Volevo farle le mie condoglianze… conoscevo di vista Osvaldo, abito qui da tanti anni anch’io… era una persona tanto cara…” si portò la mano alla bocca, era sinceramente commossa.
Massimo non sapeva che dire, tentò di schermirsi dietro un sorriso carico di amarezza, poi salutò la donna, aprì la porta dell’ascensore e salì al settimo piano. Gli aprì la porta suo fratello. Alto, pallido, coi capelli pettinati alla meglio, aveva il collo che gli ballava in una camicia troppo grande per lui. Salutò Massimo, senza dire una parola lo precedette al momento di entrare in casa. Appena varcata la soglia si avvertiva un forte odore di stantio, di muffa; un odore simile a quello di un libro sepolto per anni nell’umidità di una cantina. I mobili erano gli stessi da cinquant’anni, gli stessi soprammobili, le stesse pieghe del parquet. Non era cambiato niente, e allo stesso tempo era cambiato tutto. Non c’erano più bambini che urlavano per quelle stanze, non c’erano più vigilie di Natale spese a preparare i ravioli per il cenone, non c’era il giradischi che segnava i vinili con la sua puntina consumata.
Massimo si sorprese improvvisamente fragile, pervaso da un senso di precarietà invadente e pressante, come se stesse vivendo un sogno, nel momento esatto che precede l’affannato risveglio.
Sergio gli prese gentilmente il soprabito, lo sistemò sul vecchio appendi abiti con affettuosa cura, poi ruppe il silenzio: “Ci ho pensato io per il funerale, è tutto a posto…”
“Dimmi quanto ti devo, per le spese dico, facciamo a metà, come per la nonna…”
Sergio annuì stancamente, come se quelle sue spalle si fossero incurvate così precocemente a causa delle troppe vicissitudini che avevano dovuto sopportare; si lasciò andare sulla poltrona, una nube di polvere si sollevò fumosa nella penombra del tramonto. Estrasse una pipa dalla tasca della giacca, l’accese con un fiammifero e inspirò una profonda boccata.
“È la pipa che ti ha regalato il nonno…?” il tono di Massimo era incerto.
“Già…”
“Ma tu non hai mai fumato…” provò a infondere alla voce una sfumatura bonariamente ironica.
“Mi sa che questa è la volta che comincio.” Gli balenò un mezzo sorriso sulla bocca.
Sergio aveva un’aria grave e solenne mentre seminascosto dall’oscurità emetteva i primi sbuffi di fumo, intervallando una boccata e l’altra con profondi respiri. Accavallò le gambe, impugnò la pipa con entrambe le mani, chiuse gli occhi in un atto di estremo sforzo, poi rimase in silenzio, con lo sguardo fisso sul parquet.
Fu Massimo a parlare dopo alcuni interminabili istanti: “Stavolta è peggio di quando se ne andò la nonna”.
“Sì, è peggio…” sussurrò quell’altro. “è peggio perché non ci resta più niente dopo di loro. Nemmeno questa casa ci rimane.” La casa non era di proprietà, e con la morte del nonno la padrona l’avrebbe affittata a qualcun altro. Solo in quel momento Massimo se ne rese conto. Si rese conto che la casa di una vita, le quattro mura in cui aveva trascorso tutta l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza sarebbero finite nella mani di uno sconosciuto, di un nuovo offerente. Funzionano così le cose, pensò. Perdere questo appartamento è far morire il nonno due volte. E questo fa male, almeno a noi che restiamo. Certo, nemmeno c’è una legge a cui appellarsi, ed è giusto così.
“Dovremo portare via tutta la sua roba.” Disse Massimo.
“E dove la mettiamo?” Sembrava che anche Sergio si stesse accorgendo conto delle incombenze pratiche che gravavano su di loro da quel preciso istante. Fissò il fratello negli occhi, scostando per un istante la pipa dalla bocca.
“Dovremo sbattere via tutto, che altro vuoi fare?” La sentenza era dura ma inappellabile.
Sergio stentava a riprendersi, anche se era stato proprio lui a sollevare la questione: “Ma… un po’ a casa mia, un po’ a casa tua, qualcosa potremo salvare…”
“Io non ho più una casa, Sergio.” Le parole di Massimo suonarono sorde e glaciali nella stanza, senza un filo di emozione, vibrarono come se fossero la cosa più naturale del mondo, la più ovvia.
“Che significa che non hai più una casa?”
“Rita mi ha tradito con Giorgio, me ne sono andato di casa non più di una mezz’ora fa.”
Sergio rimase pensoso un attimo, come se stesse cercando di radunare le idee, poi, balzò in piedi, fece un giro in tondo al soggiorno e aggiunse: “Ma la casa era in affitto, giusto? Puoi sempre prenderne un’altra, che ti costa?” non sembrava più di tanto turbato dal tradimento di Rita, non si sentiva neanche in dovere di dare qualche buon consiglio; meglio così, in fondo era lo stile di Sergio, pragmatico fino all’ottusità. Continuò la passeggiata da un capo all’altro della sala, con la sua andatura tipica, leggermente ricurva, ad intervalli regolari si passava la mano sinistra sul mento, affondandola nella folta barba, poi ad un certo punto si impalò nel mezzo della stanza: “E tu come l’hai presa? Di Rita intendo?” Stava realizzando solo in quel momento quanto era accaduto.
“Come sempre” fece in tono sommesso il fratello.
“Che significa come sempre?” replicò l’altro “Sì, intendo, che significa? Dovrai aver provato qualcosa, rabbia, rancore, o che so io?”
“Ho detto come sempre, non ho detto che ho provato nulla. Magari un po’ di dispiacere all’inizio, ma ora sono in una fase di sostanziale indifferenza, non so dire se sia un’autodifesa.” Disse con il tono più tranquillo e pacato del mondo.
“Bè, certo, mi sembra la cosa più giusta da fare… certo che dopo cinque anni che vi conoscete…” emise Sergio tra uno sbuffo di fumo e l’altro.
Massimo era distratto, pensava a Rita, ma lo faceva come se stesse ricordando una conoscente, una compagna di classe delle elementari, una passante che lo aveva colpito per il modo in camminare, al massimo una pendolare con cui aveva scambiato due parole in treno il mese prima, poi aggiunse: “Sei anni…” aveva lo sguardo puntato sul lampadario del soggiorno, un lampadario intarsiato, con dei pendenti di vetro luminosi che ondeggiavano leggeri, animati da qualche spiffero d’aria che filtrava tra gli infissi gonfi e sconnessi.
“Comunque puoi stare da me ovviamente, almeno per un po’, finché non trovi una sistemazione. Giulia non avrà niente da dire, se mio fratello, che cazzo, e poi voi due siete sempre andati d’accordo mi pare…”
Dopo alcuni istanti in silenzio Massimo trovò le parole per rispondere: “Certo, mi piace Giulia, è proprio una brava ragazza, state bene insieme, davvero…” si rese conto nel frattempo di essere sprofondato nel divano, per cui puntò le mani sui cuscini per sollevarsi, e riprese: “Ed è per questo che ti ringrazio, ma non accetto il tuo invito, finirei per darvi fastidio e basta, in fondo per lei resto comunque un estraneo…”
“Ma che dici? Potrò essere libero di ospitarti, no?” Sergio per la verità non pareva troppo convinto, si aggiustò la cravatta blu scolorito con la mano libera, poi si infilò il soprabito: “Ricorda che è anche casa mia.” Sibilò, con un fare a metà tra l’ironico e lo stizzito.
I due fratelli scesero in strada, si abbracciarono, Massimo si congedò dicendo che avrebbe preso in seria considerazione la proposta di Sergio di stabilirsi da lui per qualche tempo. Non era più così sicuro di volerlo e, anche se non aveva altre soluzioni dignitose alla sua situazione, si concesse ugualmente il lusso di prendersela con calma: per una volta aveva solo se stesso a cui badare. Non sapeva nemmeno come avrebbe trascorso la sua prima notte da solo, forse anche su di un letto di foglie secche, non riusciva seriamente a preoccuparsene.
Pensò che avrebbe girovagato un poco per la città, erano anni che non lo faceva, magari poteva essere l’occasione giusta per rivedere quel vecchio cinema, sì, quel Cinestudio che a quanto pare aveva riaperto, non era molto, no di certo, ma forse era davvero il segno che non tutte le cose che amava tanto si fossero estinte, anzi, peggio, consumate, e senza un vero motivo, solo così, perché doveva accadere.
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