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Il dato e il tolto
Andrea era in pantofole di panno, guardava dalla finestra il parco ed era felice perché non doveva studiare in una giornata così calda. Un leggero vento faceva ondeggiare le foglie degli alberi, attraverso le quali fissava il cielo. Le sue mani odoravano del tabacco con cui tentava di riempire a dovere il fornello della pipa. L'accese e stiratosi come un gatto cominciò a fumare, facendo nuotare il suo sguardo sulle onde di fumo che salivano verso le cime degli alberi.
Antonio sedeva in poltrona sfogliando un libro. La storia di un principe che rapito dagli uccelli inviati da un maligno fratellastro, era stato precipitato in mare e trascinato in un'isola, tirato per i capelli da sirene. Anche lui guardava fuori dalla finestra disperdendosi tra donne e demoni che uscivano dalla sua barba e, seguendo una vena calda dell'aria, raggiungevano i rami degli alberi cercando il serpente cui congiungersi. Mise sul moleskine le sue fantasie creatrici che alimentavano la sua ambizione di disegnatore di fumetti.
Alberto, una voce eretta in un cruccio del giorno. Ma più spesso una voce crucciata per non avere mai abbastanza tempo per inseguire il filo dei suoi sensi. Un tipo fatto di scorza per nascondere il suo profumo. Una forma d'acqua capace di scivolare fuori dalla rete, ma a volte suonava ardito, spontaneo e lacerato nel canto. Ogni sera si girava a guardare il suo giorno: una storia sodomita.
Adamo cercava l'uomo che lo aveva dipinto in quella striscia di terra ed in quell'angolo di cielo, dove la notte non era ancora passata, dove nessuna delle trecento notti passate tra spremiture di papavero gli aveva permesso di dormire, senza sapere che farsene del suo disperato amore per una donna che gli chiedeva solo una monta. C'era il ronzio delle zanzare nelle sue orecchie, le risate che si perdevano per strada in un'estate immobile come il suo corpo sul divano, fissato nella sua indistruttibile tristezza
L'ultimo ospite, che era seduto in poltrona a leggere L'Ulisse e ad ascoltare musica degli U2, era una donna, giovane e bellissima, a differenza degli altri non frequentava l'Università. Anna disprezzava la famiglia e l'idea di una relazione. Vivere in quell'appartamento condiviso con quattro giovani universitari era, per lei, accettare che qualunque cosa potesse capitare. Tutto nella sua vita era sfumato, seguendo sentieri di cosmiche passioni, un cuore disertato dalla parola amore. Lei nella casa era un animale leggendario, un cavallo impaziente scalpitante su canali fangosi ed osceni dirupi invasi da lignee radici, penetranti il suo umido giardino in un'impotente tentativo di fioritura. Lei, sempre scomposta nel timido abbraccio di un arcobaleno, con labbra smeraldo al comando di un torrente troppo duro da agitare, remava con fragili foglie in un'estatica scia di luce persa nel cielo. Cometa o sirena chiusa ad artiglio sulle sue vittime.
Anna sollevò lo sguardo e sorridendo si guardò intorno. Era il mondo esteriore. Non le luci, ma le ombre di quella casa lambivano le sue mani accarezzandola, non ne aveva dimenticate nessuna, si erano buttate li, tra quelle mura, dimenticate dai loro corpi, come schiuma marina nuotavano cavalcando un invisibile disegno della morte in una noiosa eternità che dura sempre troppo tempo.
La padrona di casa viveva la sua camera da letto come unico spazio che non era di ciascuno. Terra esclusiva dove erano temporaneamente ammesse solo due persone. Una terra spiata dalla morte spandi fiato, in una cascata di mare, dove volavano le barche ed il tempo, come una verga oscillava dall'alba al tramonto, per percuotere nei sogni quello che restava dei ricordi.
Amerigo, il defunto marito della padrona era stato un giornalista, ed amava scrivere i suoi articoli a casa, nella sua camera studio, occupata ora da Anna. Nella sua testa ruotava il piccolo mondo della città, vi rotolavano tutte le dissolute storie urbane, che frustrandogli le tempie, saccheggiavano il suo sonno. Ogni empio personaggio si staccava dall'albero maligno della provinciale comunità e scaraventato dalla sua Lettera Olivetti sulla carta dipinto del giornale che l'intera città avrebbe sbirciato il giorno dopo, per addobbare di parole la propria morbosa cattiveria.
Adalgisa, la dama di compagnia, era con la Signora Alba, la padrona, dalle sette del mattino alle cinque della sera. Si occupava di tutti i bisogni della signora, tollerandone manie e vanità. Conosceva tutto della sua signora, ogni piccolo sussurro, ma anche le grida che scorrevano nelle vene. Non c'era grotta marina di quel cervello che nascondesse segreti. Poche lacrime vi restavano, ma quelle poche venivano piante insieme. La lingua dei morti è piena di vita quando le donne parlano da madri. Nessuna spelonca è più profonda dei loro occhi che sanno versare, come semi d'albero, il loro amore.
La casa era una grande palazzina che con un edificio gemello si piantava in un grande parco botanico separato dalle vicine moderne costruzioni da un alto muro, doppiato all'interno da un vallo verde di cipressi. Alberi, ora giganteschi, erano arrivati come semi da ogni parte del mondo; erano separati da vialetti, fontane, vasche e piccole aree per la lettura, formavano un'ordinata foresta. La luce vi vacillava come una fiamma aprendosi varchi nell'ombra. L'odore acre delle strade arrivava come una strega di zolfo, scorrendo veloce tra foglie e rami, prima di essere rapita dalla notte e dalla sua nera caverna. La parte estrema del giardino terminava con un enorme laghetto artificiale, il cui fondo custodiva grandi scogli sottratti al mare: veri monoliti che davano l'idea di un paesaggio marino in cui trovavano riparo numerose specie di pesci e piante. Il laghetto, profondo circa dieci metri ed esteso in superficie per diecimila metri, era in origine una cava di pietra, abbandonata dopo che fu invasa da una sorgente d'acqua salata filtrata da una sotterranea rete di grotte e canali dal mare non lontano. Il nonno di Alba lo aveva reso un lago vivo con l'impianto, nella palude che si era formata, di alcuni microrganismi e piante che ora ne mantenevano la vivibilità di pesci e di varie specie di piante subacque e di superficie che continuavano nella vegetazione del parco.
I rapporti tra Alba ed i suoi ospiti erano di invisibile ma forte intensità. Aveva lasciato al fratello il compito di gestire ogni amministrazione della casa, a lei aveva conservato di una madre poligama nell'edipo relazionale dei suoi desideri. Una condiscendenza avvolta nel mistero di silenzi tattici e drammatici che risuonavano come una conchiglia. Quando parlava, lo faceva a bisbigli tenendosi vicino all'uno che sceglieva, con aria infelice. Pareva agli altri, più distanti d'intendere qualcosa.
Antonio, il fratello di Alba, non si era mai sposato, viveva con un maggiordomo indiano ed una governante mauriziana, nella casa gemella che condivideva il giardino con la casa di sua sorella. Nonostante i suoi 85 anni, continuava ancora la sua attività di avvocato. Il suo maggiordomo lo accompagnava al suo Studio Legale alle otto del mattino e tornava a riprenderlo alle 16. Era in tutta la meraviglia della sua giovinezza quando udì per l'ultima volta l'eco del convulso gridare della giovane donna che intensamente aveva amato per tutti gli anni della sua adolescenza. Quell'eco spentosi tra le mura del giardino rimase incomprensibile per lui e ritornò per mesi e anni, fino a quando chiese di esserne liberato e non disturbò mai più i suoi sogni. Lei che aveva agitato i suoi lombi di ragazzo ora ispirava le scelte alla sua mente. Studiò legge e diritto rotale e ciò che si era unito con Cristo faceva annullare nel suo nome. Sotto i suoi occhi e dei numerosi avvocati del suo studio passavano le storie dal principio alla fine, di anime e turbinanti cervelli e lui così lontano dagli occhi degli uomini, capiva quell'eco portato dal vento che non aveva da giovane capito.
L'avvocato, ogni sera al suo rientro cenava e si tratteneva sino a tardi con sua sorella. Stessa carne e stessa vita. Le loro storie come marea avevano avanzato saltando e ricadendo tra frastagli di scoglio, immergendosi in crepacci e riemergendo, onde bollose, per ritrovarsi sull'arco di una spiaggia sabbiosa e chiudersi in invisibili armature dove non sarebbe stato possibile immaginare la profondità.
Non avevano figli. Alba ne aveva partorito uno, prestato dalle foglie mattutine alle sue cure, seme condiviso dalla stessa mela morsa con suo marito, fiorito nella ferita da cui aveva orrore di vedere il sangue scorrere. Armando, suo figlio, a venticinque anni, era precipitato nel silenzio, dalla barca che rimbalzante sulle onde lo conduceva con suo padre a prendersi la fiamma della vittoria in una regata. Le cornacchie correvano con loro e fecero galleggiare il padre Amerigo nelle secche della vita. Le maniche della burrasca obbedienti alla morte fecero invece esalare nell'acqua persa il battito del sangue più giovane.
Ogni ventinove settembre Alba si faceva accompagnare dal maggiordomo di suo fratello al mare per lasciarvi cadere le due parti di una rosa col gambo reciso; ritornata a casa si chiudeva nel silenzio e nel digiuno sino all'arrivo di suo fratello.
Amerigo non creò più parole, frasi e storie. Non rumore ma il silenzio per unirsi a suo figlio in un accordo armonioso ricercato nella solitudine. Nello stesso giorno di un anno dopo ascoltò liberarsi dall'astrocitoma cerebrale cresciuto nella sua testa la parola beata. Immerso nella folla, fra i tanti e non più solo. Non più diviso da Armando passeggiava finalmente tra le anime.
Alba lamentò nel giardino, sepolta dagli alberi, i suoi morti senza fare tristi i vivi per il suo cielo morente ed il suo gemente tramonto aperto sulle tenebre corvine del suo viso. Recitò nelle preghiere l'angoscia d'un mondo che l'aveva illusa con la sua carne viva ed ora l'abbandonava ad ascoltare il canto dei morti. Mai rimase estranea alle lacrime, ma al mondo non narrò del dolore che i giorni per lei declinarono per i funerei danni.
Le ombre tra gli alberi di quella casa non venivano gettate da nessuna parte, come in un sogno si irrobustivano nella ricerca dell'oblio, le loro voci correvano nei viali del giardino e domandavano l'uno all'altro il nome dell'altro morto. Alba non danzava da sola nel suo andare e venire dalla casa, un uomo la seguiva accarezzandole i capelli sciolti sulle spalle. Danzavano per celebrare il morto. Era la danza dei ragazzi, la danza dei bambini, dei dormienti con il capo abbandonato sul petto o sulla spalla, delle mani strette sulla tazza di vetro, degli occhi stupiti.
Quando scendeva la sera dai letti di mare e da quelli della casa, Alba ascoltava la voce del giardino che si apriva ad un sonno senza cuore. I morti andavano seppelliti per sempre. La voce udì il cuore e rinunciando alla sua potenza restituì calma e silenzio.
Alba aveva risalito, con ancora vivi i segni del dolore, le scale di uno dei tanti appartamenti che possedeva e che dava in pensione a giovani ospiti, gli ricordavano suo figlio, e parlare con loro spegneva la voce acida del dolore. Era molto bella e al fascino dei suoi quarant'anni univa l'elegante seduzione del suo parlare. Tra gli ospiti delle case sceglieva gli ospiti della sua casa con cautela, silenziosamente, cambiando la loro vita. Come se in ognuno dei prescelti tutto diventava un luminoso distillato del buio da far guardare la vita con il principio di un sorriso infinito. Alba scopriva il suo latte materno, dove i nuovi nati aprivano le bocche per incollarle ai suoi capezzoli; era forza vitale, sostanza che ricuciva la carne morta alla vita del suo corpo facendola ancora vivere. Quel calore artificiale cresceva con i giorni e diventava così simile al vero quando faceva ritornare un rumore di passi, un soffio del respiro, la voce nelle stanze di Armando ed in quella di Amerigo.
Anna era arrivata più tardi nella casa a sostituire col sapore della sua bocca quelle linee di un corpo miracolosamente coperto di pelle e carne scomparse dal fisico di Alba nella nuvola del tempo che invecchia. Anna accolse il tuono e la tempesta dei vivi e Alba ne conservò il silenzio della morte. La linfa delle mani non cessò mai di scorrere sotto la terra e risalire per tronchi nuovi fin sotto le unghie delle foglie come le mani d'una talpa. La primavera si tratteneva sotto la corteccia dove si intrecciavano i giorni nuovi e il tempo passato girando intorno ai cerchi della vita.
Dalla sua finestra, Alba vide il cielo senza nubi, di un meraviglioso pallido azzurro che prometteva un giorno sereno, lontano da lì in qualche caverna del mare c'era quello che restava di suo figlio, soffiando acqua dal teschio o rotolando le ossa consumandole. Si preparava con il rito di settembre ad affollare di ricordi il suo cuore, dove scorreva il sangue per vene trasformate in corde di pietra, senza nessun pulsare del silenzio e della rabbia per quel mare senza fondo.
Anna attese il ritorno di Alba, inerte e smarrita negli innumerevoli giorni delle sue morti. Era l'ottavo lustro ed occorreva prepararsi. Per lei quel giorno oscuro non era più una novità. Riusciva a ricordare di non essere stata più capace di sorridere dalla notte di cinque anni prima; il cuore non aveva più battuto, fermo per sempre, ma il suo bisogno la spingeva urlante ad esaudire ogni richiesta di Alba. Sembrava inginocchiarsi ad una fede al dolore e all'amore sgomento e abbandonato. Andò in cucina e trafficò tra pentole e padelle, ciotole e cibo, tra ombre danzanti al chiarore delle fiamme esplose dai fornelli. Dalla vetta del suo dolore pianse guardando il cielo velato e con cura distillò le piante che Alba aveva disposto con la quiete del suo tranquillo tumulto in barattoli di vetro; lo mescolò con essenze che erano contenute in fiale e flaconi.
Si attese l'avvocato. E tutti gli ospiti della casa si misero a tavola con la signora Alba.
A fine cena si accomodarono tutti in salotto. Alba verso nei calici di vetro il distillato ed Anna lo servì, ma nessuna delle due ne bevve; intinsero le labbra in un bicchiere vuoto. Anche l'avvocato intinse le labbra, facendosi prendere dalla conversazione con i giovani ospiti, che invece, sedotti dal gusto dolce, ne bevvero più di quanto sarebbe stato opportuno. Adamo ne bevve una metà e lasciò scorrere il resto del contenuto in una pianta. E così fece con l'altro distillato che Anna continuò a versargli. Ma non diede alcuna importanza alla cosa, aveva la mente lontana, persa in un nudo di donna che lo aveva profumato col suo sudore e che si muoveva veloce come un insetto tra fiori di quattro stagioni. Aveva tentato di afferrarla mentre inseguita da un volo di uccelli, quattro, in lotta fra loro, si lasciò beccare solo tempo che annienta le ore e ti annega nel piacere in un solo piccolissimo istante.
Adamo sentì il proprio corpo dissolversi in una nuvola di vapore, la sentì salire sul rumore delle voci, un insetto legnoso nel cavo di un tronco. Gli sembrava di guardare attraverso il letto acqueo di un bicchiere viaggiando in senso antiorario, come se le cose accadessero all'inverso. I suoi compagni reclinavano il capo e si accomiatavano, o forse facevano il contrario si accomiatavano e ritornavano a sedersi reclinando il capo sul petto verso l'arrivo soffiato del sonno; si sentì leggero come l'aria e si lasciò tirare dalle donne e dall'avvocato nella sua stanza. Senti la serratura girare per chiudere la porta. Troppo molli le sue gambe per potersi muovere, ma abbastanza sveglio per sentire scattare le serrature delle altre stanze e ascoltare, come in un sogno, alcune persone che non dormivano e camminavano nel parco.
La mattina presto si svegliò lanciandosi come un sasso verso la porta. Era aperta come sempre, con la chiave all'interno. Anche le altre stanze erano aperte, ma quella di Antonio era vuota. Il letto disfatto ma la sua roba scomparsa. I suoi libri, ordinati come sempre sul tavolo sotto la finestra chiusa.
Antonio era partito presto disse Anna, visibilmente stanca. Nessuno degli ospiti, tranne Adamo, si curò della cosa.
Dopo qualche settimana giunse un messaggio di Antonio indirizzato ad Adamo perché spedisse al suo indirizzo quello che aveva lasciato nella casa. L'avvocato si offrì di farlo lui, ma Adamo non accettò. Inviò tutto con un pacco raccomandata ed attese la ricevuta con impazienza. La ricevuta giunse e Antonio sembrò tranquillo.
Anna e Alba che seguirono l'agitazione di Antonio tentando di tranquillizzarlo, furono felici di vederlo rasserenarsi. Alba posò dolcemente il suo capo sul ventre di Anna ma non c'era sollievo; ascoltò Anna raccontare del buio che nascondeva il suo arrossire nel letto dei suoi ragazzi. Alba sapeva di cosa Anna stesse parlando.
Anche Adamo partì dopo l'ultimo esame come avevano fatto Andrea e Angelo. Fece un'ultima passeggiata fino al lago artificiale in compagnia di Anna. Lanciò molliche in acqua. Diversamente dal solito non accorsero i pesci, l'acqua era trasparente ma non se ne vedevano. Al centro del lago l'acqua ribolliva di una moltitudine di pesci. Con la barca a riva voleva curiosare, ma lo fermò il gusto della saliva di Anna. Cosa vuoi che ti faccia vedere, disse, sedendosi sulle sue ginocchia.
Possono i cavalli ciechi confondersi con le cicale in una notte di mezza estate? Il mare che non porta roncole e non disperde donne e diavoli, galoppa nei dorati campi come una giumenta marina e sa tenere la gioia del canto delle cicale tra le spighe e neppure l'incanto della luna lo confonde.
Antonio non si fece più vedere. Antonio desiderava di essere accolto in una fresca caverna del mare, o in un luogo sotto l'acqua. Pensava a parole fresche, ad un albero di parole e non riusciva a credere che Anna e Alba potessero trasformare il lago in una parola che riducesse tutta la sua vita al piacere d'ascoltarla.
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