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Vita da garzoni di bottega ( del Bepi)
Il nonno Bepi si avvaleva di due garzoni di bottega. Negli anni '60 i garzoni erano ragazzi di 16-18 anni ( all'epoca si diventava maggiorenni a 21) che senza tanta contrattualistica, venivano presi dai padroni ( negozianti, commercianti, artigiani) dietro una paga convenuta con i genitori, per fare qualche lavoretto e dare una mano nei negozi. Non erano nemmeno degli apprendisti, ma aiutanti in piccoli lavori.
I garzoni, presso mio nonno, dovevano pulire con la ramazza davanti al negozio, sistemare qualche merce sugli scaffali, dare un aiuto a portare in retrobottega i sacchi di fagioli ( cannellini, borlotti, lamòn) , ma soprattutto compito primario, portare la pasta fresca appena pronta dal laboratorio ai clienti, ossia ristoranti o trattorie che utilizzavano la svariata pasta all'uovo fatta dal Bepi.
Compito secondario: venire a prendermi all'uscita della scuola materna in Campo della Lana ed accompagnarmi a casa.
Di garzoni, per la bottega del nonno, ne sono passati tanti. Questo perché la nonna li licenziava con estrema facilità. Soprattutto perché essi ritardavano le consegne o cazzeggiavano. Un garzione furbo si deve mostrare operoso, anche se non c'è nulla da fare, perché l'occhio del padrone è sempre vigile, ma se ti fai beccare con le spalle contro il muro del negozio che leggi avidamente un giornaletto di Nembo Kid (all'epoca c'era, con Il Monello o L'Intrepido), allora sei un garzone licenziato in tronco.
Di questo ragazzi ne ricordo due in particolare, entrambi sui 16-18 anni.. Uno si chiamava Augusto, soprannominato Bramierino per la stazza. Aveva le spalle strette e poi la sagoma a forma di pera, con le gambe a X. Portava i capelli impomatati alla Elvis. L'altro, Leonardo: piuttosto magro e alto, con un ciuffo di capelli nerissimi. Me li ricordo, in estate, in maglietta bianca e jeans. Jeans davvero sbiaditi e sdruciti e non fatti apposta, ma davvero consunti.
I due garzoni in genere facevano comunella con un mio zio, ragazzotto anche lui, che lavorava nel laboratorio, e spesso sparivano tutti e tre, vai a capire dove; so solo che mio nonno usciva in fondamenta tutto infarinato, a chiamarli a gran voce perché c'era bisogno di loro e non si trovavano nei paraggi.
Pertanto accadeva che al riapparire dei garzoni, la nonna seria seria dicesse loro in retrobottega : "domàn no' steve far vedar che sé licensiai da subito ".
Allora i garzoni replicavano supplici : " Sìora paròna no la diga cussì , che se perdo el lavoro me pare me copa de bote" .
La nonna era irremovibile.
Accadeva quindi che la mattina seguente al fatto, prestissimo, assai prima delle otto, il licenziato arrivasse al laboratorio della pasta dalla porta del retro e si facesse aprire dal nonno Bepi che era già all'opera.
" Siòr Bepi no' el me staga butàr fora, la prego de tegnìrme, siòr Bepi el convinsa la paròna".
Insomma facevano di tutto per rientrare al lavoro.
Detto così può sembrare una faccenda ilare , ma in effetti per quei ragazzi erano problemi seri. Quasi sempre erano figli di operai e non portare a casa la paga, seppur modesta, poteva essere un guaio serio.
Il nonno, che era un buon uomo nel vero senso della parola, li faceva entrare, faceva loro una breve predica e prometteva la sua intercessione presso la moglie.
Narrati questi piccoli tratti in merito a Bramierino e a Leonardo, passo alla vicenda.
Come già detto, il compito più importante per cui servivano i garzoni era il trasporto della pasta fresca, dal laboratorio ai clienti.
Ciò avveniva in maniera singolare. La pasta ( tagliatelle, fettuccine, lasagne, nidi di rondine, capelli d'angelo, pappardelle et similia) veniva adagiata sopra un telo di cotone bianco, disteso a suo volta su di una tavola lunga circa un metro e mezzo e larga mezzo; la pasta poi la si ricopriva con dei canovacci puliti leggermente umidi, perché non perdesse morbidezza.
Il garzone appoggiava sulla sommità del capo una ciambella rigida detta tòmbolo, fatta di stracci compressi e fittamente trattenuti con giri di grosso spago incerato.
Il ragazzo si piegava sulle ginocchia. Il nonno, con l'aiuto di un'altra persona, sistemava la tavola già preparata colma di pasta, esposta in bell'ordine e ricoperta dai canovacci candidi, sulla ciambella posta sul capo del garzone.
Si cercava il giusto equilibrio in modo che la tavola, sul capo, non sbandasse, né sporgesse in avanti o indietro. Quindi il garzone lentamente riprendeva la posizione eretta, manteneva la testa rigida, non la volgeva mai da nessuna parte e guardava sempre avanti a sé.
Con il carico in equilibrio sul tombolo, il garzone usciva in strada, gridando ai passanti " ocio, ocio" ( occhio, occhio... ossia attenzione) e si avviava veloce.
La cosa più difficile - con la tavola in testa- era affrontare le calli ( perché queste sono troppo strette e quindi i passanti dovevano a volte fare marcia indietro per cedere il passo al garzone) , le svolte delle fondamenta, spesso ad angolo retto, con il rischio di non vedere chi ti veniva incontro da parte opposta, e soprattutto i ponti. Salire e scendere i ponti, di buon passo e con il carico in capo, era cosa da veri specialisti di questo tipo di trasporto.
Aggiungo per chi se lo domandasse, che questo modo di portare determinate merci, è ancora in uso a Venezia, anche se lo si vede di rado, oramai.
Accadde che una volta il garzone scivolò in avanti, scendendo dal Ponte del Gaffaro. La pasta si sperse per tutti i gradini e i " capelli d'angelo" volarono in canale.
La gente si fece attorno al garzone, chiedendo se si fosse fatto male, ma il ragazzo era già in lacrime preoccupato del carico perduto... lanciava improperie e maledizioni.
So che il garzone tornò in bottega dal nonno, con parte della pasta raccolta nei canovacci.
Purtroppo nulla era recuperabile, e chili di fatica vennero buttati in pattumiera.
Se c'era ancora pasta di riserva, il nonno poteva rimediare inviando subito un altro carico, altrimenti erano guai, soprattutto con le trattorie della zona... non ricordo però che Bepi si sia accanito contro lo sfortunato ragazzo. Sacramentava un poco, come raramente faceva in occasioni avverse, ma poi si rimetteva all'opera per rimediare.
In seconda battuta, i garzoni dovevano contribuire ad un rituale che da decenni si teneva nel laboratorio della pasta, ad ogni sacra festività.
A Natale e a Pasqua gli ordini di tortellini, agnolotti e ravioli aumentavano moltissimo e il nonno lavorava a tutto spiano dietro l'impastatrice, a che fino ad ore tarde.
Il punto clou era che i tortellini da brodo occorreva chiuderli a mano, perché all'epoca non c'erano macchine che lo facessero.
Il tortellino nasceva come un piccolo tondo, una specie di ostia di pasta fresca. Il nonno ci metteva nel centro il cosiddetto " pièn", ossia il ripieno di carne ( cucinato anch'esso in casa) e quindi si doveva procedere alla chiusura, a mano, dei lembi del tortellino.
A questo scopo tutta la famiglia, comprese le figlie già sposate, e i garzoni, si radunavano davanti ad un grande tavolaccio infarinato e uno per uno, chiudevano i tortellini.
Il nonno presiedeva e sovraintendeva alla chiusura. " I tortelini dovè serarli ben, si no in brodo i se verze e va fora tutto el pièn... el tortelìn ga da resister al bòggio " egli declamava. I tortellini li dovete chiudere bene, altrimenti si aprono e ne esce il ripieno. Il tortellino deve resistere alla bollitura".
A suo dire qualcuno era davvero negato alla chiusura del tortellino. Cosa che andava fatta con un solo gesto delle dita, per non palpeggiare troppo la pasta fresca.
" Ve gavè lavà ben le man, par serar i tortelini? " domandava il Bepi ai presenti, prima di dare il via all'inzio lavori.
Uno dei miei zii più giovani era letteralmente bandito dalla chiusura del tortellino perché ritenuto dal nonno del tutto incapace. Anche la nonna era poco quotata per questo lavoro e pure un garzone non era ammesso al tavolo perché, secondo il nonno, non si lavava bene le mani.
Ovviamente, tra i partecipanti a tale rito, nascevano delle vere gare. La sfida consisteva in chi riuscisse a chiudere più tortellini in un 'ora e nel migliore dei modi. La mia mamma era ritenuta molto abile, perché riusciva a serrare la pasta senza strapazzare il tortello.
Al cinquantesimo tortellino chiuso, ognuno gridava " Sinquanta! ".
Per non escludere noi nipoti, e per tenerci buoni durante la lunga operazione, il nonno sistemava un banchetto basso con due scranni e ci dava qualche tortellino da chiudere.
Noi pasticciavamo come fosse pongo. Mangiavamo il ripieno crudo, che era ottimo e sapeva da spezie, e con la pasta facevamo le figurine.
Ricordo ancora certe serate sotto Natale , quando tutta la fondamenta era già al buio, tranne che per qualche finestra illuminata, e si vedava il laboratorio sotto la luce di lampadine crude, occupato da dieci persone, di cui alcuni bambini, tutte sedute attorno ad un grande tavolo a preparare i tortellini, a raccontarsi qualche pettegolezzo, a ridere dei tortellini mal riusciti, mentre il nonno raccoglieva quelli chiusi e pronti, in grandi setacci. Si faceva ben tardi, ma per me erano serate indimenticabili, di calore umano e di affetto.
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3 recensioni:
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- Ho letto e riletto questo racconto( deh, sono una divoratrice di pagine, non di altro come qualcuno pensa...) e mi sembra di poter dire, senza alcuna paura di smentite, che in questo brano ci sono alcuni pregi ma anche numerosi difetti.
Comincerei dai pregi, che sono pochi.
Il primo è la storia in sé, molto bella, ma qui il merito è solo quello di aver deciso di scriverlo e non per il fatto di avere due nonni troppo simpa e caratteristici.( merito genetico...?!?!?)
Scritto bene, per carità, ma per tutte e tre le pagine, mentre leggevo, aspettavo sempre che il racconto partisse. Pensavo "ormai finirà l'introduzione" e invece continuavo a leggere dettagli tecnici che dopo un po' annoiano il lettore in modo non indifferente. Non è un racconto, ma una specie di manuale, con qualche accenno alla vita di quei tempi (accenno, eh!) e non c'è per niente una descrizione delle emozioni e delle sensazioni provate dall'autrice che, secondo il mio modesto parere, in un racconto simile era importante non omettere. Manca proprio la "narrazione", intesa come armonica cadenza del raccontare coinvolgendo il lettore, commuovendolo, ma non nel senso del sentimento, bensì nel saperlo portare, muovere-con, indispensabile in particolar modo per i racconti biografici di cinquanta e più anni fa.
E che dire del pathos, di questo sconosciuto che non fa capolino mai, in questo racconto.
Mi si dirà: non è un obbligo. Certo, specialmente per un'autrice che usa la lingua italiana in maniera ineccepibile ma senz'anime, come se stesse scrivendo il manuale Cencelli... lo dimostrano alcune uscite dalle regole canoniche del buon scrittore, fra le quali mai usare i numeri arabi in un racconto... non è un compito di matematica, la letteratura. In prima pagina compaiono addirittura quattro o cinque volte.
Per finire: un'autore come questo che volesse ascoltare i consigli di chi la sa molto lunga in merito accetterebbe di fare una svolta, nel suo modo di narrare; e la svolta dovrebbe consistere in un lasciarsi andare ad una scrittura più sciolta anche se meno precisa e tirar fuori dall'anima quello che veramente possa far decollare il racconto coinvolgendo il lettore nelle vicende, intese queste non in senso cinematografico ma umano, esistenziale.
Spero tanto che la signora mariateresa non me ne vorrà e che, oltre alle belle parole dei commenti positivi( che pure io in parte condivido) sappia tener conto anche delle mie, non meno importanti.
Per finire devo anche ammettere che il racconto in sè mi è piaciuto... bacino.
- un'altra pagina di storia familiare che trasmette serenità. La capacità dell'autrice di raccontare al lettore, oltre il consueto, alcuni spicchi di memoria. I personaggi ormai epici a cui intorno ruota la narrazione si prestano come attori inconsapevoli al ruolo di figuranti in questi quadri dipinti dai ricordi. tutti elementi caratteristici non solo di questo scritto ma dell'intera produzione (saga) di Mariateresa. Grande scrittrice. Brava
- Ottimo racconto, ben scritto e caratterizzato, che trasporta in un mondo ormai antico, diversissimo dall'attuale e ancora a misura d'uomo. Padroni, garzoni e aiutanti ancora non legati da contratti obbligati e obbliganti che lavoravano, giocavano e avevano le loro piccole disavventure quotidiane ma anche la soddisfazioni di una vita ancora ruspante e gioiosa. Sale forte la nostalgia, nel leggere questa tua, e la voglia di farti un altro sentito applauso! Complimenti Mariateresa!
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