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La storia di Licia e Michelangelo. Capitolo I
C'era una volta una brava ragazza di nome Licia. Era timida ed introversa, ma soprattutto piena di tabù.
Viveva in una famiglia numerosa, ultima di una schiera di figli.
Il padre diceva che era stata concepita per sbaglio.
Più che dalla madre era stata cresciuta dalle sorelle. Nei primi anni di vita si prese cura di lei la sorella Amalia fino a quando, in preda ad una crisi mistica, scappò da casa per chiudersi in un convento, disconosciuta e maledetta dal padre comunista imperterrito.
Rimasta orfana di Amalia, Licia si appoggiò ad una sorella sposata e ad altre due sorelle che, zitelle, vivevano con lei in casa e dormivano nello steso letto matrimoniale.
La madre malaticcia, più anziana rispetto agli anni anagrafici, stava sempre su di un divano a borbottare ansimando contro il marito. Si alzava quasi unicamente per trasferirsi in cucina dove nessuno poteva mettere mano. Solo il marito la seguiva come un'ombra, docile ai suoi ordini. Lei, infatti, era molto impacciata per via di quella vista che gradualmente l'abbandonava dietro gli occhiali spessi e pesanti che le scivolavano sul naso.
Il padre gestiva tutto con minuziosa precisione ed autorità. Da vecchio comunista programmava ogni cosa. Le figlie gli dovevano versare una quota dei propri guadagni, e rispettare i suoi ordini. Usciva a fare la spesa con la moglie, se delegava le figlie tutto era concordato con la moglie e scritto su di un foglietto, anche da chi fare la spesa, perché Gennaro aveva la carne buona secondo la moglie, e Angiolillo aveva buona la frutta, anzi solo la sua era veramente gustosa.
A tavola divideva le ciliegie, le castagne, persino le mele e le arance. Era equo con tutti, ma serbava la frutta migliore per sé. Esercitava così, a suo modo, la sua autorità e paternità.
Solo il figlio maschio godeva di autonomia e se ne stava sempre dalla fidanzata.
In questo clima crebbe Licia, chiusa in se stessa, timida, permalosa, con scarsa stima di sé. Si vedeva brutta, aveva paura degli uomini che vogliono arrivare subito lì, come le diceva Aurora, l'amica del cuore. Non parlava con nessuno dei suoi tormenti, e chi avrebbe potuta ascoltarla?
Si confidava ogni sera solo con il suo diario. Anche a scuola non riusciva ad emergere e tutti gli anni veniva rimandata. Questa sfiducia l'aveva indotta a non continuare gli studi dopo il diploma. Così passava le giornate a fare la babysitter ad un nipote, figlio di un'altra sorella che, altezzosa e superba, aveva problemi di rapporti sessuali con un marito alquanto molle.
Un pomeriggio, grazie alla sua migliorie amica, conobbe un giovane studente universitario, anch'egli timido ed introverso. Michelangelo era giovane di sani principi ma dall'animo sconvolto da tanti tristi eventi che avevano a che fare con la morte.
Si fidanzarono, cominciarono lunghi incontri e lunghe telefonate di sera. Michelangelo, lavorava in un collegio con 20. 000 lire al mese di retribuzione oltre vitto ed alloggio. Questa attività non gli permetteva una vita normale, come tanti giovani, ma gli consentiva di studiare.
Le reciproche ristrettezze e handicap psicologici, li univano, costituivano un connettivo comune. Insieme si sostenevano come due canne legate con un filo robusto, il filo di un amore puro e privo di ogni altro interesse.
Licia trovò un lavoro e si rese più indipendente. Michelangelo cambiò collegio e fece, per così dire, carriera, riuscendo a guadagnare uno stipendio molto più alto. Nel frattempo studiava di notte, rubando il tempo al sonno. Aveva un entusiasmo propulsivo che suscitava l'invidia di tutti i colleghi per i continui esami che sosteneva e superava. Ma nessuno mai riuscì ad imputargli uno scarso impegno sul lavoro, anzi l'anno successivo fu nominato capo istitutore.
E si laureò un giorno di dicembre dopo aver battuto la tesi con la macchina da scrivere del collegio con sole due dita, ma anche Licia partecipò a quella stesura e in ogni incontro, la sera in una piccola stanzetta faceva da cavia, da correttore di bozza.
Anche Licia trovò lavoro e si rese indipendente dalla famiglia, anche se doveva versare una quota al padre. Si alzava presto e andava a Pomigliano con un pullman di operai. Sul lavoro si faceva rispettare, anche se una volta dovette scatenare gli ormoni del giovinastro Giuseppe, che nello stanzino del caffè, le mise una mano sul sedere violando la ritrosia del suo pudore. Michelangelo ne era geloso, ma mascherava i suoi sentimenti, come fossero men che nobili.
Era un rapporto bello, una poesia lieta, un crescere insieme, un camminare tenendosi per mano. Fecero anche molti concorsi, e camminando nella villa accanto al mare ripetevano la geografia o le nozioni di previdenza sociale e di diritto.
Ce la fecero. Contro ogni previsione generale, che vedeva nero in partenza, che era convinta che i concorsi li vincevano solo i raccomandati. Ce la fecero perché quei due ragazzi spaesati e gracili insieme erano una forza, e Michelangelo, nato nel segno del leone, era testardo e determinato, portava scolpito nel nome il suo carattere. E poi c'era il propellente dell'amore che volevano concretizzare nel matrimonio.
In quell'idillio si insinuò un virus, apparentemente poco significativo e pericoloso. Licia partì per la Spagna con il suo datore di lavoro e la figlia. A lei piaceva viaggiare, nonostante l'estrema povertà in famiglia l'avevano sempre fatto, specialmente al seguito della sorella più grande che s'era sposata con un anziano signore benestante.
Michelangelo, che voleva essere moderno o che non aveva avuto il coraggio di opporsi, perché credeva che nell'amore e nei rapporti certe cose si devono capire, dare e non chiedere, rimasto solo, fu morso dalla gelosia. Fantasticava, anche perché Licia gli aveva sempre parlato male del datore di lavoro. Era un porco, diceva. Non che non avesse fiducia nella sua donna che aveva ormai idealizzato come la cosa più pura, ma si chiedeva perché avesse avuto il coraggio di lasciarlo solo, perché gliene avesse parlato solo dopo aver assunto l'impegno con il suo datore di lavoro. Insomma, si ruppe qualcosa, un non so che di indefinito, nella fiducia, nel trasporto, nella prospettiva, nella considerazione. Ma Michelangelo amava troppo Licia ed anche lei vedeva in Michelangelo una fuga dal suo stato, una via per la libertà. Questi collanti tennero insieme il giocattolo e il viaggio proseguì sereno.
Michelangelo vinse due concorsi, uno addirittura come laureato, ed emigrò al Nord, a Torino dove sarebbe stato più semplice per Licia raggiungerlo, visto che era risultata idonea in un concorso delle Poste.
Era di gennaio e Torino era gelida, pioveva tutti giorni una pioggerellina fina fina che penetrava nelle ossa e inzuppava i neri marciapiedi. In ufficio l'accolsero in un grande salone pieno di scrivanie e di carte.
Michelangelo si vide perduto, si sentiva piccolo, inadeguato, completamente estraniato. Il capo, giovanile e sorridente, di un sorriso ingenuo, lo affidò ad una signora sulla cinquantina, una zitella severa, abbarbicata alle norme come una conchiglia al suo scoglio. La sua faccia era rugosa, quasi solcata, graffiata dal tempo e dalle sofferenze. Negli occhi si leggeva una profonda mascherata tristezza. Quel giovane le faceva una certa tenerezza, era orgogliosa di essere la sua maestra, si sforzò di sorridere, di modulare la voce in modo soave, di ispirare fiducia; ma era precisa, snocciolava norme che Michelangelo appuntava su fogli volanti. Non lesinava nemmeno le circolari, che a quei tempi erano merce rara, che solo pochi possedevano perché la diffusione era costosa, ma soprattutto perché la conoscenza era potere. E cominciò a tirare fuori dagli scaffali le prime pratiche per ogni tipologia di norma ed assegnare i compiti. Michelangelo si buttò sulle circolari, studiava fino a tardi anche quando tornava a casa perché non voleva deludere la sua maestra, fare brutte figure. Era orgoglioso ma anche spinto da una grande curiosità e da una grande fame di conoscenza.
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0 recensioni:
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- Molto bello Ettore... fare di due debolezze (sane) un unica forza... un'unica forza... l'Amore può...
- Grazie Mariateresa, hai ragione. Apprezzo ogni suggerimento, so di essere distratto e anche pigro.
Spero di continuare la storia.
- Ettore, scusa, ma sono un poco perplessa.. attendo di leggere il seguito.. a mio modesto parere dovresti rileggere qualche passaggio perchè a volte la punteggiatura si perde, limare un attimo ( ma solo un attimo..) la forma. Scusa se mi sono permessa

- Una favola moderna, attendo il seguito...

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