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Incubo N 4°
Giuseppe aveva trovato il suo costume da diavolo ad un mercato rionale, durante una vacanza nel centro Italia, l'aveva colpito la verosimiglianza della maschera, perfettamente aderente al volto:
dal giorno in cui l'aveva comprato aveva messo su qualche chilo, ma gli stava ancora, tirando un po' sulla pancia faceva ancora la sua onesta figura.
Ogni domenica mattina, dacché era arrivato in paese, si preparava per la messa delle undici e con tanto di coda e forcone si appostava nelle vicinanze della chiesa.
Il parroco iniziava la lettura come se nulla fosse, ma tanto lui quanto i fedeli aspettavano con divertita rassegnazione il momento in cui Giuseppe sarebbe apparso:
poco prima della comunione il portone si spalancava e lui faceva il suo ingresso, cantava a squarciagola l'Ave Maria, e lasciava la chiesa.
Giuseppe era arrivato in paese dieci anni prima, per coprire un posto vacante da ingegnere nella locale vetreria, e si era fatto subito conoscere per le stranezze del suo carattere e per la sua assoluta invulnerabilità al freddo, capace com'era di uscire in canottiera a febbraio inoltrato, trovava nelle burle che progettava con assoluta dedizione, la risposta più lieve alla serietà feroce delle persone per bene:
se le prime volte il prete e i fedeli praticanti erano rimasti stupiti ed irritati dalle sue apparizioni, si era col tempo instaurata una pacifica convivenza, si potrebbe persino dire che la nota folkloristica da lui introdotta avesse riportato all'ovile alcune pecorelle smarrite.
Viveva da solo in una grande casa inerpicata sulla collina alla periferia del paese, un giardino mal curato che fra una pendenza e l'altra si estendeva per circa cento metri quadri, e poi due piani con la zona giorno al piano terra e quattro stanze da letto appena salite le scale.
Sua moglie se ne era andata quando da poco si erano trasferiti, portando con se il figlio di dodici anni, e Giuseppe li vedeva raramente, quando il ragazzo trascorreva un fine settimana con lui, o quando un attacco di malinconia lo spingeva in macchina, sino alla vicina città dove vivevano:
in generale era contento del suo ragazzo, studiava economia all'università e non gli dava granché da pensare, sebbene gli fosse sempre sembrato troppo serio, da sua madre aveva ereditato quella mancanza di senso dell'umorismo che aveva tanto condizionato il loro rapporto, ma pensava che infondo ognuno è com'è, e non vale la pena agitarsi per qualcosa che non si può cambiare.
Il suo rapporto con i compaesani si basava sulla reciproca accettazione, come loro si erano abituati alle sue irruzioni in chiesa, alle tracce che disegnava nei boschi per indurre i più creduli ad aver paura dei fantasmi, come avevano commentato con una risata la scoperta che l'autore del manifesto mortuario a suo nome non era che lui;
Giuseppe si era immerso con naturalezza nelle discussioni del bar, divertendosi per le chiacchiere pedanti dei professionisti della notizia, ridendo senza ritegno delle avventure dei cazzari, riconosciuti da tutti per la loro funzione sociale:
ben sapeva che in sua assenza quelli con cui aveva riso avrebbero riso anche di lui, ma non ci vedeva cattiveria, solo l'infinita noia di quei pomeriggi di nebbia, che in un modo o nell'altro bisogna pur riempirli.
Nel suo lavoro era davvero in gamba, progettava bicchieri con dedizione assoluta, pensava di dover prendere qualcosa seriamente, e nel dubbio aveva scelto qualcosa che gli desse da mangiare, lasciando per tutto il resto quell'ironia gioiosa con cui si rapportava al mondo, sicuro che non esistesse modo migliore per manifestare il suo amore per gli esseri umani, nulla poteva essere meglio che far ridere...
Alessandro aveva poco più che vent'anni, nato e cresciuto nel paese, ai tempi in cui Giuseppe era comparso iniziava appena le medie, ora frequentava la facoltà di giurisprudenza con la zoppicante certezza che non fosse quella la sua strada:
per uno strano caso i suoi genitori erano stati i primi a sconsigliarlo, vedendo meglio di lui quanto fosse impossibile per loro figlio adattarsi ai ritmi costanti, necessari per lo studio del diritto "Iscriviti a lettere... Poi per il lavoro si vedrà..." gli aveva suggerito sua madre
Alessandro aveva pensato che, se proprio doveva continuare a studiare, tanto valeva fare qualcosa che gli desse delle opportunità reali, e con fulminea rapidità si era pentito della decisione:
tirava avanti senza mai brillare, e spendeva più tempo alla ricerca di una via d'uscita di quanto non ne impiegasse nello studio.
Conosceva Clara da otto anni, e sapeva perfettamente che sin quando non avesse chiarito ciò che con lei aveva in sospeso non avrebbe trovato la forza per rompere con la routine della sua vita, d'altra parte non era mai stato un tipo deciso e le molte implicazione dei loro passati rapporti gli consigliavano una prudenza ai limiti dell'immobilismo.
Clara era sin troppo impegnata a raccapezzarsi fra lo studio della medicina e le numerose piccole manie che la contraddistinguevano, per accorgersi dell'assurda vicenda in cui era involontariamente coinvolta.
E se avesse anche intuito qualcosa il suo bisogno di sicurezze le avrebbe impedito di accettare una così stramba variante.
Il suo carattere le imponeva di poggiarsi su una rete di equilibri precari, poche amicizie consolidate e un bisogno di credere alle proprie opinioni che la portava, talvolta, a cristallizzarsi su posizioni pericolosamente simili a pregiudizi...
Erano tempi, quelli, di forti tensioni politiche, pareva che nel paese intero non vi fosse posto per chi non voleva prendere parte, l'immigrazione cresceva di giorno in giorno, e la crisi economica alimentava gli estremisti opposti:
chi credeva in un futuro assolutamente multiculturale, nella morte delle rispettive culture a favore di un impasto globale, difendeva gli immigrati facendosi forza della certezza ipocrita che questi rappresentavano la forza lavoro necessaria a coprire quei lavori troppo umili per i nativi.
Gli altri, sicuramente maggioritari nel paese, attribuivano agli stessi immigrati la responsabilità d'avere abbassato il costo del lavoro, riducendo gli onesti lavoratori a schiavi;
e ancor di più li spaventava l'attacco alle tradizioni, che a loro avviso dovevano connotare il progresso di una civiltà consapevole del proprio passato, vedevano come un affronto le donne camminare per strada con il volto coperto dal velo, li terrorizzava la costruzione di moschee, che potevano mutare velocemente in centri d'aggregazione per criminali, o peggio terroristi.
Quei pochi che avevano su quel confuso periodo un'opinione staccata dalle agguerrite tifoserie, incorrevano nel disprezzo degli uni come degli altri, bollati com ignavi, o comunque come nemici sotto mentite spoglie.
Giuseppe era per natura un uomo assai poco dogmatico, sentiva d'avere molti più dubbi che certezze, e quando assisteva a scambi di cortesie fra le curve dei conservatori e dei liberali, lo coglieva l'impressione d'essere precipitato in un mondo di pazzi, che avevano rinunciato a servirsi di quella forma dubitativa che è la natura stessa della ragione umana, e che, ancor più grave, parevano aver scordato cosa fosse l'ironia, troppo impegnati com'erano a prendere tutto maledettamente sul serio.
Di par suo credeva che l'unico modo di rapportarsi al prossimo fosse considerare le persone una per una, senza categorizzare, prendendosi il disturbo di conoscerle, e rinunciando al piacere perverso di giudicarle, perché solo nei sentimenti e nelle emozioni si poteva trovare traccia di quell'umanità di cui la nostra specie si riempie spesso la bocca.
Come in tutti i paesi piccoli, anche nel nostro il Bar rappresentava il più forte punto d'aggregazione per le varie generazioni, l'unico rifugio dal freddo nei pomeriggi invernali, il luogo in cui godersi una birra gelata nelle serate afose d'estate, e volente o nolente un gruppo di ventenni di ritorno dall'università si trovava a fumare nella veranda, accanto ad anziani signori intenti a commentare le molte novità offerte dalla calma lacustre della cittadina.
E a Giuseppe capitò spesso di ascoltare con orecchio interessato le accese discussioni di Alessandro e dei suoi amici, figli di un'educazione liberale, respiravano in quel tempo l'atmosfera vivace delle città universitarie, e sperimentavano un'apertura verso le idee che li toccavano, propria di chi si fa largo a tentoni in uno dei momenti più complessi della vita.
Pensava che sarebbe stato bello preservare i più giovani da quel manicheismo dilagante che la maggioranza dei suoi conoscenti impugnava come una scure, e poi si era sempre trovato bene con persone di ogni età, pur sapendo che per ogni stagione della vita abbiamo un ruolo diverso, non vedeva ragioni rifiutare il dialogo con chi era più giovane.
Il bar era piuttosto grande, si articolava in tre diverse stanze:
l'ingresso con sulla destra il bancone e sulla sinistra una fila di tavoli in vetro si allungava sino ad una porta a soffietto che dava sulla stanza del biliardo, svoltando a sinistra c'era poi la zona riservata al grande televisore, dove gli appassionati seguivano le partite del campionato di calcio.
Fuori una veranda coperta dov'era possibile fumare senza morire congelati, dove generalmente si installavano gli amici di Alessandro per sopravvivere ai pomeriggi più lenti, quando non c'era proprio nulla da fare, e caffè dopo caffè ci si trascinava sino all'ora di cena.
Giuseppe si sedette con loro un pomeriggio di tardo autunno, i ragazzi lo conoscevano come in paese tutti si conoscono, e provavano una certa simpatia per quel curioso orso, maestro della burla, capace di sfidare i primi freddi armato di una maglietta verde leggera quanto bizzarra:
le ragazze lo consideravano con qualche diffidenza, nutrita dall'idea per cui tra le generazioni debbano esistere barriere invalicabili, i ragazzi apprezzarono invece, tanto la birretta giornaliera che prese l'abitudine di offrire, quanto l'ironia sottile con cui commentava le avvincenti discussioni dei tavoli vicini.
Lui scoprì di divertirsi parecchio, come se potesse prendersi una vacanza dagli schemi che, anche un tipo strano come lui, doveva rispettare nei discorsi seri con i coetanei, gli sembrava che quei tre o quattro ragazzi portassero nella sua vita una ventata di freschezza, da non confondere col malinteso facile della malinconia per un'età passata, e il sabato pomeriggio dedicare loro un'ora divenne una gustosa abitudine.
Alessandro provò immediatamente una grande stima per quell'uomo, capace di stare al mondo a modo suo, senza farsi travolgere, ammirazione per la cultura che dimostrava con un pizzico di ostentazione, e si affezionò più di tutti all'appuntamento fisso del sabato:
con i suoi amici, Giacomo ed Andrea, prese anche l'abitudine di collaborare ad alcune delle trovate del loro esperto compare.
Parlava loro della sua idea di libertà, sempre condita con riferimenti ai romanzieri di inizio novecento, ai filosofi anti positivisti, mettendoli in guardia contro la facile tentazione di innamorarsi troppo di una teoria, dimenticando che nessuno ha capito tutto della vita "Al massimo si può offrire un punto di vista nuovo, che apra orizzonti diversi spingendoti a pensare, ma dei dogmi dovete sempre diffidare, una risata li seppellirà..."
"Dovranno pur esistere vero e falso" insinuava lo scientifico Andrea
""Ne esistono tante versioni, bisognerebbe sempre affrontare i problemi da ogni punto di vista possibile, senza lasciarsi trasportare dall'entusiasmo per un'argomentazione piuttosto che per un'altra"
Alessandro discuteva spesso di lui con Clara, lei obbiettava con aria seria che era sciocco idolatrare qualcuno che ti invita a non credere a nessuno in particolare...
"E poi c'è qualcosa che non va in un uomo che non sa stare con le persone della sua età, non è normale passare tanto tempo con ragazzi dell'età di tuo figlio, è questione di ruoli..."
"Tutte sciocchezze" si scherniva lui "Le persone sono persone e non mi sembra strano che preferisca bere una birra con noi piuttosto che con quei rincoglioniti che popolano il bar"
Ma poi lasciava cadere la conversazione, discutevano già troppo anche senza tirare in ballo Giuseppe, e farla arrabbiare era un'abitudine cui avrebbe rinunciato volentieri:
aveva accettato da tempo di essere innamorato di lei, e si era rassegnato alla realtà di un amore non corrisposto, riconoscendo come saggia la scelta di tenersi la cosa per sé, spaventato dalla possibilità di peggiorare soltanto le cose.
Da qualche tempo però, non poteva fare a meno di interrogarsi, quello strano rapporto lo legava più di quanto avrebbe voluto, e la speranza che il tempo venisse in suo soccorso somigliava sempre di più ad un salvagente sgonfio, da troppo tempo tutto cambiava intorno, ma non ciò che lui provava, e si faceva sempre più forte la consapevolezza che se non si fosse liberato di quell'ingombrante rospo che albergava nel suo stomaco, non avrebbe saputo lasciare quel paesino che da tempo gli andava stretto.
Credeva ingenuamente di trovare altrove ciò che lì gli era precluso, in verità i piccoli paesi sono un perfetto specchio dei sentimenti di una nazione, solo che in città vivono molte più persone, e per forza di cose la ricerca dei propri simili offre molta più scelta, e al contempo è più semplice ignorare chi proprio non ti va giù.
Il gruppo di Alessandro vedeva come un pugno in un occhio la nascita di organizzazioni giovanili di estrema destra, e quando ad avere vent'anni non ci sono che un centinaio di ragazzi è ovvio che quegli stessi che mostrano con fierezza teste rasate e croci celtiche, li hai conosciuti alle elementari o alle medie, ed erano ragazzi come te, e la distanza cresciuta con gli anni fa più male.
In Paese non erano che una decina, e più che avere un'idea politica reagivano alla mancanza di certezze gettandosi fra le braccia di un facile fanatismo, misto di idee razziste e integralismo religioso molto equivoco, ma nessuno li prendeva troppo sul serio, neppure gli altri ragazzi che avevano finito per bollarli come idioti irrecuperabili, cambiando strada se li incrociavano:
il loro capo, perché ce ne deve essere uno, era stato in classe con Alessandro alle medie, veniva da una famiglia povera e non aveva mai brillato a scuola, ma seppur diversi allora erano stati quasi amici, frequentando le rispettive case e condividevano le prime birre, o le prime sigarette.
Si chiamava Dario, e mentre i suoi vecchi compagni studiavano all'università, lui aveva trovato un contratto a rinnovo in una fabbrica di trasformatori, uno fra i tanti che ogni mese devono incrociare le dita sperando di non perdere il lavoro:
la testa rasata d'ordinanza, felpe rigorosamente col cappuccio, non aveva in realtà passatempi troppo diversi dagli amici di Alessandro, bar, pub qualche canna... A parte qualche rissa derubricabile a ragazzata da bulletto e niente più;
e se gli adulti coscienziosi lo guardavano con qualche diffidenza, non mancò chi firmasse la petizione contro la costruzione di una moschea che il suo gruppo promosse.
Quell'anno febbraio fu particolarmente freddo, chi portava molti inverni sulla schiena sosteneva di non ricordarne uno più freddo da almeno dieci anni, ed in effetti il termometro segnava ogni notte almeno dieci gradi sotto zero, Alessandro studiava in una città sul mare ed ogni venerdì viveva la discesa dal treno come un vero e proprio colpo al cuore, lasciava la piccola stazione avvolgendosi nella sua giacca di lana nera, rimpiangendo amaramente d'aver perso la sciarpa in una serata particolarmente alcolica.
Le serate del fine settimana le spendeva con Clara egli altri amici centellinando le sigarette, per non lasciare troppo spesso il caldo del pub, e persino la veranda del bar si stava facendo piuttosto inospitale:
un sabato a metà del mese Giuseppe li raggiunse mentre lui e un paio di amici erano talmente bardati che parevano pronti per la siberia, e ciò nonostante Alessandro non faceva che lamentarsi del freddo "A vent'anni... Per qualche grado sotto zero..." lo schernì "Volete una birra?"
"Per me un bombardino" rispose Ale "Mi pare più adatto al clima..."
"E bombardino sia..." concluse Giuseppe entrando ad ordinare
"Io vado a casa" si alzò Clara "Che avrete da progettare qualche stupidaggine"
"Sei troppo seria tesoro mio..." ironizzò Alessandro
"Ci vediamo sta sera?" "Certo" risposero in coro mentre lei usciva con la sua migliore amica al seguito.
"Allora figlioli" Giuseppe era di ritorno "Ho da proporvi qualcosa di divertente"
"Siamo tutt'orecchi"
"In questi giorni si sta verificando uno strano fenomeno" fece una pausa per aumentare l'attesa "In tutto il paese le statue dei santi stanno versando lacrime di sangue..."
"È vero" intervenne Giacomo "Solo ieri al telegiornale avranno parlato di due casi"
"Mi pare fossero Santa Teresa a Portici e San Giovanni a Milano" si ricordò Andrea
"D'altra parte" intervenne Alessandro "Dati i tempi li capisco..."
Giuseppe li osservava ridendo sotto i baffi "Allora vi faccio una proposta" erano tutti in attesa "Che ne dite se sta notte facessimo piangere la statua di San Lorenzo?"
"Grande!" erano entusiasti.
Spesero l'ora che restava pianificando la sortita, per entrare in chiesa potevano servirsi di una porticina sul lato dell'edificio che il parroco lasciava sempre aperta.
Per le lacrime avrebbero usato il classico Mercurio Cromo, ideale per colore e consistenza, poi non restava che presentarsi alla messa domenicale per godersi il risultato, semplice ed efficace.
Si lasciarono con l'impegno di rivedersi per l'una sotto i portici che conducevano alla chiesa, a portare l'occorrente avrebbe pensato Giuseppe, veterano di questo genere di scherzi:
non erano in realtà trascorsi più di due mesi da quando si era introdotto dalla stessa porticina, quella volta aveva sostituito i testi sacri a disposizione dei fedeli, con alcuni sonetti di Cecco Angiolieri, aperti a pagina trentadue, su "Il Beccaio".
Quello stesso pomeriggio, poco distante dal bar, anche Dario e la sua banda facevano progetti:
si erano entusiasmati per la proposta di un partito di governo, che aveva lanciato l'idea di affiancare alle forze dell'ordine, ronde di cittadini volontari:
dal loro punto di vista la massiccia immigrazione aveva compromesso la sicurezza dei cittadini che desideravano restare fuori casa la notte, giocando su paio di stupri avvenuti nei mesi passati ad opera di stranieri, avevano rilanciato posizioni xenofobe, tralasciando completamente la realtà dei fatti, la stragrande maggioranza dei criminali del paese, stupratori compresi, era di origine assolutamente autoctona.
Dario aveva immediatamente abbracciato l'idea, e la stava proponendo ai suoi amici "Dobbiamo iniziare da subito, gli sbirri hanno paura di prenderle, ma vedrai che se ci siamo noi staranno più attenti"
Gli altri erano d'accordo, ma nutrivano qualche perplessità "Guarda che quella gente lì va in giro armata"
"Infatti non pensavo di uscire a mani vuote... Io mi porterei volentieri la mazza da baseball, ma temo che i poliziotti potrebbero romperci i coglioni, ma un coltello basta tenerlo in tasca e non lo vede nessuno..."
Restarono tutti in silenzio per qualche momento, darsi due pugni era un conto, portarsi un coltello era diverso... "Non è" obbiettò il più prudente "Che ci infiliamo in qualche grana troppo grossa?"
"Chi non ha le palle può tranquillamente stare a casa..."
Nessuno volle ribattere, e iniziarono i preparativi, non che ci fosse molto da organizzare, potevano cominciare già quella sera.
Alessandro incontrò i suoi amici intorno alle nove, al solito bar, e quasi subito si spostarono nel solito pub, distante non più di cinque minuti a piedi:
un locale piccolo ed accogliente, pochi tavoli e clientela selezionata, al punto che la distribuzioni dei posti era quasi istituzionale, i nostri si sedevano quasi sempre sul fondo, accanto alla cucina...
Se invece il tasso alcolico della serata si alzava, tutti finivano per stare in piedi, facendo la spola tra il bancone e l'uscita d'emergenza dove fumare una sigaretta veloce al freddo:
in quel caso bere un paio di negroni in più era pura sopravvivenza, l'unica maniera per dimenticare il gelo.
E alle dieci avevano tutti accumulato una buona dose di brindisi, e le conversazioni si facevano allegre e sconnesse;
Alessandro rimase quasi sempre accanto a Clara, gli capitava quasi ogni volta, se era sull'ubriaco andante, bastava che lei sorridesse una volta di più e lui si scordava il contorno.
Quella volta però dovette scappargli una frase di troppo "Potresti andare a prendere da bere..." gli chiese lei "Io non ho proprio voglia di aspettare al bancone"
"Certo che sei simpatica eh..." si lamentò lui
"Perché scusa?"
"Perché sai benissimo che lo farò anche se non ne ho voglia nemmeno io... E te ne approfitti..."
"Perché scusa? Non hai una volontà tua?"
Per distrarsi Alessandro tentò di avvicinare una ragazza di due anni più piccola, che pareva interessata a lui, ma come molte altre volte non resse il tono della conversazione "Il guaio" si lagnò tornando dagli amici "È che se sono intelligenti non te la cavi con quattro stronzate... Ma se una è così cretina finisce che ti passa la voglia... Quella lì deve tenere a mente la necessità di respirare, altrimenti muore soffocata..."
"Madonna che noioso" lo schernì Clara "Ti lamenti sempre per qualcosa..."
"Tu sei l'ultima che dovrebbe dirmi qualcosa" rispose senza pensarci due volte
"Perché scusa?"
"Perché tu potresti liberarmi da questo tipo di vicende, se solo lo volessi..."
"Tu mi devi spiegare cosa cosa ti gira in questo periodo"
"Tanto probabilmente non mi crederesti neanche..."
"Se non ti esprimi..."
Quando si trovarono da soli a fumare lei tornò alla carica "Sul serio" iniziò "Mi sa che dobbiamo parlare"
"Pensi di potermi prendere sul serio?"
"Ci proverò..."
Si allontanarono di qualche metro, entrambi piuttosto nervosi, seppure per ragioni diverse
"Comunque quello che devo dirti potresti averlo capito da una vita... Ubriaco o sobrio che fossi diciamo che ho provato a dirtelo più di una volta"
Clara era una ragazza molto intelligente, e probabilmente un paio di sospetti li aveva "Non ci posso credere! Mi spiace guarda, ma proprio non posso crederci"
"Dispiace anche a me tesoro" "Non chiamarmi tesoro" "Dispiace anche a me, ma cosa ci posso fare se sono innamorato di te?"
Lei non poteva stare ferma "Non devi nemmeno dirlo" lo fermò "Ma ti rendi conto di quante palle mi avresti raccontato se fosse vero?"
"E da quand'è che ti sarebbe venuta quest'idea?" domandò camminando di fronte a lui che si era seduto su un gradino
"Non saprei, c'è voluto del tempo per elaborare la cosa, comunque di sicuro da più del dovuto..."
"Cosa vorrebbe dire da più del dovuto, guarda non ci credo, sul serio, non è mica possibile"
Clara iniziò una certosina opera di scavo per riportare alla luce tutte le liti e le incomprensioni avute da quando si conoscevano, e Alessandro, generalmente così loquace, si trovò a corto di risposte, tremando come una foglia per il freddo.
Intanto il tempo passava e la mezzanotte era trascorsa, ma nessuno degli amici pensò di avvicinarsi per ricordare ad Alessandro dell'incursione in chiesa, aspettarono per un po, ma erano già in ritardo e si avviarono da soli.
Dario e i suoi compagni invece, avevano lasciato il pub insolitamente presto, decisi a mettere in pratica l'idea della ronda sin da quella notte, quelli che avevano avuto dei dubbi il pomeriggio si erano tranquillizzati, pensando che in fondo era improbabile che qualcosa accadesse, ed ora camminavano baldanzosi, fieri di rappresentare un eroico baluardo contro il crimine, faceva troppo freddo perché i poliziotti pensassero di abbandonare le loro macchine, e i ragazzi si sentivano padroni delle strade.
Giuseppe era arrivato davanti alla chiesa con anticipo, e vedendo che non c'era nessuno in giro pensò di fare un sopralluogo all'interno, prima che arrivassero i ragazzi, tanto per scaldarsi un po':
quando Dario lo vide si stava avvicinando alla porta secondaria con molta circospezione
"Tu" lo chiamò "Che cazzo stai facendo"
"Sarà qualche marocchino che vuole dormire in chiesa" sussurravano alle sue spalle
Sulle prime Giuseppe si spaventò un poco, ma girandosi riconobbe i ragazzi che aveva incrociato spesso, al bar "Sono solo io ragazzi" rispose fiducioso, ma il loro atteggiamento rimase aggressivo
"Chissenefregra di chi sei, ti ho chiesto cosa stai facendo"
"Ma nulla" si difese lui "Volevo solo fare uno scherzo, sapete, far piangere San Lorenzo"
Stava quasi per mettersi a raccontare l'idea anche a loro, ma Dario si avvicinava minaccioso
"Gli stronzi come te mi danno sui nervi, sempre pronti a mettere in ridicolo tutto, è per colpa di quelli come te che i negri fanno quello che vogliono"
"Dai Dario" lo chiamò uno dei ragazzi alle sue spalle "È solo Giuseppe, non esagerare"
"Non esagero un bel cazzo" si voltò con l'espressione incattivita "Ve l'ho detto anche oggi, i senza palle possono andare a casa"
"Sarò anche un senza palle, ma questa è una cazzata, io me ne vado"
Lo seguirono altri quattro e tre soli restarono, pieni di adrenalina sino alle orecchie, Giuseppe ancora non sapeva spaventarsi "Dai ragazzi non fate gli stupidi"
Dario lo colpì al volto, e gli altri gli furono addosso in un attimo, sorprendente quanto queste cose accadano in fretta.
Quando gli amici di Alessandro giunsero davanti alla chiesa li videro allontanarsi di corsa, per terra disteso c'era Giuseppe, non c'era molto sangue, solo qualche rivolo vicino alla testa poggiata in modo innaturale:
chiamarono l'ambulanza, che giunse in fretta, e la polizia che arrivò solo dopo un'ora.
Provarono a chiamare anche Alessandro, ma lui non rispose "Sarà per la storia del santo" disse a Clara "Pazienza..."
Stavano discutendo da due ore, ma erano fermi al punto di partenza, e quando ormai il pub era quasi vuoto si arresero all'evidenza che non si sarebbero capiti, Clara salì sulla macchina di un'amica, senza potersi capacitare di quella strana serata;
Alessandro tornò a casa a piedi, valutando ad ogni svolta la possibilità di prendere a testate un muro.
La mattina si diffuse in paese la notizia di ciò che era accaduto davanti alla chiesa:
Giuseppe era morto poco dopo l'arrivo in ospedale, un colpo sfortunato gli aveva spezzato la trachea.
Dario e i suoi compagni vennero arrestati che ancora non era pomeriggio, erano stati visti scappare, e non si erano neppure liberati dei vestiti sporchi di sangue, vennero condotti al vicino carcere, in attesa del processo, i loro genitori assistettero increduli alla scena, mentre la polizia li faceva salire sulle volanti, non avevano idea che potessero essersi fatti coinvolgere in una storia del genere, e probabilmente non si sarebbero mai dati pace, per non averlo capito in tempo.
Alessandro seppe tutto da suo nonno, che era uscito sul presto per comprare il giornale, fu come una pugnalata, era davvero troppo assurdo, e iniziò da subito a lavorare un tarlo, se lui fosse andato con gli altri, magari sarebbero arrivati in tempo per fermare quella follia.
Il funerale venne celebrato due giorni dopo, partecipò tutto il paese, perché a quel tipo strano, in fondo, s'erano affezionati, e poi la morte coincide quasi sempre con la santificazione:
la cerimonia fu civile, come Giuseppe aveva lasciato scritto, con musica e un bel sole incapace di scaldare quell'inverno gelido.
Alessandro se ne andò da solo, poco prima che le esequie finissero, ascoltando in lontananza le note di "Canzone di notte N 2°", pensò che tutta quella gente, del suo amico, non aveva capito proprio niente "Alla fine" si disse "Il problema è quello, le persone non sanno parlarsi"
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