racconti » Racconti gialli » Tànatos
Tànatos
Restò in attesa solo pochi minuti. Un energumeno ben vestito lo scortò nell’ufficio del Capo, un ampio stanzone semi vuoto con una vista mozzafiato. La città si stendeva sonnolenta al di là della sala, un’intera parete di finestre, dal soffitto al pavimento, regalava una sensazione di vertigine. Il Capo era in piedi, ad ammirare le tante, anonime formichine che si muovevano per strada a grande distanza dal suo naso. Quando entrarono non si voltò. L’odore dolciastro che impregnava la stanza era il risultato dei mille Montecristo che amava fumare in continuazione. Proprio in quel momento ne stringeva uno, ancora spento, tra le labbra. “Buongiorno Dexter, accomodati” disse mantenendo lo sguardo fisso nel vuoto. “Non ti chiedo come stai, posso immaginarlo”. Un fastidioso sorriso accompagnò le sue parole. Dexter restò impassibile, ritto in piedi, le braccia incrociate sul petto e gli occhiali scuri a nascondere ogni espressione che potesse scalfire il suo stato d’animo.
“È una bella giornata, non trovi Dexter? Una bella giornata d’agosto. Che ne diresti di andartene un po’ al mare, eh?”. Continuava a sorridere quel bastardo grassone. Il suo finto eloquio era fine a se stesso, sterile ed improduttivo, come la sua vita pidocchiosa.
Il Capo si girò, accese il sigaro e tirò una lunga, gustosa boccata. In breve il suo volto fu nascosto da una gradita nuvola di fumo. “So che sei stato già informato dell’operazione nei minimi dettagli, Dexter, per cui non c’è motivo che ti trattenga altro tempo. Sai già dove trovare l’obiettivo. È a conoscenza di troppe cose. Non possiamo permetterci che continui a respirare e sapere. Siamo certi che farai un ottimo lavoro, come sempre. L’Organizzazione te ne sarà grata, Dexter. Scegli l’arma che ritieni più congeniale. So che ci tieni a far soffrire la vittima il meno possibile, eheheheh”.
Dexter digrignò i denti, l’energumeno avvertì la violenza sopita dal suo gesto e gli si appressò per impedirgli eventuali, sconsiderate mosse contro il grassone.
Il Capo puntò distrattamente il dito rotondo verso una lavagna, appesa alle spalle di Dexter. “Sei un ottimo agente. Ma credo che questa sarà la tua ultima missione.” Dexter si voltò. Lesse distrattamente la lavagna, guadagnò la strada verso la porta ed uscì. Lasciò l’energumeno impalato in mezzo alla stanza e non sentì neppure il Capo salutarlo con un glaciale “Addio”.
Ripeté mentalmente il nome in codice della sua missione, come era scritto su quella maledetta lavagna. La sua ultima missione. Tànatos.
Sarebbe stata una giornata fantastica. La fuga dal caldo umido gli avrebbe regalato una serie impressionante di piacevolissime nuotate in compagnia della sua ciambella a forma di elefantino. Senz’altro la mamma gli sarebbe stata con gli occhi addosso, sempre vigile, ma ciò non gli avrebbe impedito di giocare con gli amici, di tuffarsi a candela dagli scogli bassi, di spingersi in là di qualche metro con il suo morbido canotto a due remi. Era ancora presto per il primo bagno, mamma diceva che doveva ancora digerire l’abbondante colazione e l’acqua al momento era troppo fredda. Certo, aveva ormai otto anni di vita alle spalle, per cui si sentiva già grande… ma sapeva bene che certe volte i grandi andavano accontentati, per cui pensava bene che non sarebbe stata la mossa migliore contraddire gli ordini della mamma.
Poco male, le biglie ed i castelli di sabbia lo avrebbero aiutato a passare il tempo nel migliore dei modi.
Scuro in volto e pensieroso, Dexter scese nel seminterrato. Wolf, uno spilungone allampanato, sgranocchiava un croccante, semisdraiato su un tavolo, mentre sfogliava una rivista porno. Da circa due anni gestiva l’armeria dell’Organizzazione ed ormai conosceva alla perfezione le esigenze ed i “gusti” degli agenti operativi. “Ehi Wolf, dammi il 103”. Disse telegraficamente l’agente. “Ciao Dex, eccoti pronto il tuo giocattolo preferito.” Con grande attenzione, quasi si trattasse di un prezioso vaso di cristallo, gli porse l’arma: un fucile d’assalto AK-103 di fabbricazione russa, calibro 7. 62, mille metri di gittata. Boom!. “Amico mio, non so chi sarà lo sfortunato di oggi, ma mi dispiace per il suo cervello. Quando lo colpirai dritto tra gli occhi, sarà buono solamente come cibo per gatti, eheheheh”. Alla battuta dell’armiere Dexter non ebbe la minima reazione. Lo salutò gelidamente e se ne andò.
Il suo era un lavoro maledetto, una scelta sbagliata della quale era ben presto rimasto prigioniero. Pensava di cambiare il mondo, di spegnere incendi di rivolta, di portare equità e speranza. Ma ben presto si era accorto che dietro di sé lasciava infinite scie di sangue e morte, dolore e fobìe che, ben presto, lo avrebbero rincorso nei suoi incubi sempre più profondi ed assidui. Percorrendo il Waterloo Sunset, la lunga strada verso la spiaggia, ripensò alla sua famiglia ed alle mille bugie inventate e raccontate, affinché non sapesse. Quanto tempo ancora avrebbe resistito? Ma fortunatamente era finita. Il grassone aveva deciso. Ormai andava incontro alla sua ultima missione. Tànatos.
Che Leroy fosse un idiota lo sapeva anche il padre, ma ormai se ne era fatto una ragione. Le scuole migliori, le università più costose, le compagnie più selezionate non erano riuscite a trasformare quello scapestrato, nullafacente succhiasoldi in un vero uomo. Avrebbe ereditato un’immensa fortuna, costruita dal padre con sacrifici enormi ed opportune mazzette. Ma l’amore sviscerato per la bella vita lo avrebbe, con ogni probabilità, condotto quanto prima alla rovina. “Finirai col dover chiedere l’elemosina agli angoli delle chiese e vivrai nei cessi delle stazioni!” tuonava spesso il padre, di fronte al continuo sperpero di denaro, ma Leroy lo mandava felicemente al diavolo e tornava a dedicarsi alle sue lascive occupazioni.
Aveva conosciuto Martha e Sandy in un lurido strip-club e, davanti ad una sostanziosa ostentazione di ricchezza, le due fanciulle si erano lasciate conquistare dal ricco rampollo, così, in cambio di piacevole compagnia, si erano aperte inaspettatamente un varco nell’alta società. Infondo, cosa poteva essere qualche attimo d’intimità con quell’idiota di fronte alla prospettiva di un futuro migliore?
“Vai piano Leroy, ti ho già detto che stai correndo troppo!”.
“Non rompere! Ma perché non fai come Martha!? Vatti a sdraiare, togliti il reggiseno e prendi un po’ di sole, eheheh”. Dovette urlare per superare il ruggito del motore e la furia del vento che gli schiaffeggiava il volto. Alla guida del suo ‘Albatros’, uno scafo fuori bordo Mediterranee 50 si sentiva il padrone del mondo, amava sfrecciare come un dardo sull’acqua, adorava sentire lo scafo schiantarsi contro le onde, atterrirle, dominarle. Si, era il padrone del mare. Nessuno lo avrebbe disturbato, i bagnanti erano lontani sulla riva, la Guardia Costiera, appena saputo chi fosse, lo avrebbe lasciato in pace, con tante scuse per aver disturbato il gioco del figlio del Governatore. Era certo che la sua folle corsa avrebbe eccitato le ragazze. Sì, le avrebbe possedute al largo entrambe sul suo Albatros, unico spettatore un cocente sole estivo.
“Mamma, hai visto che bello?”. Il bambino era eccitato, si era fermato a lungo sul bagnasciuga a guardare ammirato quella barca che sfrecciava in lontananza a grande velocità. Decise che un giorno, quando sarebbe stato grande e fosse diventato ricco ed importante se ne sarebbe comprata una uguale. Anzi, più grande e meno rumorosa. Il rombo del motoscafo si sentiva forte e chiaro e senz’altro stava disturbando i pesci che nuotavano tra le onde. A proposito, forse era finalmente arrivato anche per lui il momento di tramutarsi in un pesce. Trotterellò verso la mamma che, con un sorriso pieno d’affetto, acconsentì al primo bagno della giornata! Evviva! Prese il piccolo canotto già opportunamente gonfio e lo spinse in acqua. Non sarebbe stato un problema se si fosse allontanato di qualche metro.
Per Dexter non fu difficile individuare il ragazzino. La spiaggia era colma di gente ma conosceva perfettamente la vittima. Aveva infilato la muta corta ed era partito dalla vicina Rodrigo Bay con il gommone a motore di 3 metri messo a disposizione dall’Organizzazione. Infilò i tappi nelle orecchie: il rumore provocato dal motore lo stordiva terribilmente e, nonostante il silenziatore, il micidiale colpo dell’ AK-103 sarebbe stato piuttosto fastidioso. Meglio premunirsi. Arrestò la marcia a circa 600 metri dalla riva. La giornata era limpida e non aveva nessuna difficoltà a scorgere le sagome dei bagnanti che passeggiavano lungo la costa, si rosolavano al sole o si divertivano con i giochi più fantasiosi.
Il canotto. Il moccioso era lì, da solo, nel piccolo canotto. Colpirlo sarebbe stato molto semplice per un professionista come lui. Un gioco da ragazzi. Si sdraiò sul fondo del gommone a pancia sotto, posò il calcio del fucile sotto il mento e, trovata la posizione più comoda, fissò lo sguardo nel mirino di precisione. Al centro vide una piccola testa di un marmocchio sorridente, due occhi grandi e vivaci. In mezzo a loro, si figurò un puntino rosso. Un lungo sospiro accompagnò la mano destra che impugnava saldamente il fucile. L’indice accarezzò il grilletto, lo solleticò, quasi a percepirne la sensibilità. La presa ora era salda, l’obiettivo era in pugno. Un secondo, poi la fine. Adiòs, piccolo. Stava per portare a compimento in modo pulito un’altra missione, l’ennesima, l’ultima. Una missione di sangue e di morte. Tànatos.
Quelle due non erano affatto male. Ripensò all’espressione inebetita del suo amico Marvin quando gli disse che se le sarebbe portate in barca tutte e due per un intero fine settimana. Se la sarebbe spassata. Tutto il giorno in giro per mare, la sera a svuotare il portafoglio nei locali più costosi e alla moda e la notte…. Beh, la notte le ragazze sapevano benissimo cosa si attendeva da loro. Delle due preferiva indubbiamente Martha. Più giovane e disinibita, non avrebbe mai dimenticato il suo dimenarsi sul palco, quell’amplesso simulato davanti ad un pubblico in visibilio. Ed ora era sua. Certi spettacoli li avrebbe dedicati solo a lui, almeno quel week end. Non aveva perso tempo a spogliarsi, complice il caldo, la lontananza di sguardi indiscreti e, chissà, l’abitudine a passare le giornate senza veli. Una gradita deformazione professionale. Leroy non riusciva, né intendeva staccare gli occhi da quel corpo scultoreo, scolpito con dovizia, plasmato con cura fin nei minimi, appetitosi particolari. Forse doveva attendere ancora un po’ prima di farlo suo, oppure era preferibile spegnere i motori e gettarsi sulla preda senza perdere altro tempo. Intanto ne ammirava le curve, ne ispezionava le doti, ne immaginava i muscoli ed i contorni sodi. Sandy le dormiva accanto, se n’era andata piccata dopo che l’aveva sgridata. Martha era docile, non gli avrebbe mai risposto male. Lo avrebbe assecondato. Sempre. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Si, aveva deciso. L’avrebbe posseduta adesso.
Leroy pensava, immaginava e pregustava. Mentre la sua mente disegnava sogni di lussuria qualcosa davanti alla prua dell’ Albatros si materializzò; un punto piccolo, dapprima lontano. Sempre più vicino, inesorabilmente vicino. Drammaticamente vicino.
Il rumore, dapprima sordo, divenne progressivamente un boato simile ad un tuono. La spiaggia, animata di risa ed urla si fermò all’istante. L’orizzonte fu invaso da un lampo di fuoco, sovrastato da un denso fumo nero che si slanciava stancamente verso il cielo. La folla di bagnanti si appressò a guardare incuriosita il macabro spettacolo; qualcuno entrò in acqua a recuperare i parenti attoniti, altri scapparono urlanti verso le auto lasciando panni e vivande sulla sabbia, quasi attendessero un altro attacco letale. Il bambino sul canotto fu avvinto dall’inusuale spettacolo e non si accorse delle grida della madre che lo chiamava a sé. Trascorsero pochi minuti di panico ed angoscia che, una volta appurato il cessare del pericolo, si trasformarono in attimi di curiosità nei confronti di quanto fosse avvenuto a poche centinaia di metri dalla riva.
Poco distante un pezzo di carcassa informe e fumante di un motoscafo fuori bordo si allontanava senza guida, in attesa di essere accolta dal fondo marino. Ennesimo ospite sgradito. Vorticò lievemente fino a sparire nel giro di pochi, strazianti attimi.
In breve tempo giunsero ambulanze e volanti delle forze dell’ordine, dal largo spuntarono le vedette della Guardia Costiera. La polizia tracciò un cordone di sicurezza ma, nonostante le precauzioni, era difficile trattenere la folla di curiosi che s’ingrossava sempre più.
Il bambino, abbandonato il piccolo canotto, restò abbracciato alla madre, incollato a quel corpo che significava protezione, certezza, rifugio.
Il recupero dei corpi costò tempo e fegato per i sommozzatori. La massa informe di due cadaveri femminili, mutilati e bruciati, venne deposta, coperta da un telo, nei pressi dell’ambulanza. Due donne apparentemente giovani, un tempo forse piacenti, giacevano senza vita su un lembo di sabbia umida.
Il corpo straziato e carbonizzato di un giovane venne recuperato a due miglia di distanza dall’impatto. Al Segretario toccò il difficile compito di avvisare il Governatore dell’incidente che aveva coinvolto il figlio.
Il bambino era stordito, confuso, gli avvenimenti si accavallavano senza sosta. La mamma voleva portarlo a casa, anche perché l’ora era tarda e sulla spiaggia cominciava a tirare un vento freddo e fastidioso. Ma lui, ancora impressionato dallo spettacolo e dalla situazione convulsa, restava eccitato e per nulla al mondo sarebbe andato via. No, stavolta non avrebbe obbedito alla mamma.
Un ultimo telo venne posato sulla sabbia. Avevano rinvenuto un altro corpo. Quel telo gli ricordava quando la mamma ed il papà portavano via i tappeti arrotolati. Ma quei tappeti erano vuoti, curvi su se stessi. Nel telo, lo sapeva bene, c’era qualcuno.
Improvvisamente si divincolò dall’abbraccio della mamma e corse verso il capannello di persone che accerchiava il medico legale e gli infermieri. Era troppo curioso, perché non poteva vedere? La polizia, ormai, tratteneva a stento e di malavoglia la piccola folla di curiosi.
Il bambino s’infilò tra le gambe di un omone e si posizionò in prima fila. L’emozione era tanta, il giorno successivo l’avrebbe sicuramente raccontato agli amici nel parco.
Il telo fu smosso. Il corpo ustionato e coperto di sangue non fu un bello spettacolo. Indossava ciò che rimaneva di una muta nera e corta. Il bambino restò impassibile, ammutolito. Non aveva mai visto un morto tanto da vicino. Sgranò gli occhi, lo guardò bene, affascinato ed impaurito. Lo scrutò dai capelli ai piedi, cercando d’indovinare l’espressione dell’uomo sotto il velo di sangue che ne copriva il volto.
Con moto fulmineo, si diresse correndo a perdifiato verso la madre, ritta in piedi. Non voleva gridare, per cui le si avvicinò. Il fiatone gli spezzava il respiro, l’emozione e la fatica gli impedivano di parlare. Attese solo pochi secondi. “Mamma, corri…. Vieni a vedere…. Papà è morto!”.
12345
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0