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In Libia
Il venerdì era là come qua la domenica. Giorno di festa e di riposo, il giorno di Allah.
Lo era anche per noi che mussulmani non eravamo, ma sicuramente loro ospiti, e quindi tenuti a rispettare usanze e costumi locali. Nulla di particolarmente difficile ma strano si. La desertica Libia era, forse, il paese più stravagante, fra quelli dell'Africa occidentale. Diffidente nei confronti degli stranieri occidentali era completamente chiusa al turismo. Del resto per quel piccolo popolo bastavano, e avanzavano le risorse petrolifere immense. La Libia era un paese ricco, anzi ricchissimo, e tuttavia si aveva l'impressione di trovarsi in un paese povero del terzo mondo. Era solo un'impressione. Bastava con maggior attenzione guardarsi attorno per rendersi conto quanto, quest'impressione, fosse erronea e frettolosa. La ricchezza si intuiva per ciò che era scartato: come le automobili per esempio. Ai margini delle strade c'era un numero incredibile di auto abbandonate: erano lasciate sul posto nel momento in cui si erano fermate per un qualsiasi guasto. C'erano pochissimi meccanici in giro e non moltto competenti. Così le automobili non venivano riparate e semplicemente i libici compravano un'auto nuova. Ben presto auto relativamente nuove si trasformavano in carcasse mezze sepolte dalla sabbia del deserto: e queste carcasse non venivano rimosse mai. Diventavano parte del paesaggio desertico e non riuscivano a turbarlo. Nel contesto di questo paese il disordine aveva un suo ordine, una sua compensazione, una ragione d'essere.
Per quel che mi riguardava anch'io cercavo, in quel paese, il posto che mi competeva, appunto, una ragione d'essere. La giovinezza era, con ogni probabilità, il fattore decisivo di quel viaggio, di quell'avventura. Quando mi fu proposto, da un collega di lavoro, non ebbi alcuna esitazione e risposi: "Sì, ho necessità di qualcosa di nuovo".
"Qualcosa come una irrequietezza vagabonda, una giovanile frenesia di lontananze" ecco ciò che provavo nel momento di quella decisione.* Pochi giorni dopo partimmo senza nessuna certezza del futuro.
Fin dal momento in cui - era una sera di fine febbraio - vidi, da un'oblò dell'aereo che ci stava portando nel grande continente, i sparsi fiochi bagliori dei borghi e piccole città di quel territorio, e poi, subito prima di atterrarci, l'esplosione di luce della "Medina de Tarables", capitale della Libia, ecco, fin da allora, tutto il magico incanto dell'Africa si era impossessato di me. Quella sera era nuvolosa e calda, il vento sollevava in aria la sabbia rendendo fosco il paesaggio intorno. La mattina dopo, però, era magnifica. La luce di grande intensità era sorprendente, il sole caldissimo, e nell'aria si spandeva, da alberi ai lati delle strade, un profumo buono e acuto. C'era poi, in quel che era poco più di un borgo, una frenetica attività lavorativa e commerciale. Fervevano lavori dapperttutto: strade, marciapiedi, case e palazzi, moschee.. un enorme cantiere aperto; e c'era gente che andava e veniva frettolosamente, donne vestite di bianco di cui si poteva intravedere a malapena un occhio (spaurito) dalla fessura lasciata aperta del loro costume, giovani ragazze vestite all'europea dal viso candido, giovani uomini (spacconi) con la pelle bruciata dal sole che rumoreggiavano nei bar e nelle loro auto nuove; e poi vecchi nei loro costumi tradizionali, con gli occhi spenti dalle cateratte, con la pelle dei visi ragrinzita che parlavano italiano e che agli angoli polverosi dei vicoli giocavano con dei ciottoli. E c'erano, per molte ore del giorno - da una caserna della polizia - una serie di amplificatori sonori che ad alto volume trasmettevano musiche patriotiche e insegnamenti del colonello Gheddafi. Infine, circolava in giro un numero impressionante di militari.
Io e il mio socio eravamo due dei ventimila lavoratori italiani che in quel tempo - e non erano lontani i tempi in cui gli italiani residenti in Libia erano stati, da un giorno all'altro, spogliati di tutti i loro averi e cacciati dal paese - stanziavano in quei desertici luoghi. Erano anche gli anni, quelli, dell'accordo con la Fiat, e nelle strade circolavano veicoli quasi soltanto con quel marchio. Noi eravamo a Suani Ben Aden, una piccola località ad appena qualche kilometro dalla costa, e il venerdì scendevamo in città a Tripoli. Si andava a messa in ambasciata, a comprare vecchi giornali e settimanali nelle due o tre edicole, lì, attorno alla Piazza Verde, e qualche volta, poche, al cinema. Davano film in italiano, tutti parlano e capiscono l'italiano in Libia, ed erano molto spesso western all'italiana. Gli spettatori locali si entusiasmavano e applaudivano gli eroi di quei film.
Fu in uno di quei venerdì, un venerdì di settembre, poichè si celebrava l'anniversario della rivoluzione che lo aveva portato al potere alla fine degli anni sessanta, che fugacemente e da lontano ci capitò di vedere il colonello Gheddafi. Era nella "sua" Piazza Verde, in quell'occasione addobbata di bandiere e festoni verdi, straripante di folla, lui pure in divisa militare verde (con occhiali scuri) e probabilmente aveva appena terminato un comizio celebrativo. Era una divisa militare verde ma sobria quella che in quell'occasione indossava. Non le strampalate e luccicanti divise che avrebbe portato e ci sarebbe toccato di vedere, in anni più avanti, alla televisione. Vidi un Gheddafi giovane con uno sguardo determinato da cui trapelava tutta la sua ambizione.
Fu sempre un venerdì, forse un paio di mesi più tardi, che il sottoscritto, il mio socio e un altro italiano che si era aggregato a noi, ci trovammo a notte fonda ancora a Tripoli, dove avevamo appena finito di cenare in uno dei pochi locali in cui si poteva discretamente mangiare. Si doveva tornare a Suani ed eravamo preoccupati, consapevoli che non era il massimo affrontare di notte le desolate periferie di Tripoli. Però ogni tanto capitava. C'erano di solito, attorno alla capitale, numerosi posti di blocco. Eravamo già incappati in qualcuno di essi. I militari, che in quelle ore erano sempre sospettosi e innervositi, ormai ci conoscevano, e bastava loro, solo darci un'occhiata, ma ugualmente non era piacevole essere fermati in quelle circostanze. Gli oppositori a quel regime non erano pochi, malgrado non fosse così evidente, e quei posti di blocco che presidiaveno di notte ogni strada che portava in città, erano il segno della costante tensione che sussisteva nelle autorità governative, le quali paventavano improvvisi colpi di mano. Colpi di mano che spesso si verificavano per essere regolarmente duramente soffocati.
Quello che temevamo si verificò. A un posto di blocco fummo fermati, ma quella notte non fu come le altre volte. Ci fecero scendere dall'auto e mentre uno dei militi ci teneva discretamente d'occhio armato di mitra, due suoi commillitoni la perquisivano. Un quarto militare, quello che aveva il comando della pattuglia, osservava da pochi passi. Cercavano qualcosa. L'amico connazionale che era con noi tentò di dire al capo pattuglia che eravamo lavoratori italiani con regolare permesso di soggiorno, e mentre parlava, mostrava un pezzo di carta allungando la mano verso di lui, ma senza avere il coraggio di fare un passo avanti. Il militare che ci controllava imbracciando il mitra ci gridò, in italiano, di stare fermi e zitti. La situazione mi appariva.. strana. Personalmente non mi sentivo minacciato e neppure intimorito. Mi sentivo incerto e mi veniva da ridere. Il nostro amico, però, balbettava dalla paura, e aveva ancora in mano il permesso di soggiorno che inutilmente tendeva verso chi avesse voluto dargli retta, e alla fine lo diede a me. Evidentemente non avevo piena percezione della realtà, la quale era probabilmente pericolosa, resa tale da fattori che noi ignoravamo, e che invece conoscevano soltanto i militari che ci avevano fermato. Che cercavano? E mentre continuavano la perquisizione pensai che se mi avessero detto cosa cercavano magari gliela avrei trovata io. Allora qualcosa fu trovato e subito messo nelle mani del capo pattuglia. Ci fu un breve ed eccitato colloquio fra loro concernente il ritrovamento. Poi vennero verso di noi. "Di chi è questo?" domandò il capo pattuglia mostrando un cofanetto con due volumi.
Repressi a fatica la voglia di ridere. Che diavolo pensavano di aver trovato.
"Sono miei" risposi.
"Chi dato questo?" biascicò in cattivo italiano.
"Me li sono portati dall'Italia" dissi.
"Dall'Italia?" ripetè stupito.
"Già. Bi smi l-lahi r-rahmani r-rahimi" (Con il nome del Dio ricco in clemenza abbondante in misericordia) recitai ad alta voce. Tutti mi guardarono sbalorditi.
"Bismillah" mormorò un militare.
"Bismillah" ripeterono gli altri.
Chiesi al capo pattuglia che mi desse il cofanetto. Ancora sorpreso per la mia recitazione me lo porse. Aprii il primo volume e dissi che si trattava di una versione italiane del Corano, e che proprio lì avevo imparato la preghiera iniziale, il prologo, del Sacro Libro. L'avevo comprato quando avevo deciso che mi sarei recato in un paese islamico, mi sarebbe stato utile per iniziare a comprendere il mondo arabo.
Il capo pattuglia si riprese i due volumi e si mise ad esaminarli alla luce di una torcia elettrica. Non ci volle molto a convincersi che si trattava veramente di una copia del Corano: in copertina c'erano delle scritte pure in arabo. Pur senza scusarsi i militari abbassarono le armi e cambiarono atteggiamento. Diedero una distratta occhiata ai nostri permessi di soggiorno e ci lasciarono andare.
Euforici avevamo ripreso la strada verso Suani quando iniziò a piovere. Del resto si doveva essere in novembre o quasi, e la stagione delle piogge era arrivata. Quella che veniva giù, ormai sempre più pesantemente, era la prima da fine aprile. L'oscurità della notte si era fatta più profonda, il cielo tuonava e i lampi improvvisi guizzavano fino a terra illuminando il desertico paesaggio invaso dall'acqua. il mio socio alla guida dovette ralentare: il diluvio impediva di vedere oltre qualche metro avanti.
Forse spaventato dalla bufera un serpente completamente verde attraversò la strada proprio di fronte a noi. Era una bestia molto grande, e non attraversò strisciando sulla sabbia, ma eretto, all'altezza del parabrezza della nostra auto, vorrei dire quasi al "galoppo", le fauci spalancate e i ricurvi denti in evidenza, era d'aspetto orribile e agressivo, un demone minaccioso e infuriato fuggito da chissà quale inferno.
Fu un attimo, una visione fugace, tanto che dubitai della sua realtà. Il mio socio però aveva frenato improvvisamente, come davanti a un ostacolo imprevisto. Disse incredulo: "Hai visto?". Gli risposi di si, avevo ben visto. Come era, quasi dal nulla, apparso, altretanto rapidamente sparì, sebbene noi, dall'interno dell'auto, cercassimo di scorgerlo nella sua fuga precipitosa.
Ammutoliti riprendemmo la nostra corsa verso Suani. Lasciammo il nostro connazionale - che dal sedile posteriore non aveva visto nulla - alla sua residenza e giungemmo anche alla nostra.
La notte era molto avanti e tuttavia non si aveva molta voglia di andare a dormire. Preparai del the forte, com'è in uso nel mondo arabo, e ci mettemmo a parlare di quello che era accaduto. Gli raccontai che una volta rivoltando una grossa pietra viavevo scorto sotto, acciambellato su se stesso, un verde serpente, del tutto simile a quello che entrambi avevamo visto, ma non certo di quelle dimensioni: non si era mosso, perchè evidentemente in letargo, così avevo potuto ribaltargli la pietra sopra senza conseguenze. Mi disse che anche lui aveva sentito delle storie sui serpenti di quei posti, storie sulla loro pericolosità che operai egiziani e sudanesi gli avevano raccontato. Era davvero molto tardi e il vento si era calmato e aveva smesso di piovere.
"È ora che andiamo a dormire" dissi.
"Certo che è ora" rispose lui, e si avvio verso la sua camera.
Prima di andare a dormire avevo bisogno di un po' d'aria e uscii nella notte: e contemplai la notte di quel paese fattasi silenziosa e quieta, e pensai che fosse straordinaria.
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