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I colori della vita
Da molto tempo ormai, Marco aveva deposto i suoi adorati pennelli. Dei rovesci implacabili di fortuna scuotevano il suo ottimismo e gli toglievano la pace. Come si può essere capaci di interpretare la magica atmosfera della creazione, i colori della vita, con l'anima oppressa dalle preoccupazioni e dai debiti? L'arte che amava tanto fino alla passione, non si era dunque rivelata l'ideale creduto che appiana i sentieri e salva dal precipizio. Non risolveva nulla, il cuore restava amareggiato e questa cosa era difficile da riconoscere. A dire il vero, Marco era un uomo semplice e sapeva accontentarsi di poco.
Forse era per questo che non gli era mai mancato nulla nelle sue peregrinazioni artistiche in Francia, in Svizzera, in Germania, dove la sua geniale matita aveva schizzato orizzonti meno piatti di quelli della sua terra natale: Torino. Dopo il matrimonio, però, il denaro aveva fatto sentire la sua imperiosa esigenza. Era diventato il tiranno della sua vita.
Aveva sposato una modella, attratto dalla sua non comune bellezza, ma anche perché si sentiva portato a proteggere i deboli e per altri misteriosi motivi che la ragione è incapace di spiegare.
Erika era una ragazza bellissima dai lunghi capelli ramati e dagli occhi color smeraldo. Era ritratta a turno da vari pittori senza nessun indumento. Dopo le sedute "artistiche" seguivano incontri più carnali, in tutto questo l'arte non c'entrava per niente. Era nato un bambino da quegli incontri in cui la pittura serviva da alibi per soddisfare passioni di altra natura. Senza pensarci due volte, Marco aveva preso con se madre e figlio, convinto di potere formare col tempo (a forza di pazienza e persuasione) una famiglia modello. Non era il primo ad accarezzare questo dolce sogno, nemmeno l'ultimo a vederlo sprofondare in un abisso infernale.
Marco aveva adottato il bambino, dandogli il suo nome, ma non aveva potuto cambiargli il carattere. Dieci anni di esistenza trascorsi nel caos più totale lo avevano distorto in tutti i sensi. Roberto aveva un carattere difficile ed era incapace di vivere normalmente, come gli altri ragazzini. A contatto con la pittura avrebbe sfondato volentieri la tela sul cavalletto dopo avere cavato gli occhi al pittore.
Con gli occhi che mandavano scintille guardava Marco con cattiveria, con rancore. -Ti odio - diceva - desidero distruggere tutto quello che fai perché tu non sei il mio vero padre e non puoi impormi niente. -
Marco aveva esaurito tutte le sue risorse pedagogiche, anche se personalmente aveva guadagnato in saggezza. Però, l'illusione di aggiustare il carattere del fanciullo era perduta per sempre. Fu costretto ad arrendersi e a mettere la piccola peste in un istituto specializzato dove, tra l'altro, nessuno fu capace di cavargli qualcosa. Queste scuole costano un occhio della testa e Marco fu costretto a impiegarsi in un'industria tessile. Qui, se non altro, ebbe modo di utilizzare il suo non comune talento per creare disegni bellissimi sulle varie stoffe.
La bella e fragile Erika (disorientata e confusa) finì in una clinica psichiatrica. Il bel sogno era durato lo spazio di un mattino e l'incubo due anni o... forse due secoli. Marco non rammentava più: sapeva soltanto che i conti da pagare erano enormi e lui si sentiva schiacciato dai debiti e oppresso dagli ufficiali giudiziari che bussavano alla sua porta. Ormai era dimostrato che l'ideale non è una lotteria né una questione di bellezza fisica. Era troppo tardi per lui? Poteva ancora provare la felicità di una vita serena e normale?
Ci volle provare con Ester, la sua governante. Con lei poteva ricominciare a vivere. Tranquilla e senza grilli per la testa poteva essere un'ottima compagna per lui. Usciva da una scuola in cui la rinuncia era all'ordine del giorno: era la maggiore di otto figli, tre fratelli e cinque sorelle. Sua madre era di salute cagionevole e lei si era sempre destreggiata fra pannolini e biberon. Non aveva mai avuto un'adolescenza e... forse nemmeno un'infanzia. Dividere la vita con un'artista poteva avere per lei un lato romantico e rappresentare anche una consolazione, perché aveva perduto in un incidente il giovane che frequentava.
Marco riprese a dipingere. Provava di nuovo il gusto per l'arte e con i suoi preziosi pennelli i paesaggi si animarono e i visi ripresero il sorriso. L'orizzonte si schiarì fino al giorno in cui la sfortuna bussò di nuovo alla sua porta ed Ester ebbe il primo aborto. In seguito ebbe dei figli nati morti e l'unico sopravvissuto era mongoloide. Marco aveva sperato dalla vita in qualcosa di diverso. Non riusciva ad amare e accettare Dario:il povero bambino dagli occhi strani e con un cromosoma in più. Sua moglie soffriva e lui non riusciva nemmeno a comunicare con lei. L'ideale era caduto un'altra volta e i suoi quadri ripresero ad avere la caratteristica dei tempi tristi. L'artista esprimeva i sentimenti che provava nelle sue opere come aveva fatto Colui che aveva creato la terra, gli oceani, i fiori, le sorgenti, gli uccellini. Il risultato era ben diverso perché gli uomini girano il mondo per ammirare i capolavori degli artisti e, distrattamente, non si accorgono del capolavoro della natura, dei fiori variopinti sbocciati sotto la finestra, al sole del mattino.
Quando Martina venne al mondo, Marco e Ester erano un po' avanti cogli anni. Quella nascita tenne lontano per qualche tempo i rumori di guerra che i venti disperdevano. Il parto, in quel clima di angoscia, si era annunciato difficile ed era stato necessario il forcipe per facilitarlo.
Marco, come si può immaginare, stravedeva per la bambina e allevava sua figlia nella bambagia. Stava delle ore davanti alla culla, spiando il minimo movimento della piccola. Qualche volta si vergognava perché ancora non riusciva ad accettare il piccolo mongoloide.
Dario lo guardava con gli occhietti tristi. Anche lui avrebbe desiderato un po' di attenzione in più. Guardava la sorellina con invidia e avrebbe voluto essere come lei.
Ogni desiderio di Martina era ordine per Andrea. In estate la piccola trascorreva interi pomeriggi in un bosco dietro casa, era il suo regno incontrastato di suoni e di colori. Martina sbocciava con i fiori, cinguettava con gli uccelli e godeva sul muschio un piacere intenso e sempre nuovo. Era il suo mondo segreto.
Quell'incantesimo era durato circa tre anni. La guerra durava già da due anni, quando il fanciullo con un cromosoma di troppo era morto. Martina aveva visto il volto di sua madre rigato di lacrime e i suoi occhi pieni di tristezza.
- Perché piangi mamma? - aveva chiesto.
- Tu non puoi capire -
Un sentimento ignorato fino a quel momento era entrato nel cuore della piccola. Dunque non era tutto armonia e gioia di vivere? Potevano esistere anche la tristezza e il dolore? Il sole da quel giorno aveva perduto il suo splendore ed anche il bosco non aveva più l'attrattiva di prima. Era diventato grigio e scuro. Di sera, nella sua cameretta, era presa da crisi d'angoscia.
Sapeva che i soldati tedeschi circolavano fuori e temeva che la venissero a prendere. E i suoi genitori che cosa pensavano? Ormai la bambina non era più sicura di nulla. La sua mamma così mite e dolce e semplice per natura si era ripiegata su se stessa. I suoi occhi erano sempre umidi di pianto e non parlava più. Suo padre conduceva la sua vita di artista e di padre di famiglia come se fosse un dovere da compiere. In lui non c'era più la vitalità del passato. Martina sentiva crescere i suoi timori.
Un giorno interrogò suo padre: - Papà, dimmi cosa succede. Perché sei così triste? Perché quegli uomini cattivi stanno sempre davanti alla nostra casa? Che cosa vogliono da noi? Pensi che potrebbero farci del male? -
Poteva risponderle che la Gestapo creava il terrore e che da un momento all'altro quei tedeschi avrebbero fatto saltare in aria la casa se scoprivano che sua moglie era ebrea? Che la felicità, la pace, l'armonia e l'amore tra gli uomini non erano che semplici punti di vista? Che erano morti moltissimi esseri umani per l'idea folle di alcuni uomini?
Forse alla sua dolce bambina poteva spiegare che la natura era buona, dolce e perfetta... anche se, purtroppo, il roseto all'entrata del giardino (nel suo tripudio di colori) aveva delle spine pungenti.
La piccola Martina aveva nostalgia della felicità intensa, della pace assoluta godute al tempo dell'innocenza, sul muschio del boschetto. Per ritrovare la magia di quell'atmosfera unica e meravigliosa, non doveva fare altro che sognare nel silenzio della notte e, sotto le coperte, immaginava il "miracolo" che avrebbe liberato gli uomini da tutti i dolori.
Era facile per lei: le bastava appoggiare la testa sopra il cuscino per diventare (come per incanto) la piccola regina che infrangeva il potere malefico sotto cui crollava l'intera umanità. Però quel regno immaginario creava dei confini ben delimitati, che (a sua insaputa) la isolavano da chi la circondava. Soltanto suo padre sfuggiva alla regola.
Martina lo ammirava senza riserve, lo idolatrava a tal punto da non vedere in lui che il bene, il bello, il giusto. Era diventato il suo eroe senza macchia e senza paura. Questa preferenza arbitraria la metteva in dissidio con sua madre che spesso le diceva: - Martina, tu sei figlia della contraddizione e col tuo atteggiamento mi fai soffrire. -
Con lei Martina non andava quasi mai d'accordo anche se nessuna delle due alzava mai la voce, ma Ester si sentiva esclusa, relegata in angolino.
La ragazza andava volentieri a scuola perché lì trovava dei coetanei più deboli, più bisognosi di aiuto e il suo cuore altruista la spronava a prendersi cura di loro. Li aiutava nei compiti più difficili ed era sempre disponibile. Questo era un modo per realizzare un po' i suoi sogni.
Con gli adulti doveva e4ssere tutto maledettamente difficile se nessuno era riuscito a dissuaderli dal battersi come selvaggi. Poi la guerra era finalmente finita e si era voltata quella brutta pagina ma le difficoltà continuavano e la lotta per il denaro non conosceva tregua, né armistizio. Martina sapeva che doveva studiare sodo per costruire il suo futuro, ma in classe restava isolata.
Aveva impresso nella mente il ricordo sgradevole di quando la mamma di una sua amichetta, aveva categoricamente impedito alla figlia di frequentarla. Adesso lei sapeva di essere figlia di un'ebrea, ma non riusciva a comprendere questi assurdi pregiudizi e il suo cuore (rimasto puro) ne soffriva. A volte si chiedeva: "Cosa c'è in me che non va? Ho forse qualcosa di strano, di diverso dagli altri?"
I suoi genitori non praticavano nessuna religione e (essendo tolleranti e di idee avanzate) erano convinti che bisognava essere gentili con tutti gli esseri umani, senza nessuna distinzione. Martina aveva seguito l'esempio dei suoi genitori e si era trovata... da sola in corridoio, quando i suoi compagni avevano l'ora di religione.
Per dare sapore alla sua esistenza, per colmare il vuoto che si era creato attorno alla sua torre d'avorio, aveva tentato la via della pittura.
Il padre era al settimo cielo per la felicità, Marco aveva gettato la sua semente e Martina (sapendo bene coglierne i frutti) aveva cominciato a dipingere. La ragazza aveva del talento e suo padre, umilmente, aveva riconosciuto che la figlia poteva dipingere anche meglio di lui. I colori della vita e della natura potevano di nuovo rivivere sotto il magico tocco del pennello di Martina.
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1 recensioni:
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- Il tuo racconto mette in evidenza la sensibilità e la generosità dei protagonisti, che vivono anche il dramma di sentirsi emarginati. Sul piano stilistico l'opera è scorrevole e ben strutturata. Aspetto la continuazione. Bravissima!
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