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Glauco: terza parte
Erano passati tre anni, finita la guerra in giro erano rimaste più armi che roba da mangiare. In casa nostra eravamo ormai allo stremo e cominciavamo a non esser più sereni. Le cose andavano così: con quel poco che c'era, prima mangiava mio padre, poi mia madre e mia nonna (mia nonna quasi niente in realtà) e poi noi figli grandi, che dovevamo fare i lavori più pesanti, e infine le mie sorelle e i bambini più piccoli, se e quel che loro restava.
La fame d'allora, io me la ricordo bene, bisognava provarla per capirla: era come un busto che ti stringeva il torace e non ti mollava se non lo allentavi un po', e non lo allentavi se non mangiavi almeno qualcosa. Non importa cosa, non importa come. E quando qualcuno mangiava e tu invece no, l'avresti ammazzato! Padre, madre, fratelli e sorelle, era una gara unica: prima veniva lo stomaco, chiuso fino alla gola, poi la bocca e la lingua. Ricordo ancora bene le liti per un pezzo di pane raffermo, se e quando lo si trovava, e ricordo che, quando l'avevo in bocca, dovevo prima aspettare che si rammollisse almeno un po', e poi lo facevo sciogliere lentamente, senza masticarlo, così che durasse un pochino di più. Ricordo anche i cachi mangiati ancora duri, perché non si riusciva ad aspettar che maturassero, e le croste bruciate di polenta, scalpellate via dal fondo del paiolo, contese tra noi ragazzi e ragazze come veri bocconi del re.
Io allora lo guardavo mangiare, mio padre Egidio, mezz'ora prima di noi, insieme alla mamma e alla nonna. E mi dava un fastidio tremendo vedere come non si trattenesse, nonostante avesse poca fame, dal consumare anche l'ultimo boccone che aveva nel piatto. Mangiava quanto noi mangiavamo in due, e avevamo diciotto o vent'anni, del tutto incurante di quanto restasse poi da spartire per gli altri, cioè noi. Mi vergognavo da matti per lui e cercavo il modo di rimediare alla sua indifferenza.
Cibo serviva, cibo io portavo. Di nascosto. E di nascosto lo distribuivo ai miei fratelli e sorelle, quelli più piccoli prima, poi via tutti gli altri.
Più che rubare, prendevo quel potevo e riuscivo: le facce dei miei fratelli e sorelle più piccoli, i loro occhi spauriti e le loro gote scavate, me ne davano il coraggio che altrimenti non avevo. Alleggerivo i campi degli altri: frutta, verdura, pannocchie e patate e quant'altro riuscivo, spesso da solo ma anche con altri miei amici, sempre di notte, sempre gli stessi, quasi una banda. Io, Glauco detto Ciacio, Giulio e Giampiero. Ma ci voleva ben altro e lo sapevamo. La fame non ci faceva dormire ed eravamo sempre agitati come pidocchi sulla testa d'un calvo. Progettammo quindi, su idea di Giampiero, un "colpo" vero e proprio. E ci andò bene e male.
Farina ci voleva, farina per fare il pane, ché in casa lo facevamo a quel tempo, e crusca per le galline, le poche che non c'eravamo ancora mangiate e che tenevamo per fare le uova. Giampiero m'aveva detto dove ce n'era un camion intero, spesso posteggiato dopo le ultime case del paese. L'autista, dopo averlo caricato alla sera al mulino, se ne andava a dormire a casa di una sua "amica", per poi ripartire prestissimo il giorno dopo. Lasciava il camion due o trecento metri più avanti, vicino alla pesa, per non dare troppo nell'occhio, anche se qualcuno evidentemente sapeva lo stesso. Poi, invece di dormirci sopra, se ne andava da quella.
Bastava accenderlo, portarlo al riparo in un luogo sicuro che sapevamo noi, scaricarvi i sacchi e quindi abbandonarlo in tutt'altra parte della campagna. I sacchi li avremmo utilizzati poi, pochi alla volta, travasandoli in piccoli sacchi diversi, in modo da non dar troppo nell'occhio. La fattoria abbandonata oltre l'argine, quella del pipa, era il posto ideale: aveva una soffitta abbastanza asciutta in cui avremmo stivato i sacchi dopo aver, il giorno prima, adescato e ammazzato i topi più grossi. Come al solito aggregammo all'impresa anche Giulio, che se la passava quasi peggio di noi. Farina ce ne n'era in abbondanza per pas-sare l'autunno e l'inverno, crusca un po' meno e ne avremmo lasciata anche un po' per i topi. E in effetti così fu, ma non arrivammo all'inverno.
All'inizio tutto andò come doveva: non so come feci a non fare un infarto quella notte, tanto il cuore mi batteva come il pistone di un Landini a un solo cilindro, ma ce la facemmo. E senza problemi.
Il giorno dopo il furto fu denunciato e se ne parlò per alcuni giorni, in paese e anche fuori. Poi, quando il camion fu ritrovato, anche di più. Ma intanto l'indignazione era diventata ammirazione, per chi adesso aveva tutto quel ben di dio a disposizione, e poi la cosa passò in giudicato: chi aveva preso, chi aveva dato, scordiamoci il passato. Insomma, come qualcuno avesse vinto alla lotteria, niente di più.
Per me non fu proprio così, perché io sapevo bene che cosa avevamo fatto e che cosa rischiavamo, e stetti col dente levato per un bel po' di tempo. I miei amici anche. Però intanto c'eravamo levati la fame più nera, ché, con quattro o cinque chili di farina ogni due tre giorni, era tutta un'altra vita. E poi a tutto ci si abitua, anche a vivere pericolosamente, come dicevano quelli, i fascisti, che allora sembravano spariti.
La farina la portavamo a casa un po' alla volta, aggiungendola al cassetto della madia prima che quella vecchia terminasse, badando bene a non farci vedere. All'inizio circospetti come ladri, che però aggiungevano invece di levare, in seguito più tranquillamente, come fosse una cosa quasi normale. Che le nostre madri, o le nostre nonne e le nostre sorelle, facessero finta di niente, o che credessero magari in qualche miracolo continuativo, tipo divina provvidenza o qualcosa del genere, fatto sta che nessuna ci chiese mai niente. Poi, d'un tratto, senza alcuna avvisaglia, finimmo al fresco.
Dopo più di due mesi, infatti, durante una perquisizione in seguito ad una segnalazione, i carabinieri trovarono il nostro tesoro. Si appostarono e beccarono il primo di noi che andò a far rifornimento, quel pollo di Giulio che ormai non prendeva nemmeno più nessuna precauzione! Lo presero, lo portarono dentro, lo torchiarono il giusto e io e Giampiero lo seguimmo di filata in guardina.
Oltre alla nostra farina, in quella fattoria abbandonata, c'era infatti anche una specie di santabarbara, mitra munizioni e bombe a mano, nascoste in un bunker, brulicante di ragni e scorpioni, mimetizzato dietro la stalla. Trovato quello, di cui noi ovviamente noi ignoravamo l'esistenza, trovate anche le tracce della nostra farina. E trovati pure noi. E ingabbiati.
Di noi tre però solo io finii in prigione, perché solo io avevo ven-tun anni. Questione di poco, due mesi soltanto, ma sufficienti perché i miei amici fossero rimandati alle loro famiglie, e io invece mi facessi due mesi dentro.
Uscii con la condizionale e la fedina sporca. Solo dopo cinque anni me l'avrebbero ripulita, se nel frattempo non avessi sgarrato. La condanna non fu pesante, perché mi riconobbero le attenuanti, ed in prigione non stetti poi così male. Anche là c'erano brave persone. come me del resto. Il peggio venne dopo, quando pensavo che l'incubo fosse finito.
In casa non mi accolsero bene. Si, all'apparenza baci e abbracci ma scoprii ben presto che si vergognavano di me. E non perché avessi rubato, ma perché ero stato in prigione. Rubare si poteva, quando la fame ti ci spingeva, ma a patto di non farsi beccare. E noi proprio quello avevamo fatto. Io poi, che avevo sei mesi più degli altri due miei scalcinati compagni, m'ero addirittura fatto sbattere in prigione, e questo era imperdonabile. Era come se l'unico orgoglio d'una famiglia che altri non ne aveva, l'onestà, fosse stato compromesso per sempre, e con quello l'onore.
Chi poi cercava di non farmelo pesare troppo, come mia madre, mia nonna e qualcuna delle mie sorelle, otteneva l'effetto contrario, perché era chiaro che lo facevano solo per il loro buon cuore, non altro. Non ci fu nessuno cui venisse in mente almeno il perché io l'avevo fatto ed il bene che gliene era derivato: due mesi senza più fame che poi avevano permesso di affrontare l'inverno con tutt'altro slancio! Non ci fu nessuno cui venne in mente di dire almeno "Io me n'ero ac-corto." Evidentemente me l'ero mangiata tutta io, quella farina!
Non avrei dovuto e voluto, perciò, soffrirne così tanto, ma non ci fu verso. Le cose che pensavano loro in fondo le pensavo anch'io, e pensavo che anch'io avrei fatto come loro, al loro posto. Troppo presto mi ero illuso che scarcerazione volesse dire liberazione, ecco tutto, non avevo fatto i conti con quel che ti resta attaccato. Mi salvò Bianca, allora mia fidanzata, che chiese che riprendessi a "parlarle" come se niente fosse accaduto, e costrinse, credo, o convinse, la sua famiglia a fare altrettanto. Anche i suoi zii e i suoi cugini mi riaccettarono tranquillamente, come fossi mio malgrado inciampato in una disavventura e basta. Io pensai allora, e lo penso ancora, che la mia famiglia, ormai, era quella.
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1 recensioni:
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PIERO il 03/03/2012 23:19
Bello, ben scritto, sentito, con una resa quasi autobiografica.
Una curiosità. La fidanzata di Glauco che gli chiede di riprendere a "parlarle" ha lo stesso significato che aveva (oggi non si usa piùdalle mie parti? Tizia e Caio "si parlano" spesso voleva dire che, a furia di "parlarsi", dopo 9 mesi nasceva un bambino...
- Accidenti è vero, è stata una faticaccia. Molto meglio scrivere poesie, non che sian granchè neanche quello ma si fatica meno. Non demordere però Terry. Io ogni tanto sparo un calcio ma capisco e imparo (forse). Grazie per la pazienza.
- Mi dispiace molto se mi ritieni animosa, perchè non ne è ho motivo, nè ragione. Forse iltutto dipende dal fatto che nn voglio occupare troppo spazio nel commento e cerco di essere sintetica. Poi io sono molto parca negli aggettivi. Per me dire " decoroso" vuol dire che c'è sostanza, che va bene, che c'è sugo; se dico una " certa" descrizione vuol dire che sento determinatezza, qualità ( certo è il contrario di " incerto". Temo che se avessi fatto l'insegnante, coi voti sarei stata bassissima.. ma non pe rigore, solo perchè per me già il 7 è un ottimo voto. Io non pretendo troppo da te, io so che sai scrivere, ti ho solo esortato a fare ancora qualcosina di più.. non ho davvero ragione di ferirti.. anzi ti chiedo anche scusa, ma temo tu abbia un po' equivocato. Poi se tu vuoi lasciare il racconto come lo parlasse Glauco, ok, va bene, l'autore sei tu.. ci mancherebbe!!
In ogni caso si capisce che hai faticato molto a scrivere questo racconto, che è davvero molto articolato. MI è piaciuto e non lo dico per farti contento
- Allora, cara Mariateresa, io i congiuntivi li conosco e sono stato tentato di fare come suggerisci tu, ma poi ho lasciato stare, come ho lasciato stare Bianca "che chiese che", perchè secondo me o Glauco lo faccio parlare come lui avrebbe parlato o altrimenti non sarebbe più lui. Poi noto una certa animosità, sia quando mi dici secca che la punteggiatura non è un optional, come se avessi messo i puntini sulle o invece che sulle i, che quando mi dici che la storia è "decorosa" e c'è una "certa" descizione di ambiente (i racconti degli altri li leggo anch'io e gli errori li trovo dappertutto, anche nei grandi autori professionisti). Forse pretendi troppo da me. In fondo non sono che un dilettante, almeno spero. Ciao.
- MAu, la storia c'è cosiccome una certa descrizione di ambiente, di personaggi di contorno. La scrittura, invece, a mio parere, ha ancora della sbavature, delle imprecisioni qua e là che non rendono scorrevole la lettura. In primis: la punteggiatura. Che non è un optional, per chi legge. Poi nel cncreto: " ... Bianca la mia fidanzata che chiese che...". No, due che di fila nn ci vanno, "Bianca la mia fidanzata, la quale chiese che..". Più sopra: " non ci fu nessuno cui venisse in mente almeno il perchè io l'avevo fatto".."invece: " non ci fu nessuno cui venisse in mente la ragione per cui io l'AVESSI fatto".. ecco, ci sono molte piccole cose così. D'accordo che tu hai detto che si tratta di linguaggio parlato, tuttavia - essendo di fatto un monologo - queste carenze qua e là " sporcano" un testo che la sua storia più che decorosa, la presenta. Ciao
- A quei tempi dalle nostre parti parlarsi voleva dire proprio parlarsi, che anche tra fidanzati più che tanto non si faceva, anche se anche allora ogni tanto qualche bambino nasceva. Sempre settimino, però!
- Un racconto vivo, pieno di particolari e sensazioni, molto bello come storia e per come è stato scritto, piaciuto!
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