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Jazz of suburbia.
Mi sedetti per terra e mi guardai intorno. I muri delle case, tristi e appiccicosi, grondavano lacrime di povertà sotto forma di liquidi maleodoranti. La strada davanti a me si snodava sinuosa e brillante nel buio della notte senza luna, e mentre tutti la calpestavano assumeva l’aspetto di una tortuosa puttana dalle tette rifatte, illuminata da luci al neon anonime e menefreghiste. Il mondo, cattivo e delirante, mi passava accanto ignorandomi con gusto. Lo ignorai a mia volta, e cominciai a soffiare nel mio sassofono luccicante. La musica si disperdeva nei vicoli, accarezzava le anime, ed era triste come il quartiere in cui vivevo. Nessuno lì mi avrebbe mai fatto elemosina. Ma fuori da quelle strade sconnesse, nelle zone sfarzose vestite con l’abito della festa, nei quartieri eleganti e lucenti, mi sarei sentito a disagio. Scostai l’ancia dalle labbra e rimasi in ascolto. Il quartiere sbadigliava, stava per addormentarsi. La sua gente l’avrebbe tradito nel sonno, sognando mondi più belli. Le luci si spensero una dopo l’altra all’improvviso, come soldati che cadono di botto in un campo di battaglia. Mentre mi rilassavo in silenzio, la metro passò rombando sotto il mio culo, facendo tremare le case malmesse. Poi tornò una calma ovattata, rotta qua e là dal suono di una sirena o dal pianto innocente di un bambino che già si era accorto di essere nato in una latrina. Portai di nuovo lo strumento alla bocca e vi soffiai dentro con forza. Una melodia malinconica violentò il silenzio della notte, sarebbe durata per ore. E mentre tutti dormivano, sognavano, piangevano, scopavano e morivano, la mia musica sarebbe stata una meravigliosa colonna sonora.
Mi risvegliai con lo strumento adagiato sul petto. Avevo le labbra secche, dovevo aver suonato per ore. Il giorno stava tentando di scacciare la notte con risultati apprezzabili, verso est si potevano vedere i primi segni della battaglia mattutina. Una battaglia che si ripeteva da sempre, e che aveva sempre gli stessi vincitori. Mi alzai dal marciapiede indolenzito e infreddolito, e mi guardai intorno.
Dal quartiere era già cominciato il pellegrinaggio giornaliero verso le zone più ricche: i borseggiatori si sgranchivano le gambe, i pittori controllavano la valigetta dei colori, i musicisti lustravano lo strumento. Le puttane invece tornavano adesso. Avevano scopato tutta la notte coi ricchi, ma l’odore dei soldi se ne sarebbe andato al più presto. Il quartiere con i suoi odori squallidi e crudi avrebbe trionfato, e avrebbe riso di loro. Portai il sassofono alla bocca e cominciai a suonare. Era una ballata veloce, un jazz rapido come un bebop dei migliori. Era la ballata delle puttane che tornano. Stavo suonando per loro la mia musica più allegra. Alcune se ne accorsero, e si sedettero accanto a me con le gambe fasciate nelle calze di nylon accavallate alla buona. Accesero le loro sigarette lunghe e fini, regalate da qualche riccone generoso dopo un’ora di su e giù sul sedile posteriore di un auto, e mentre si riposavano dalle fatiche della notte le loro anime tristi ballarono la mia allegra melodia.
Quando anche l’ultima puttana se ne fu andata, smisi di suonare. Una di loro mi aveva lasciato un mezzo dollaro lucente sulla custodia dello strumento, la sua anima aveva ballato parecchio e doveva essersi anche divertita. Entrai da Mic, e ordinai un caffè fumante. Lo pagai sparpagliando sul bancone di legno una manata di monetine acciaccate.
Mic si incazzò. E per dimostrarmelo mi mise davanti un biscotto grande come la sua testa. Lo mangiai avidamente e bevvi tutto il caffè d’un fiato. Per pagare il biscotto suonai un pezzo vecchissimo, dolce e amaro, malinconico ma a tratti scoppiettante. Mic mi ascoltava estasiato da dietro il bancone lucido. Il bar triste e squallido diventò un teatro sfarzoso, le bottiglie impilate sulle mensole si trasformarono in un pubblico ammutolito. Ora veloce ora lento, ora tranquillo come un deserto assolato ora incazzato come un fiume in piena, ora cantore di amori falliti ora spia di baci appassionati, il mio pezzo non si fermò mai. Mi alzai dallo sgabello e mi piegai su me stesso mentre sputavo dentro il sassofono. La testa mi girava e nel buio degli occhi chiusi vidi la gente piangere per l’emozione. Quando ebbi finito, gli spettatori applaudirono in delirio. Poi ritornarono bottiglie e il teatro tornò a puzzare di vomito&merda.
Suonai tutto il giorno. La sera i ragazzi che avevano lavorato in fabbrica tornarono stanchi verso le loro catapecchie e mentre suonavo per dargli il bentornato li guardai in faccia. Non avevano memoria del passato né prospettive per il futuro. La loro vita correva troppo veloce per essere gradevole e troppo lenta per essere sopportabile. Il mondo non aspetta nessuno ma nemmeno ti rincorre, il problema è trovare un equilibrio. Ma nel nostro quartiere, che poi era il nostro mondo, la linea dell’equilibrio ristagnava sempre verso la più nera miseria. Spesso sembravano non accorgersi di me e della mia musica, ma mi ero convinto che senza sarebbero stati più tristi. Piano piano restai solo, e suonai una musica solo per me.
Il giorno dopo suonai ancora per le puttane, poi nuovamente per i ragazzi, e così il giorno dopo, quello dopo ancora e così via, fino a che il mondo avrebbe rigettato la mia musica. No. Non poteva andare così. Volevo un pubblico vero. Volevo gente che mi ascoltasse e che mi applaudisse commossa, volevo vedere lacrime cadere da volti senza espressione. Ci provai. Mi presentai a mille audizioni, cercai mille ingaggi, suonai davanti ai padroni di mille pianobar. Le risposte, stonate e scontate, parlarono di rifiuti.
C’erano molte persone quel giorno. Un prato verde, qualche albero qua e là e un sole caldo e morbido, di quelli che ti fanno venir voglia di vivere, di ballare, di suonare. Tutti i presenti mi guardavano in silenzio, i loro occhi sorpresi erano tutti per me. Stavo suonando, e loro mi ascoltavano stupefatti. Finii il mio pezzo e mi gustai l’applauso. Fu un applauso lungo, caldo e morbido come quel sole che ci rischiarava. Quando anche l’ultimo battito di mani si disperse lontano, mi lasciai cadere dall’albero e rimasi appeso e dondolante, con la corda che mi stringeva il collo.
Il mio sassofono luccicante rimbalzò per terra, ai piedi del mio primo&ultimo pubblico esterrefatto.
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