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Abrenet 1
L'inverno si stava avvicinando, rapidamente. Un brivido di freddo gli penetrò le carni pustolose, miseramente coperte di stracci., mentre seduto su una radice, la schiena appoggiata al tronco dell'albero, guardava la prospettiva del sentiero che si snodava davanti ai suoi occhi. La foresta che gli uomini chiamavano oscura aveva al suo inizio l'aspetto di un invitante boschetto, con grandi alberi dalle ampie chiome e alti tronchi che si innalzavano da un tappeto di muschio, anche se l'invito era solo apparente e nessun uomo era riuscito nell'impresa di penetrarla e raggiungere il Centro Oscuro, o meglio nessun uomo era riuscito a raccontarlo; per gli elfi era la Porta, il luogo Alfa dove avevano origine il piacevole gorgoglio dei ruscelli e dei torrenti, le acque limpide dei laghi lucenti: Il luogo che metteva in comunicazione i diversi mondi e ne permetteva la separazione. Per i maghi era Topos, il luogo del mutamento dove nulla rimane uguale, niente è quello che sembra tutto è in trasformazione. Sul sentiero che passava in quella parte boscosa percorsa anche dagli uomini e che collegava la Regione delle piante buone a Vira, l'uomo seduto vide arrivare un pasciuto mercante a cavalcioni di un mulo portato per la cavezza da un giovane garzone che avanzava aiutandosi con un bastone. Era quello che aspettava. Si alzo faticosamente e si avviò arrancando verso i viandanti in arrivo. Il mercante diede un'occhiata a quello strano vecchio dal corpo ridotto a un insieme di ossa avvolto da qualcosa di difficile identificazione "un mendicante, forse un ladro un ladro travestito" pensò mentre controllava la borsa sotto la giubba.
-Scaccialo - disse al garzone mentre il mendicante, ormai vicino tendeva la mano nel gesto classico di chi chiede aiuto, gli occhi rivolti a terra e le piaghe del corpo rese orridamente evidenti dalle vesti lacere emanavano un lezzo nauseante. Il giovane lasciata la mula alzò il bastone e colpì l'uomo che cadde a terra, il viso nella polvere, implorando pietà per la sua condizione e considerazione per la sua fame. Il giovane lo colpì di nuovo mentre il mercante notava con crescente inquietudine l'armonioso gioco di muscoli e il corpo perfetto del suo compagno di viaggio. Poi il garzone riprese la guida del mulo e il gruppo si lasciò alle spalle quel vecchio maleodorante. "Sempre a me gli incarichi sgradevoli, per quello che mi paga" pensava mentre gli tornavano alla mente tutte le angherie e le ingiustizie che gli aveva fatto subire il suo padrone, il quale a sua volta aveva nella sua mente l'immagine della bella moglie abbracciata all'atletico giovane e guardava il suo servitore con astio crescente.
"Non doveva colpirmi, quel ragazzo sarà morto prima di sera" pensò l'uomo che era stato mendicante. Ogni traccia di debolezza era sparita mentre pregustava il potere e l'energia che gli sarebbero arrivati dai due omicidi che si stavano preparando. Sorrise mentre "vedeva" il mercante arrivare a casa e uccidere la moglie dopo aver ucciso il suo garzone, ma il sorriso o meglio il ghigno non durò molto. Sapeva che il pesò dell'età iniziava a farsi sentire e la sua potenza si consumava rapidamente e doveva essere alimentata di continuo. Il ghigno gli tornò nel ricordo della sua impresa migliore lo stupro di Eiran da parte di Galmir. Non era stato difficile aizzare il focoso re. Era bastato assumere un attimo le sembianze della pudica sacerdotessa: un sorriso languido, un sguardo in tralice, uno scialle che scivola casualmente e viene recuperato con studiata lentezza lasciando intravvedere e immaginare un corpo sontuoso nella semioscurità di un corridoio; gli ormoni di Galmir, convinto di essere stato invitato all'amore avevano fatto il resto.
L'uomo raggiunse la diramazione che dal sentiero si inoltrava verso l'interno della foresta e vi si incamminò decisamente; percorsi qualche centinaio di metri si fermò, come in attesa "si ora!, uccidilo ora" pensò mentre vedeva il mercante sgozzare il suo garzone e il sangue penetrare la terra. Era inebriante percepire l'energia che inondava ogni minuscola parte del suo corpo. Quando riprese il cammino si diresse verso una costruzione che si intravvedeva tra il fogliame e una decina di metri nel bosco. Era una piccola capanna di tronchi, senza finestre, col tetto di frasche, di quelle che i nani usavano come depositi e che proteggevano dalla curiosità e dall'invadenza degli umani con piccoli sortilegi, tanto piccola che per entrare l'uomo dovette chinarsi per quasi metà della sua altezza. L'interno era sufficentemente luminoso e Abrenet che ormai aveva ripreso il suo vero aspetto si diresse verso una delle pareti che si aprì al suo passaggio e lo introdusse nel suo lussuoso palazzo.
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