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L'istituto
La notte, dalla grande camerata, si sentivano i treni che partivano e arivavano.
Quel rumore era piacevole in quel silenzio e in quella penombra. Si udiva anche, in sottofondo, un vago brusio proveniente dalla città. Era quel brusio, interrotto dal più chiaro rumore di treni, che mi stupiva e un po' alla volta mi addormentava.
La sveglia era alle sette o forse qualcosa prima, e il vago brusio era diventato più forte e la penombra meno scura. Passava uno degli assistenti a spalancare balconi e finestre, a scuotere i nostri letti: così cominciava una nuova giornata.
All'istituto era tutto nuovo e strano in quei primi giorni. Era anche tutto confuso nella mia testa di fanciullo che si affaccia all'adoloscenza, e non avevo coscienza di cosa vi facessi in quel posto. Io che, sin da allora, forte avevo il senso della libertà, in tutta la concretezza del termine. A quel tempo, su di essa, avevo le nozioni di un'adoloscente, ma subito avevo detestato il portone di ferro e la recinzione che attorniava l'istituto (e tutto ciò che simbolicamente significavano).
Fantasticavo di fuggire.
Mia madre prima di lasciarmi lì, una tiepida mattina di fine settembre, mi disse: "prova a stare qui, fra venti giorni se non ti è piaciuto, io e tuo padre ti riportiamo a casa". Contavo i giorni che mi separavano dal ventesimo ogni sera sotto le coperte, con calma, ascoltando il brusio della città e quel rumore di treni.
I giorni passarono e mia madre tornò. Non mi riportò a casa sebbene ne avessi una gran voglia, mi convinse invece a rimanere ancora qualche tempo.
Dovetti abituarmi a quella vita. Il mio inserimento non fu facile. Il carattere schivo, una profonda timidezza lo resero ancora più difficoltoso. Gli assistenti mi osservavano scettici. Mi tenevano d'occhio: avevo l'impressione che mi spiassero.
Il direttore, nel periodo che seguì il mio arrivo, volle più volte parlarmi.
Ci appartavamo in un'aula vuota o nel suo piccolo studio. "Cosa c'è che non va?" chiedeva, "non ti trovi bene qui?". Faceva queste domande e altre riguardanti il mio soggiorno nell'istituto, e altre ancora sui miei problemi di adolescente, molto dolcemente, quasi un sussurro. Aveva una voce forte, tonante, e mi stupiva in lui quella dolcezza. "No, no, davvero, mi trovo bene qui", mentivo consapevolmente, e anche lui sapeva che mentivo e allora mi guardava intensamente con la fronte corrucciata.
Sostenevo benissimo il suo sguardo continuando ad assicurare che, si, stavo bene, e che mi piaceva quel posto. Alla fine mi lasciava andare raccomandandomi che se avessi avuto dei problemi avrei dovuto dirglielo subito. Non avevo nessuna difficoltà a prometterlo mentre schizzavo via felice della fine del colloquio.
L'atteggiamento del direttore e degli assistenti mi aveva fatto capire una cosa molto importante: in qualche maniera dovevo inserirmi, crearmi qualche amicizia tra i compagni, giocare con loro, fare quello che loro facevano. Dovevo, insomma, mimetizzarmi, nascondendo la mia vera natura. C'erano un paio di compagni che ammiravo.
Cercai e ottenni la loro amicizia. Cominciai a parlare con loro, a giocare con loro, mi inserii in una squadretta di calcio che si era formata, cercai, specialmente quando poteva essere notato, di essere attivo dove ferveva l'azione: mai il protagonista ma neppure l'escluso.
Questa specie di equilibrismo calcolato diede presto i suoi frutti. Gli assistenti cominciarono a credere che veramente stessi ambientandomi, che il mio comportamento precedente fosse dovuto unicamente all'improvviso mutamento di vita che avevo subito.
Giocavo bene a calcio, e questo costituiva un vantaggio non indifferente: era ricercato e ammirato colui che dimostrava d'esserne capace. A scuola andava meno bene, però era meno importante, per i compagni, che il non saper giocare a calcio.
Dopo due o tre mesi si poteva affermare che l'inserimento era avvenuto. Non era cambiata la mia natura. Ero sempre io sotto la scorza. Ero, anzi, sempre più insofferente a quella vita rinchiusa. Ogni notte prima di addormentarmi fantasticavo sempre alle diverse maniere di fuggire.
Passò ancora un anno prima che mia madre e mio padre venissero per portarmi a casa.
Fù un congedo molto rapido alla presenza del direttore.
Lasciai l'istituto dal portone principale, da dove ero entrato in un tempo che mi parve remoto, e da dove, nelle mie fantasie, non ero mai fuggito.
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