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Il lavoro nell'età scolastica
Quando andavo ancora a scuola, ho quasi sempre anche lavorato. Perfino tra la quinta elementare e la prima media. E poi l'anno successivo.
Tutto cominciò quando scoprii, dopo gli esami di quinta elementare, che non avrei avuto compiti da fare durante tutta l'estate. Ricordo ne parlai a tavola e mio padre buttò lì una frase sibillina sul fatto che un certo mio cugino di campagna che aveva la mia stessa età, lavorava in un essiccatoio di tabacco, durante l'estate, già da qualche anno. Credo che l'avesse buttata così, tanto per vedere l'effetto, senza immaginare che io non solo l'avrei preso in parola, ma ne avrei anche fatto un punto d'onore. Invece io pensai proprio che, se lavorava mio cugino, perdio, allora avrei lavorato anch'io. Navigavamo forse nell'oro, noi? Certo che no! E allora? Allora l'unico problema rimaneva quello che noi non abitavamo in campagna. Però, se lo zio avesse accettato di ospitarmi, che problema ci sarebbe stato? Già mi ospitava quando andavo da loro in vacanza, così come facevamo noi con mio cugino, perché non avrebbe potuto ospitarmi per qualsiasi altra ragione, tra l'altro in questo caso molto più seria?
Tarmai quindi mio padre fin che, la domenica successiva (allora non avevamo ancora il telefono né l'aveva mio zio) mi accompagnò fin là. Lo zio ovviamente non fece particolari problemi né chiese nulla in cambio, come del resto avremmo fatto noi al posto suo, ma mise in chiaro che non avrebbe voluto fare brutte figure per colpa di "uno di città". E questo, in effetti, non era strano, perché allora noi eravamo i "damerini di città" così come noi loro erano i "baccanotti di campagna". Noi li guardavamo un po' dall'alto in basso e loro ci ricambiavano con una certa diffidenza e un mal dissimulato compatimento. Mio zio non faceva eccezione. Gli risposi allora, un po' piccato, che non si stesse a preoccupare, che quel che faceva mio cugino l'avrei fatto anch'io. E dunque, una settimana dopo, cominciai anch'io a "filare" il tabacco.
Era un lavoro perfino ridicolo, tant'era facile. Si trattava di annodare, con dello spago sottile, i piccioli delle foglie, in mazzetti di due o tre, appendendoli quindi lungo una stanghetta di legno che veniva poi appesa a sua volta in altissime strisce all'interno dell'essiccatoio.
Ci si alzava però alle sei e mezzo del mattino per essere sul posto alle sette, e si lavorava fino alla sei della sera, con una pausa di un'ora circa per il pranzo, sufficiente per andare a mangiare a casa tant'era vicina. Inoltre eravamo in tanti, forse cento o anche di più, ognuno con un proprio banchetto, e pagati a cottimo, venti lire la stanghetta.
E allora ciò che sembrava facile non lo era più, visto che ognuno correva per sé. Ed io, neanche a dirlo, feci in tutto e per tutto, la figura del cittadino incapace e scansafatiche. In realtà non lo ero, ma distratto e presuntuoso sì. E tanto anche. Tanto da aver preso sottogamba quello che d'acchito m'era sembrato un lavoro addirittura troppo semplice per le mie evidenti capacità. Solo che non avevo fatto i conti col cottimo. E la concorrenzialità che comportava.
Nonostante ce la mettessi tutta, infatti, ero quasi sempre in ritardo rispetto ai locali, magari meno fini nel parlare e nel comportarsi, ma vere e proprie macchine da guerra per ciò che riguardava il lavoro. Prima di tutto, forti della loro esperienza, mi avevano cacciato nel posto più lontano dal punto d'attracco dei carri, e poi erano molto più svelti e più svegli di me, così che mi precedevano regolarmente nelle file d'attesa per l'approvvigionamento. Quando finalmente arrivava il mio turno, spesso non c'era più niente da prendere. E d'altra parte, quando tiravo alla morte per arrivare almeno confuso nel gruppo, poi mi rifiutavano le stanghette all'appenditoio perché incomplete o mal legate, quindi era ancora peggio.
Forse nessuno mi faceva sconti anche per via del fatto che ero un intruso, ma ero veramente più imbranato degli altri, e non solo per la mia scarsa manualità, ma anche perché faticavo a carburare al mattino e avevo l'abbiocco facile dopo pranzo (coi manicaretti che preparava mia zia, mangiavo come un serpente). E poi ero sempre distratto, perso nelle mie fantasticherie, all'epoca incontenibili e dopo anche. Morale della favola, quando andavo bene facevo quaranta stanghette al giorno, quando andavo male venti. Mio cugino, e gli altri come lui, ne facevano quaranta quando andavano male e sessanta quando andavano bene. Ma spesso alla fine della giornata erano venti per me e sessanta per loro. Demoralizzante!
Di quel periodo ormai tanto remoto ricordo la noia, l'odore greve delle foglie appena raccolte e il buon odore che si spandeva da quelle ormai essiccate. E soprattutto il senso di frustrazione che mi prendeva quando, la sera, ci lavavamo nella canaletta lungo l'unica strada asfaltata. Allora, mentre l'acqua gelida m'investiva veloce tanto che le idrometre faticavano perfino a rimanere ferme, mio cugino e i suoi amici mi prendevano in giro per la mia incapacità. Anche mio zio poi, la domenica, ci metteva del suo, dicendo a mio padre: "Meglio che lo fai studiare perché non prende quello che mangia".
Così durai un mese o poco più, tornando a casa con la consapevolezza che mai e poi mai avrei potuto fare, per tutta la vita, ciò che già per un mese era stato una vera tortura. E pensavo veramente che non l'avrei fatto mai più, invece già l'anno successivo, nell'estate del 1969, ci riprovai, spinto dal desiderio di rivincita e anche dal fatto che, proprio in quell'anno, sarebbe cominciata l'era automatizzata. Basta lavoro manuale e niente più pagamento a cottimo, dunque, ma una ventina di macchinari, chiamati volgarmente macchinette, che, come enormi macchine per cucire, provvedevano da sole a legare le foglie attorno alle stanghette. Due addetti regolari e un ragazzino facevano il lavoro che l'anno prima richiedeva almeno dieci o dodici persone. E così, dove prima c'erano una miriade di banchetti, quell'anno trovai una ventina di macchinette.
Compito dei bocia, e quindi anche mio, era quello d'assicurare i rifornimenti e i trasporti delle stanghette finite. Vietato toccare le macchine per chi era fuori regola e senza assicurazione. Quanto al compenso, era una vera pacchia: cento lire l'ora e quindi otto o novecento o mille lire al giorno assicurate, mentre l'anno prima dovevo sudare sette camicie per prenderne cinque o seicento, e con un ritmo blando che lasciava molti tempi morti. Troppi.
Proprio quello fu il mio problema di quell'anno: l'impegno relativo che mi permetteva di fantasticare senza ritegno, tanto da venir spesso ripreso dal capomacchina e dal suo aiutante, che poi nel mio caso era una capomacchina e la sua aiutante, perché le lasciavo addirittura senza rifornimenti. In particolare poi, dopo qualche ora quando ero anche un po' stanco, mi sedevo sul traversino sotto la macchina, vicino a dove c'era il passaggio della catena, e, sempre soprapensiero, ne pulivo l'ingranaggio con il dito. Fin che alla fine ce l'infilai dentro.
Quando la carne mi fu sbranata via dalla ruota dentata, lanciai un urlo altissimo che provocò il tempestivo bloccaggio da parte della capomacchina. Evitai così l'amputazione ma rimasi col dito bloccato nell'ingranaggio e il dolore era tale che non mi accorsi ne del tempo che passava ne del fatto che tutti, nel capannone, si erano fermati per venire a liberarmi o semplicemente per stare a guardare. Non mi accorsi nemmeno dell'arrivo del padrone, un uomo magro e alto con capelli scuri e occhi neri imperiosi che nessuno aveva mai il coraggio di salutare, mentre lui passava camminando altero o a bordo della sua auto sportiva e costosissima. Né lui dava mai segno di veder qualcuno, peraltro. Ebbene, in quel momento fu affettuoso e tranquillizzante, pur essendo egli stesso visibilmente scosso. Mi parlò dolcemente e con mille cautele aspettò che mi venisse liberato il dito per poi portarmi personalmente, con la sua splendida auto biposto, fin dal dottore del paese.
Una volta completata la medicazione, una semplice ricomposizione della carne del dito sbrindellato, senza nemmeno un punto di sutura, che mi lasciò una brutta cicatrice ma per fortuna nessuna perdita di funzionalità, mi riaccompagnò personalmente a casa mia in città. E, mentre io mi guardavo il dito con la fasciatura annerita dall'ittiolo, mi raccontò aneddoti spiritosi e tranquillizzanti fin che non arrivammo a casa mia. Una volta lì, si fermò a bere il caffè con mia madre e poi, dopo essersi raccomandato che non lo rovinassimo denunciando l'accaduto alle autorità, mi pagò tutta intera la settimana, anche se era solo martedì mattina. Infine, dopo essersi ancora raccomandato che, in caso di complicazioni, lo avvertissimo e ritornassimo dal medico del paese, anziché al pronto soccorso della città, se ne andò. Prima ancora che lui finisse con tutti questi discorsi io mi ero già ficcato a letto, consapevole, come sono sempre stato, che nessuna medicina aiuta la guarigione più del sonno, ferite comprese.
Fini così, inaspettatamente e ancora ingloriosamente, anche il mio secondo anno di lavoro, stavolta dopo poco più di due settimane. Ma l'esperienza mi maturò e il senso del pericolo mi si acuì. Scoprii in seguito, tornando una domenica a casa degli zii, che ero diventato oggetto d'invidia, tra i ragazzini dell'essiccatoio, per aver fatto, unico a memoria d'uomo, un giro sul coupé del padrone.
Ad ogni modo mio padre decise che, fin che non avessi avuto l'età per essere messo in regola, non avrei più dovuto lavorare. Specificò che non era stato certo lui a obbligarmene e mi disse che sperava che avessi imparato la lezione. Risposi di sì, sentendomi in colpa sul serio.
Passarono quindi due anni in cui, d'estate, bighellonai con gli amici da mattina a sera combinando guai in serie e procurandomi ferite anche molto più gravi, fin che, dopo l'esame di terza media, considerando che ero nato in gennaio e avevo già quattordici anni, mio padre mi disse: "Trovati da lavorare che adesso è ora".
Ricordo che si era appena alzato dal letto dopo le due ore di sonno pomeridiano (che invariabilmente si concedeva poiché si alzava sempre alle tre della notte) e stava prendendo il caffè. Non lo lasciai neanche finire che già uscivo di casa. Attraversata la strada, entrai nel negozio di alimentari che stava quasi di fronte a casa mia, ed ai padroni, marito e moglie entrambi dietro il banco, chiesi se per caso non avessero bisogno di un garzone per l'estate. Mi risposero che per caso ne avevano proprio bisogno e che mi avrebbero pagato mille lire al giorno più tutto quello che sarei riuscito a mangiare. Naturalmente in nero, ovvio. Riattraversai quindi la strada e dissi a mio padre che il lavoro l'avevo già trovato e, anche se la paga era bassa, lo avevo già accettato. Lui aveva appena finito il caffè e si stava accendendo una sigaretta. Mi guardò e disse: "Bene".
In effetti, a parte la paga, il lavoro si dimostrò subito bellissimo. Non solo stavo dietro al banco per aiutare a servire i clienti, ma dovevo anche prendere le ordinazioni telefoniche per le consegne a domicilio, prepararle e poi eseguirne le consegne tra le dieci e trenta e mezzogiorno e mezzo.
Partivo col classico biciclettone coi cestoni di vimini davanti e dietro e facevo per prime le consegne più urgenti e più vicine, e poi, quando il carico era un po' diminuito, quelle più lontane e isolate in mezzo alla campagna adiacente la città. E allora mi scatenavo nei rettilinei e su per i cavalcavia, completamente immedesimato nei più grandi corridori del giro d'Italia, ogni giorno uno diverso, Motta, Gimondi, Adorni e De Vlaeminck (Merckx era ancora di là da venire). Poi, quand'era pomeriggio, stavo dietro al bancone spesso da solo, fin che i padroni facevano il sonnellino, e poi li aiutavo a riordinare, fare le ordinazioni e pulire il magazzino, dando la caccia ai ragni e agli scarafaggi più grossi, rapidi e zigzaganti come carri armati impazziti. Infine fagocitavo quant'era rimasto invenduto, specialmente bomboloni e brioche varie, e me ne andavo a casa, di là della strada, felice e contento.
Insomma, prendevo poco in quel 1971, ma lavoravo divertendomi e contemporaneamente m'irrobustivo, perché la bici coi cestoni, quand'era a pieno carico, non era mica facile da spingere. In più conobbi un sacco di gente e fui a mia volta conosciuto e apprezzato, tanto da integrare bene la paga con frequenti mance. Anche i padroni furono soddisfatti di me, al punto da offrirmi, l'anno successivo, ancora il lavoro.
Solo che a quel punto rifiutai, perché la paga, complice anche un'inflazione a livelli record, era diventata veramente troppo bassa. Mi avrebbero dato milleduecento lire al giorno quando potevo prenderne quattrocento l'ora, e in regola, lavorando in un officina meccanica nemmeno troppo distante da lì. Così preferii quella, anche perché mi servivano i soldi per comprare la moto. Un'Aletta 125, o un Benelli 125, da regolarità: trecentocinque mila lire sonanti per poter fare il figo sui campi da cross e davanti alle ragazzine della zona.
Non l'avessi mai fatto: finii dietro un trapano tutta l'estate del 1972, a bucare piastrine di ferro e poi filettarle tra cigolii e clangori di torni, frese e presse meccaniche e idrauliche varie. Facevo otto ore al giorno: le otto ore più lunghe della mia vita. Unico piccolo diversivo, l'approvvigionamento di piastrine quando le terminavo. Due palle infinite e senza uguali. Già arrivare alla sosta panino, alle dieci, era un'impresa, mezzogiorno, o le sei della sera, un vero calvario. Rompevo apposta le punte del trapano (o i maschi per la filettatura) per poter smettere qualche minuto e attraversare il capannone fino al magazzino, solo che non potevo mica romperne troppe, per non dare nell'occhio. A momenti mi veniva da urlare per non impazzire, e qualche volta lo facevo pure, e non solo io.
Davanti alla mia postazione, circa venti metri più in là, c'era la colonna con sopra l'orologio aziendale. Un orologio che avrei volentieri preso a mazzate, perché in certi momenti sembrava addirittura fermo o rinculante. L'unica sarebbe stata fantasticare, attività nella quale avevo sempre eccelso, solo che fantasticare a comando non è facile. Così, dopo un po', non riuscivo più a staccare, ed erano guai. Poi c'era il rumore, veramente infernale. Ed io non sopportavo i tappi alle orecchie, coi quali comunque il rumore si sentiva lo stesso, ed arrivavo a sera veramente esasperato e smanioso di godermi un po' di relax in perfetto silenzio.
Unici diversivi le sfuriate dei capireparto, quasi sempre più cattivi ed aggressivi dei veri padroni, e un incidente ad un operaio che d'improvviso, poveretto, lasciò due dita sotto la pressa. Ricordo bene il suo urlo di dolore e il suo pianto improvviso e inconsolabile. Poi nient'altro, solo l'odore pesante del ferro e dell'olio idraulico e il puzzo della colatura grassi, che era proprio nel fabbricato dietro al nostro e che mollava i suoi micidiali effluvi alle 11, 30 e alle 17, 30 precise. Ricordo che pensai che, se quello avesse dovuto essere il mio lavoro per tutta la vita, mi sarei sparato. E non per scherzo.
Invece l'anno seguente, nel 1973, feci anche di peggio. Complice il fatto che ero ormai motorizzato, anche se con una misera Lambretta in luogo dell'Aletta o della Benelli che avrei voluto io (perché avevo fatto i conti senza mio padre), accettai la proposta di un altro mio zio che produceva stampi per pandori, pandorini e brioche. Mi mise in regola, come già lo ero stato anche l'anno prima, perché anche lui non voleva correre rischi, a maggior ragione visto il tipo di lavoro e la stretta parentela. Mi diede 600 lire l'ora, che per l'epoca erano proprio un bel prendere, e la possibilità di fare quante ore volessi. Accettai. E dal trapano passai alle presse.
Dopo neanche un mese mia zia lasciò anche lei due dita sotto la pressa, e lo shock fu grande, perché era una zia cui ero molto affezionato. Dopo due, di mesi, ce ne lasciai uno anch'io: il medio della mano destra. Solo mezza falange per la verità, ma lo shock fu grande lo stesso, perché l'unghia, spiaccicata nello stampino a V di una pressa, divenne lunga come una striscia filante. Mio zio mi portò di corsa al pronto soccorso mentre le lacrime mi sprizzavano fuori dagli occhi per il dolore e fin che non mi fecero l'anestesia locale, peraltro pure dolorosissima proprio nella prima falange del dito stesso, vidi letteralmente le stelle. Infine quasi svenni quando mi vidi amputare in diretta quella specie di tagliatella che era diventata la mia ultima falange.
Credevo di averne abbastanza anche per quell'anno, invece, dopo tre settimane, ero di nuovo al lavoro, anche perché, senza me e mia zia, mio zio, poveretto, non sapeva che fare. Ricordo anche la ramanzina che mi fece perché, secondo lui, avevo tolto la sicura che mi aveva tanto raccomandato di non togliere mai, soprattutto dopo l'incidente occorso a mia zia. Io non dissi niente, ma in realtà non avevo tolto un bel niente: mi ero solo dimenticato d'inserirla. Ma quella era proprio un'estate segnata, perché, dopo qualche tempo ancora, ebbi pure un incidente nel tornare a casa. Proprio di venerdì sera, mentre in tshirt, bermuda e zoccoli di legno che allora andavano di moda, già pregustavo il mio meritato "sabato del villaggio".
Avevo allora l'abitudine di correre esageratamente, quasi per vendicarmi dell'affronto che mio padre mi aveva fatto, relegandomi su una misera Lambretta quando io l'anno prima mi ero così faticosamente industriato a guadagnarmi i soldi per ben altra moto. Si può ben dire che corressi quasi per vendicarmene e farla finita con quello scooter che proprio non m'andava giù. E i risultati furono consequenziali: incidenti a grappolo, a volte anche clamorosi, con un'unica costante: danni alla moto e ad altri veicoli coinvolti ma mai a me stesso. Ma non poteva andare sempre bene, e infatti non ci andò!
Grossomodo a metà strada, c'era infatti un cavalcavia con tre curve abbastanza secche, di quelli che superano strade quasi parallele, ed era mia abitudine prenderlo a manetta dall'inizio alla fine, con un'unica frenata decisa proprio sopra il ponte, dove la curva era più brusca. Arrivato invece in fondo alla discesa, la compressione nella curva schiacciava il povero scooter e le sue misere sospensioni letteralmente "a pacco", con conseguente clamorosa strisciata di pedane e marmitta sull'asfalto. Quand'era buio si vedevano le scintille, ma anche di giorno non era male. Godevo come un matto. Solo che quella volta si misero di mezzo un camion e i miei maledetti zoccoli di legno.
Il camion decidendo di cambiare corsia all'improvviso, subito dopo la fine della discesa, dove la strada, ormai in centro abitato, si avviava verso un semaforo, e lo zoccolo incastrandosi tra il pedale del freno e il tunnel centrale e bloccando senza scampo la povera ruota posteriore. E privando così la moto di ogni direzionalità.
Motociclista nato, reagii d'istinto, buttandomi a terra per non finire sotto al camion, e ruzzolai fino a fermarmi contro il muro a sinistra della strada stessa. Lambretta compresa a un paio di metri di distanza.
Poi fu un attimo. Cosa succeda a volte, quelle volte, nella testa di un ragazzo di sedici anni, e nella mia in particolare, è duro spiegare. Sta di fatto che scordai seduta stante le mie evidenti e preponderanti colpe, e scaricai tutta la mia rabbia sul povero camionista, il quale nemmeno si era accorto di niente, fermandosi tranquillo, in attesa, poco prima del semaforo rosso. Lo raggiunsi completamente fuori di me, picchiando cazzotti contro la portiera e investendolo di male parole. Per tutta risposta lui si prese tutta la colpa e mi accompagnò pure al pronto soccorso. Due ore dopo me ne tornavo a casa con la coda tra le gambe e la lambretta tutta scassata (quella volta ero riuscito a fare un bel danno) portata a mano. Dimenticavo: ero fasciato come una mummia e, quando mia madre mi aprì la porta di casa, per poco non andò lunga distesa.
La convalescenza mia e della Lambretta chiuse comunque anticipatamente anche quella stagione. Solo che, una volta riaggiustata, pur parca ma ad acqua non andava, poverina! E avendo io chiuso anticipatamente e sciaguratamente la stagione estiva, dovetti industriarmi a racimolare qualche soldo anche durante l'inverno. Lavorai così, nei pomeriggi in cui avevo poco da studiare, in una fabbrica d'attaccapanni di plastica e di legno. Ci andavo quando potevo e facevo quante ore volevo, previo avvertimento telefonico il giorno precedente. Mi pagavano in contanti sull'unghia e mi faceva un comodo dell'anima. Ma l'anima stessa pur sempre soffriva, costretta ancora una volta dietro macchinari tediosi che puzzavano di plastica bruciata o segatura scottata, così ci pagai la miscela e i divertimenti per un paio d'inverni, ma rinunciai appena possibile, giurando a me stesso che mai e poi mai avrei più fatto simili lavori a catena per nessun motivo al mondo.
Andai quindi in una cooperativa facchini, mi ci iscrissi e chiarii che mi andavano bene tutti i lavori dove non ci fossero stati macchinari del diavolo a dettarmi i loro diabolici tempi. Detto fatto, durante la primavera scaricai camion di frutta e verdura nei vari magazzini della zona industriale e, l'estate successivo, quella del 1974, ebbi la più bella serie di lavori di sempre: tre in una sola estate.
Cominciai con la fabbrica del ghiaccio. Avete presente quei parallelepipedi da sedici chili che venivano usati, appositamente tritati, dai pescivendoli ed altri venditori ambulanti? Proprio quelli. E, dico, d'estate, quando ancora non si sapeva cosa fosse l'aria condizionata, cosa c'era di più bello che lavorare in una fabbrica così? Avrei quasi pagato io, se non mi avessero pagato loro!
E poi era un lavoro totalmente autonomo. Da solo dovevo manovrare il meccanismo che faceva avanzare le serie di blocchi, da solo dovevo toglierli ed accatastarli sui pallets, e da solo, col muletto, dovevo poi prenderli e portarli dentro la cella frigorifera. Per di più mi lucidavo anche un po' i bicipiti, manovrando quei blocchi con guanto e rampino. Cosa volere di più? Stavo quasi per mettere le mani avanti anche per l'anno successivo, quando mi toccò invece licenziarmi.
Già so che adesso direte "Ma a questo qui non gliene va mai bene una!" ma stavolta non mi successe niente di male, solo che avevo un'occasione d'oro per andare in ferie e non ci avrei rinunciato per nessuna ragione al mondo. E le ferie, una fabbrica di ghiaccio, in estate non le poteva proprio fare, per cui mi dissero "se vuoi andare vai però noi dobbiamo prendere un altro" e io dissi loro che mi sembrava giusto, li ringraziai e ciao.
Il lunedì di ferragosto ero a Cesenatico, insieme a quattro altri amici miei, in un albergo bellissimo pieno zeppo di belle clienti e altra degnissima fauna locale. Al futuro avrei pensato al ritorno, dopo la settimana di vita che mi aspettava e che ero ben deciso a godermi fino all'ultima stilla. Ma, come spesso accade quando le aspettative sono esagerate, i risultati furono inversamente proporzionali. Non battei chiodo per quasi tutta la settimana, salvo poi scoprire un filarino promettente quasi fuori tempo massimo. Dovevo trovare quindi una soluzione per restare in loco ma soldi non ne avevo più. Mi ridussi, il penultimo giorno, a visitare la cooperativa facchini locale, la quale però aveva posto solo su qualche barcone di pescatori. Ma lavorare di notte, per di più fuori in barca, avrebbe automaticamente ucciso il mio sex appeal serale da spiaggia, perciò rifiutai. Ed ebbi un insperato colpo di fortuna proprio nel mio stesso albergo.
Il mattino stesso della ripartenza, trovai un foglio, appeso appena fuori dall'ascensore, che diceva testualmente "cercasi urgentemente cameriere". Andai difilato alla reception, parlai col padrone e, dopo nemmeno dieci minuti, salutavo i miei amici che ripartivano senza di me.
Mi accomodai nella mia nuova sistemazione, nella soffitta dell'albergo dove dormivano i due camerieri altoatesini dell'albergo (il terzo era ripartito la sera prima per un urgente problema familiare e proprio il posto suo avevo preso io) e due ore dopo servivo già in sala da pranzo. Oddio, servire era una parola grossa. Diciamo che vagavo con aria smarrita tra clienti che mi chiamavano da tutte le parti con ordinazioni che il più delle volte avevo già dimenticato prima ancora d'arrivare alla cucina. O, se le avevo scritte, avevo dimenticato chi le me aveva fatte. Fu un disastro colossale e già il giorno dopo ero stato retrocesso ad una funzione minore, appositamente inventata per me e scorporata da quelle degli altri: cameriere delle sole bevande.
Ma il peggio fu che, già la sera stessa, il mio filarino sfumò, saltabeccando dalle profferte di un ragazzotto che in un solo giorno aveva subito due infamanti retrocessioni (da cliente a cameriere e poi a inserviente-sguattero) cioè io, a quelle di un altro cliente forse meno simpatico e aitante ma certo più tosto e danaroso. E così mi ritrovai a fare il vice cameriere-sguattero in un posto che, da paradiso, era diventato inferno. Per di più in stanza con due bolzanini che non mi nascondevano la loro antipatia, acuita dal fatto che, fino al giorno prima, da cliente, li avevo trattati piuttosto male. E in più, a causa della mia incapacità, adesso gli era anche aumentato il carico di lavoro. Basti dire che parlavano rigorosamente in tedesco, anche rivolgendosi a me, salvo poi bestemmiare in perfetto italiano, cosa che m'indispettiva particolarmente.
Durai una settimana esatta, imparando a mie spese quanto sia duro e difficile il lavoro del cameriere, un altro di quei lavori che tutti sono convinti di saper fare per il solo motivo di averlo sempre visto fare. Invece mai proverbio fu per me più assiomatico di quello che dice "tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare". Nel mio caso, quello di Cesenatico. Montai sul treno la domenica sera, con un sollievo che mai avrei immaginato anche solo una settimana prima, e il martedì successivo avevo già un altro lavoro.
Impianti d'illuminazione per sedi stradali, stavolta. Lampioni, collegamenti, fili elettrici e cose del genere. Partivamo la mattina col camioncino coi pali, le bobine e le plafoniere, e passavamo tutta la giornata lavorando lungo le strade. Imparai subito che preferivo di gran lunga lavorare all'aperto piuttosto che in qualsiasi ambiente chiuso, pur bello come l'albergo di Cesenatico. E che mangiare a mezzogiorno in trattoria, insieme al resto della squadra, mi piaceva di più che mangiare a casa mia. Il lavoro poi non era male. Certo a me toccavano i lavoretti di manovalanza, come caricare e scaricare i pali dal camion e nastrare i collegamenti elettrici sul fondo dei tombini, col noioso mal di schiena che ne derivava, ma ormai non mi crucciavo più di tanto. Sapevo che ogni lavoro ha il suo osso e tiravo sera serenamente.
Imparai in fretta anche un altro lavoro, parallelo e collegato e un tantino fuorilegge. Quello d'imboscare ogni tanto un po' di cavi elettrici per andare poi a recuperarli col favore delle tenebre e rivenderli come rame a un tanto al chilo, arrotondando un po' il salario.
Infine, per completare un anno che resterà mitico nella mia memoria, nell'inverno tra il 1974 e il 1975 mi dedicai anche a una nuova attività: quella di tinteggiatore d'appartamenti. Sfruttando l'esperienza accumulata a casa mia pitturando il nostro appartamento assieme a mio papà e mio fratello, misi in piedi una piccola impresa per fare appartamenti tra il sabato pomeriggio e la domenica, quand'ero a casa da scuola. Mio socio fu un mio amico anche lui esperto tinteggiatore e mio fratello più piccolo. Nostro mezzo locomotore un magnifico Apecar furgonato, recuperato a costo zero da un noto ladro della zona, che andò poi distrutto dal sottoscritto sulla pista da cross della zona, in un improvvisata kermesse domenicale contro altri più elaborati mezzi similari.
Facemmo cinque appartamenti in tutto, quell'inverno, incamerando cifre straordinariamente alte per le nostre abitudini, che però dilapidammo quasi per intero tra piste di gokart, sale giochi e dispendiose, e quasi sempre perdenti, sfide a biliardo. Ed era comunque un lavoro tosto e faticoso di cui ricordo, oltre alla soddisfazione per i guadagni clamorosi, la gentilezza delle famiglie presso le quali lavoravamo e l'insopportabile faccia di merda di un viziatissimo ragazzetto cui dipingemmo la stanza da letto (in un grigio orripilante) per ben quattro volte. La quinta sarebbe stata per la sua faccia e ancora mi dispiace di non avergliela potuta dare.
Venne l'estate del 1975, l'ultima dei miei anni di superiori, nella quale lavorai per un'impresa di costruzioni edili, come aiuto manovale. Il primo giorno mi ritrovai aggregato ad una squadra che doveva cementare la nuova fontana della Lessinia nel bel mezzo della centralissima piazza Bra. E fu come lavorare in un acquario, letteralmente immersi con le caviglie nell'acqua della nuova fontana, e circondati da turisti curiosi che ci fotografavano a tutto spiano, incuriositi sia dai lavori che dalla forma (piatta e brulla) della nuova fontana.
Dal secondo giorno invece, e fino alla fine di quell'estate, lavorai in collina, ai lavori d'ampliamento della vasca dell'acquedotto comunale. O meglio, alla costruzione di una nuova vasca adiacente. A parte le vesciche del primo giorno, quando io e il manovale, ma soprattutto io, facemmo la malta col badile perché non era ancora arrivata la betoniera, fu un lavoro abbastanza piacevole. Eravamo solo in tre: un muratore anziano, suo figlio, all'incirca della mia età e già manovale, ed io, completamente digiuno come al solito.
Partivamo il mattino con la seicento del muratore, che la guidava come fosse un trattore, per tornare a sera. Non mi trattavano ne bene ne male, e mangiavamo ognuno la nostra roba, riscaldata nella gavetta, seduti su un asse appoggiata su due bidoni, davanti a una splendida vista del lago di Garda e della città lontana. Poi facevamo un breve pisolino, o una passeggiata quando non avevo sonno, per completare l'ora di sosta. Quando poi pioveva me ne andavo a funghi o per lumache. M'annoiavo un po', perché non c'era verso di far due parole decenti con gli altri due, ma ero stato sicuramente peggio.
Il lavoro era un bel lavoro. Costruire è bello, così com'è bello giocare con le costruzioni quando si è bambini. E anche se la nostra non era una casa, piantare e spiantare assi, chiodi e chiavelle, prima e dopo la gettata di calcestruzzo, dava l'idea di un lavoro in progresso, che realizzava giorno dopo giorno un progetto concreto di ampio respiro. Mi divertiva anche pensare che l'acqua che avremmo bevuto tutti, quindi anche io, sarebbe passata per chissà quanto tempo attraverso un qualcosa che anch'io avevo contribuito a creare.
Quell'anno non ebbi incidenti particolari, tranne uno shock anafilattico dovuto a punture di tafani che mi fece star due giorni a letto con la febbre alta. E un solo episodio, che ruppe la routine, degno di nota. Accadde l'ultimo giorno, quando spiantammo il cantiere. Togliendo i bidoni che avevano sostenuto l'asse sulla quale ci eravamo seduti a mangiare, scoprimmo un ammasso di serpenti neri come il carbone e lunghi forse un metro o anche più. Erano appunto "carbonassi" della Lessinia, per niente velenosi ma ugualmente raccapriccianti. E forse erano lì da chissà quanto, magari attirati proprio dalle briciole che inevitabilmente cadevano per terra mentre noi, seduti sull'asse, tranquillamente pasteggiavamo.
Il 1976 fu l'anno degli esami, in cui non volli distrazione alcuna ne prima ne dopo, e così cominciai a lavorare solo in settembre, nell'attesa di partire, nel gennaio successivo, per il militare. Attraverso la solita cooperativa trovai lavoro in una manifattura di filati dove lavoravano più di trecento donne di tutte le età. Ma non successe nulla di ciò che pensate, essendo io stupidamente fidanzato e sciaguratamente anche fedele. Il mio compare, invece, anche lui facchino avventizio che, come me, veniva dalla città, ci dava dentro di brutto, infognandosi in storie assurde e complicatissime con donne che tra l'altro, per me, non valevano nemmeno la pena. Ma contento lui...
Dopo il militare invece, nell'attesa di trovare il lavoro stabile che poi diventò la mia vita (e speriamo non anche la morte) andai a fare bracciantato qua e là, finendo perfino per tirar giù ciliegie bellissime in una tenuta incantevole attorno a una villa altrettanto bella. E accadde esattamente quello che m'era successo undici anni prima col mio primo lavoro: i campagnoli mi surclassavano regolarmente, finendo per mettere sulla bilancia, alla fine della giornata (anche allora ci pagavano a chilo), il doppio o il triplo delle ciliegie che riuscivo io. Ma stavolta c'era un perché: circa altrettante finivano in un'altra cassetta: quella del mio stomaco, allora senza fondo.
Ecco, finisce qui il resoconto delle mie avventure lavorative durante il periodo scolastico, in un epoca in cui esistevano molte meno restrizioni di adesso (oppure non venivano fatte rispettare, il che è praticamente lo stesso). Senz'alcuna pretesa che quella di essere un semplice, e spero divertente, diario di un quasi senescente, mi fa comunque venire in mente quanto sia cambiata la nostra società da allora ad oggi, e quanto meno liberi, adesso, di agire e, perché no, anche di sbagliare.
Se sia un bene o un male certo è difficile dire e forse sarebbe un'interessante argomento di discussione, ma non è questo il fatto che voglio sottolineare, quanto piuttosto quello che il lavoro fa comunque consapevolezza ed esperienza e che, senza, si ha una percezione illusoria di quello che è alla base della nostra stessa esistenza.
In fin dei conti non credo sia male che un ingegnere sappia cosa vuol dire fare il muratore, se non proprio il manovale, così come credo non sia male che un medico sappia cosa vuol dire fare l'infermiere se non addirittura l'inserviente.
E forse è ora anche di riconsiderare se veramente il lavoro sia inadatto ai bambini e alla loro crescita individuale e sociale, almeno oltre una certa età. Certo senza essere traumatizzati, né messi in eccessiva costrizione (o sconsiderato e criminale pericolo) e soprattutto assolutamente non sfruttati. Ma nemmeno lasciati ad una scuola quasi puramente teorica ed astratta con stage all'acqua di rose abbondantemente fuori dall'età veramente formativa.
E qui mi fermo, altrimenti da una cosa quasi faceta salta fuori quasi un racconto a tesi che non era nelle mie intenzioni né nelle mie capacità. Ma a chi mi chiedesse se quaranta o cinquanta anni fa il lavoro minorile fosse una specie di piaga sociale, risponderei certamente di no. Un problema sociale ne era casomai lo sfruttamento, che esisteva, certo, ma che non mi ha mai riguardato. E un altro problema, altrettanto grave anche se magari diverso, ne è oggi l'assoluta e ineluttabile mancanza.
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