Si chiamava Diego. Il suo nome era un omaggio a Maradona, l'idolo di suo padre, un calciatore mancato che sperava di trasmettere tutta la sua passione al figlio. Per questo giocava a calcio, era un attaccante. Mancino, come Maradona. Basso, come Maradona. Suo padre gli aveva comprato degli scarpini rossi, splendidi, di quelli che costano un occhio della testa. Era felice, suo padre. Sognava ad occhi aperti un futuro radioso per il suo ragazzo. Lui invece, Diego, non riusciva a trovare il coraggio di confessare che in realtà il calcio non gli piaceva. E poi, non sapeva proprio giocare. Pensava che quegli scarpini così costosi fossero uno spreco, perchè tanto lui non giocava quasi mai. Il mister lo teneva in panchina e gli riservava i dieci minuti finali, quando ormai il risultato era già deciso. Poteva tranquillamente entrare in campo in pantofole, o magari a piedi nudi. Lui ed il pallone non avevano un buon rapporto. In quegli interminabili dieci minuti di partita, quando si incontravano per il campo si evitavano. Diego cercava di stargli più lontano possibile, il pallone era contento di non incontrare i suoi piedi ruvidi. Giocava in attacco perchè era il posto dove poteva combinare i guai minori. Lui ed il calcio non sarebbero mai diventati amici, ma non voleva deludere suo padre, così entusiasta di vedere il figlio rincorrere un pallone. "A volte i genitori non riescono a dividere la loro vita da quella dei figli. Sono convinti che le passioni, le abitudini, i pensieri, le attitudini, debbano per forza essere genetiche", pensava Diego. Ma teneva questi pensieri chiusi nella sua stanza. Al di fuori, fingeva di essere un ragazzo felice di dare calci al pallone. Tre allenamenti a settimana, più la partita domenicale, in cui faceva da spettatore non pagante. Ogni tanto faceva finta di non sentirsi bene per saltare un allenamento e restare a casa a giocare con il computer. Passavano i mesi, e in Diego cresceva sempre di più la voglia di svelare tutto a suo padre. Nel frattempo, il campionato stava per finire. Era l'ultima giornata. Domenica 18 Maggio. Diciotto come il numero con cui di solito Diego scendeva in campo. C'erano diciotto giocatori in squadra, e lui era sempre l'ultimo dell'elenco. La partita stava per finire, mancavano i fatidici dieci minuti, quando il Mister chiamò il cambio: toccava a lui. Non era mai stato più felice. Quelli erano i suoi ultimi dieci minuti in un campo da calcio. Dopo quella partita avrebbe detto tutto a suo padre, ormai era convinto. Entrò in campo sperando che, come al solito, il pallone si guardasse bene dal raggiungere i suoi piedi. Ad un minuto dalla fine, accadde l'impensabile. Diego si trovava nei pressi della porta avversaria, quando il pallone si avvicinò ai suoi scarpini rossi. Non sapeva che fare. Tremava. Gli passarono davanti le immagini degli allenamenti, dei finti malori, dei dieci minuti di partita, di suo padre che lo guardava dagli spalti. Fu in quel momento che decise di dare un calcio a tutto, con tutta la forza che aveva. Il suo piede sinistro incontrò il pallone, mandandolo in rete. Diego aveva fatto gol. I suoi compagni, increduli, corsero ad abbracciarlo. Suo padre, dagli spalti, si lasciò andare ad un pianto di commozione. Era iniziata la carriera che lui sognava per il figlio. Non sapeva che Diego non avrebbe mai più messo piede in un campo da calcio. Con quel tiro forte e rabbioso il ragazzo aveva scacciato via tutto quello che non voleva per il suo futuro. Lui non era Maradona. Era semplicemente Diego, che non voleva giocare a calcio.