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L'altalena
Strano a dirsi, ma è passato in fretta. Sembra ieri infatti il farsi portare a allenamento dalla mamma, riportare la borsa ed accorgersi che ti manca ancora una volta un calzino, parlare di videogiochi allacciandosi le scarpe negli spogliatoi.
Andare al parco, e dondolarsi sull'altalena, pensando a come chiedere a Stefania di andare a prendere un gelato insieme.
Su e giù, con il cigolio delle catene a tenerti con i piedi per terra, perché l'altalena si può rompere.
Un giorno eravamo all'asilo. Il mio amico Paolo voleva salire sull'altalena, ma c'era sopra Marco Pozzi. Paolo era lì con sua mamma. Sua mamma stava parlando con la mia, ma era lì.
Marco Pozzi era forse il bambino più stronzo delle elementari del paese. Era abituato così, a non parlare con nessuno. Si faceva i fatti suoi, non comunicava. Nonostante fosse scorbutico, Paolo pensava che gli avrebbe fatto fare due minuti di altalena, prima di andare via. Era venuta sua mamma a prenderlo... A Marco non lo venivano a prendere mai. Restava lì dalle suore fino alle 7, e poi tornava a casa a piedi. Era sempre l'ultimo ad andare via, ma non voleva lo stesso lasciare l'altalena agli altri bambini. Sembrava odiarli perché agli altri li venivano a prendere. Si dondolava sempre su quella vicina alla fontana. E se scendeva per un attimo a bere, e tu facevi per salirci sopra, ti pizzicava finché non te ne andavi a fare la coda per salire sull'altra, dall'altra parte del cortile.
Nessuno poteva farci niente. Neanche le suore, ascoltava. Non gli importava di prenderle, solo non dovevi entrare nel suo spazio.
Quel giorno Paolo gli chiese di lasciargli fare due minuti di altalena, prima di andare via. Paolo e la sua famiglia avevano una pizza alle sette e mezza, ed erano già venti alle sette. Sua mamma stava parlando con la mia, ed io ero lì ad ascoltare il "gnic gnic" delle catene contro le giunture di ferro. Paolo ha chiamato Marco, e quello nemmeno si è girato. La mamma: "dai che andiamo, Paolo". Paolo però ne aveva le tasche piene di Marco Pozzi, e gli chiese di nuovo: "dai, due minuti, è tutto il giorno che sei sull'altalena!", e Pozzi niente.
Dopo un po' Paolo cercò di fermare l'altalena, con Marco sopra. Non è mai facile, perché ti strattona. Se la fermi di botto ti fa un po' male il braccio, ma dopo un po' passa. Come le sberle delle suore se non scendi e lasci l'altalena agli altri bambini. Paolo provò a fermare l'altalena, ma Marco andava troppo veloce. Allungava le gambe quando andava avanti, e le tirava dentro quando andava indietro.
Paolo continuava a mettersi in mezzo, ed era sempre più vicino all'asse che reggeva Marco, quella tenuta su dalle catene, dove ti siedi. Dopo un po', Paolo si mise dietro all'altalena. Pensò che Marco Pozzi, una volta in procinto di andare all'indietro, avrebbe messo i piedi sulla sabbia per decelerare, ma non lo fece. La mamma di Paolo parlava di stirare le camice con la mamma di Daniele. Daniele restava a guardare Pozzi che si dondolava veloce, mentre Paolo era dietro con le mani avanti per cercare di fermarlo.
L'altalena piombò addosso a Paolo, e gli piegò le mani, protese in avanti per attutire la botta. Paolo cadde, mentre sua mamma lasciò perdere il ferro da stiro.
Fisso i fili d'erba illuminati dalle luci fissate nell'erba. Le voci dei bambini si rincorrono, all'altezza delle mie orecchie, mentre per sentire quello che dicono i papà devo seguire con lo sguardo i quadretti delle camice, che mi portano ai segreti del mutuo che crea problemi al signor Rossi di turno. Si sta bene, seduti sulle panchine del parco. Ascolto la musica, e quando finisce una canzone mi godo qualche secondo di radio realtà: cani che abbaiano, gente che discute.
Butto lo sguardo nel vuoto, non curandomi dei particolari. Le piccole mattonelle che compongono il viottolo che taglia il prato non sono abbastanza originali da attirare la mia attenzione, e mi cullo nel placido dei mormorii degli altri. Spero di trovarci qualcosa di interessante, come starà pensando il gatto che fruga nella spazzatura.
Tuttavia, dopo un po' mi accorgo che le voci della gente sono diventate più forti. Strano, è come quando vai a dormire con la radio accesa: più ti stai per addormentare e più il volume sembra alzarsi. Lì per lì non pensi che il volume è sempre lo stesso, ma sei tu ad averne una percezione diversa. Allora, se non hai voglia di allungare la mano per muovere la levetta del volume, sei costretto a cercare di addormentarti pensando a qualcosa, per spostare la tua attenzione. Cerchi di tornare al sogno di prima, aggiusti il cuscino...
Seduto sulla panchina del parco, le immagini sfuocate che compongono la mia visuale - un punto a caso davanti a me - per terra, reagiscono a quello che succede, per cui comincio a vedere i piedi delle persone che stanno solcando quel pezzo di strada, le ruote dei passeggini seguite dalle infradito di chi li spinge, le formiche che trasportano briciole di pane.
Arrivo a questo punto perché la batteria dell'mp3 è finita. Non sono pazzo, in circostanze normali non avrei pensato a questo, ma è proprio quando non hai nulla da fare che pensi alle cose più strane. Non ci credi? Chiedilo agli assassini.
C'è troppo rumore. Mi sento irrequieto. Sarà perché non so ancora se ho ottenuto il lavoro? Sarà perché al parco è meglio andarci in compagnia? Faccio due passi nel prato, oltre il laghetto. Un'altalena, in mezzo ad altri giochi. Non mi interessano gli altri giochi, io guardo lei. Non è troppo piccola, sembra fatta apposta per me. Riesco addirittura a mettere le mani attorno alle catene ai lati. Non mi dondolo troppo, ma mi godo lo stesso l'arietta dell'avanti e indietro. Il trucco dura qualche minuto... dopo un po' non mi diverte più dondolarmi, e alla fine un vetro con l'etichetta resiste alla lontananza dei lampioni. Il vetro è scuro, sul verde... aspetta, verde come l'erba, ma lì lo vedo perché è in mezzo a del terriccio rosso... le partite con Anna al campo da tennis... no ma non avrei voluto pensare a questo stasera...
Ho cominciato a dondolarmi con vigore, e muovendomi non mi accorgevo più del pezzo di vetro, distinguendo appena il cumulo di terriccio dall'erba circostante. Che fresca l'aria che sentivo andando forte avanti e indietro. Dopo un po' cominciai a sentirmi ridicolo. Non c'era quasi più nessuno nel parco, ma il mio piccolo viaggio indietro nel tempo avrebbe avuto da finire, prima o poi.
Tornai a casa, rimembrando di tanto in tanto Anna e i tempi in cui ci vedevamo.
Ironia della sorte, al mio ritorno trovai nella posta elettronica una mail di Paolo:
"Ciao, come va, neo londinese!! Qui tutto bene. Io e Carla stiamo sistemando gli ultimi preparativi per le nozze, mi raccomando non trovarti delle scuse per non venire! Alla clinica tutto bene... sai chi ci hanno mandato? Ti ricordi quello che faceva le elementari con noi, Marco Pozzi? Non è messo benissimo, purtroppo. Sulla sua cartella c'è scritto che fatica a relazionarsi anche con gli altri malati. Chissà se si ricorda di noi della 5° A. Va beh, non è che avessi voglia di scriverti una mail per parlarti di lavoro... a presto!
Paolo
Ps. Ti saluta tanto Anna, dovresti vedere che progressi che ha fatto, tra poco vi rivedrete fuori dall'istituto!"
Sono giorni come questi che credo di sfiorare una linea oltre la quale c'è qualcosa che mi fa capire di più... cioè, non è quel qualcosa che mi fa capire di più, ma sono io che faccio per arrivarci, è che insomma, come faccio a considerare valido il ritenere che Marco Pozzi fosse uno stronzo, se io stesso al suo posto non avrei fissato una cosa nel vuoto per non sentire la gente intorno a me? Voglio dire, perché avrebbe dovuto concentrarsi su una cosa e ritrovarsi alla mercé della gente, quando era geloso delle mamme degli altri bambini? Anche io lo avrei fatto, al posto suo, solo che lui è sordo, poverino.
Devo stare attento, perché se scoprono questa cassetta mi rimandano dentro, e stavolta sarà dura convincerli che sono un dottore.
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