Per infinite volte, da grande, ho rivisto quella immagine, proprio quella: la sagoma esile di mia madre alla finestra.
Da dietro, non vista, notavo i sussulti della sua schiena. Stava immobile, contro il giorno che finiva a chiedersi perché.
In quella severità e in quella assenza totale di dubbi, percepivo un dramma.
Mi aveva insegnato ad essere forte, a camminare senza mai voltarsi. Camminare il passo dei grandi, sicura, senza dar retta ad alcuno. A testa alta. Così come lei. Ma guardandola scuotersi mi sentivo incerta, piegata su me, sola.
Cadevano li tutti i suoi insegnamenti.
In fondo allo stomaco, avevo una fitta che si estendeva, violenta, oltre. Indefinibile, sentivo come una minaccia alla mia vita... io:- bambina.
Ancora la scrutavo, mia madre, per capire. Tutto intorno era misterioso. Silenzioso.
Ogni tanto si avvicinava a lei qualcuno, parenti, gli stessi che mi allontanavo da quella postazione, dove riuscivo a vedere l'autunno, benché fosse estate.
Ecco, mi dissi: - in questo preciso attimo è l'autunno.
Mi sembrava di sentire cadere le foglie, il lamento che si stacca piano dal ramo,
l'abbandono, giù lieve, nel sole ancora assopito. Li.
Nascosta, ferma nel silenzio, ascoltavo la morte.
Papà era morto... la fitta si impossessò di me, definendo così quell'attimo. L'abbandono.