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Il matrimonio di Camilla e la fine dell'eternità
Cominciamo dalla fine, anzi dal lieto fine, incrociando le dita e quant'altro possibile, affinché non porti troppo male. Oggi è stata una bella giornata, una delle poche di questo aprile piovoso e freddo come pochi altri. Un sole sfolgorante che quasi feriva gli occhi, mitigato per fortuna da qualche nuvola alta e da un vento tiepido e costante, ci ha accompagnato fino alla fine della giornata e mi ha fatto un enorme piacere, perché è facile dire "sposa bagnata sposa fortunata", ma se fosse piovuto proprio oggi mi sarebbe seccato parecchio. Oggi era il matrimonio di mia figlia e lei lo preparava da una vita e non poteva e non doveva andar male. Prego, come dite? Al tempo non si comanda e a tutto in fondo c'è rimedio? Buona la prima ma non la seconda, perché non c'è mai rimedio per tutto e quando una cosa è fatta è fatta. Ed è meglio se è fatta bene, ne so qualcosa io che ho sempre dovuto rifare tutto almeno due o tre volte, puttanissima la miseria!
Comunque è andata: mia figlia è sposata ad un bravo ragazzo, la cerimonia e il banchetto sono riusciti come dovevano e come volevano loro, e la loro casa è in costruzione e prima o poi ci andranno ad abitare, forse per la fine dell'anno, forse per l'inizio del prossimo. Poi metteranno in cantiere un bambino, forse due, e mi nonnizzeranno per bene, non solo con due gatti, pur belli, come quelli che hanno ora.
Eh, già, perché sono già quattro anni che convivono in una mansarda nel centro d'un grosso paese dell'hinterland veronese, una mansarda in cui spadroneggiano due gatti di cui sono entrambi innamorati persi, entrambi marito e moglie intendo, visto che adesso così li posso finalmente chiamare. Un appartamentino molto romantico e bohemienne anche se non si può certo definire povero o fatiscente. Ma, insomma, sono in affitto e non hanno una stanza per i bimbi degna di questo nome, perciò quei due gatti, Circe ed Otto, sono tutto il loro tesoro, almeno fino al trasloco nella nuova casa, che hanno comprato col solito sistema della cooperativa "su carta" e che è attualmente in costruzione. Poi arriverà qualcuno di più speciale e mia moglie si ritroverà ad andare a letto col nonno, mentre io no. Io non andrò a letto con la nonna, perché lei non lo diventerà. Non subito, almeno.
Stefania è infatti la mia seconda moglie, la persona più importante di tutta la mia vita, ma protagonista solo marginale della storia che mi appresto a raccontare, che è appunto la storia mia, Marzio, e di Camilla, la mia figlia testé appena sposata. La nostra storia prima di incontrare lei, Stefania, mia e nostra salvatrice. La saluto quindi affettuosamente in attesa di rincontrarla verso la fine di questo mio libro - diario e torno dunque, mentre Camilla vestita da sposa è seduta nel giardino di questa bella villa di campagna, dove abbiamo fatto il banchetto, con suo marito, i suoi amici e le sue amiche più care a cantar canzoni, torno, dicevo, a circa ventotto anni fa, quando io e lei ci separammo per la seconda volta. Ora me la sento, credo, forse per la prima volta da allora, senza risentire un'altra volta il nodo in gola.
Era quasi sera, allora, ventisette anni fa, ed io la guardavo mentre giocava con qualcosa, forse bambole, forse costruzioni, oltre la porta finestra illuminata che dava sul balcone. Camilla aveva allora tre anni ed io ventisei, e piangevo come un bambino, appoggiato a un lampione dall'altra parte del grande viale alberato. Me n'ero appena andato, lasciandola in balia di sua madre Barbara, di nome e di fatto, e che di fatto, appunto, mi aveva cacciato di casa senza tanti complimenti. Non che fosse la prima o ultima volta, ma quella fu forse la più dolorosa e irreparabile. Il dolore che soffrii quel giorno mi cambiò per la vita, senza possibilità di recupero né guarigione. Chi mi conosce dice che ho un carattere duro come il marmo e per niente incline al perdono, ma io sfido chiunque a sopravvivere a un dolore così intenso senza diventarlo altrettanto.
Ecco, la storia mia e di Camilla io la comincerei da lì. Prima c'era stata la storia mia e di Barbara, e poi quella mia e di Barbara con Camilla, che ne fu l'unico lato positivo e che, nonostante l'involontarietà o l'impegno che mi costò, non ho mai rimpianto. Di Barbara, invece, che per inciso se ne è andata circa un'ora fa, con evidente sollievo di Camilla che si è rilassata e quasi trasformata, di Barbara, dicevo, non ho che ricordi negativi. Molto vicini agli incubi.
Incubi che cominciarono una notte in cui, dopo una furibonda litigata (al termine di una gita in cui Barbara aveva civettato spudoratamente con non ricordo nemmeno più chi) facemmo l'amore senza alcuna precauzione. Precauzione che sarebbe toccata a entrambi ma soprattutto a me, vista l'instabilità emotiva di Barbara che la costringeva, in quel periodo, ad assumere psicofarmaci.
Lì per lì comunque non ci pensai troppo, convinto che una volta sola non bastasse per produrre conseguenze importanti come una gravidanza e quindi un figlio (al tempo la mia autostima era così bassa che m'impediva perfino di pensarlo) invece bastò, eccome se bastò.
Quando lo seppi mi prese un coccolone: una gravidanza iniziata in presenza di psicofarmaci (sul cui bugiardino stava espressamente scritto: da non assumere) era una vera sciagura! Mi ritrovai in un tunnel da cui sarei uscito solo se e quando avessi visto e toccato con mano che la cosa non aveva prodotto conseguenze irreparabili. Mi aspettavano perciò sette - otto mesi da incubo, in cui avrei dovuto prepararmi per qualcosa cui non sarei mai stato pronto: la nascita di un figlio focomelico o cerebroleso. I figli del Talidomide, per capirci, anche se nel mio caso Talidomide non era, ma Serenase.
Col senno di poi mi preoccupavo troppo, ed al tempo me lo dissero anche i medici e i ginecologi consultati, e in effetti Barbara non se ne preoccupò minimamente, ma col senno di poi son buoni tutti, io invece mi preoccupavo eccome, e l'idea di avere un figlio che, nel suo stesso inguaribile difetto, mostrasse l'effetto della colpa di chi l'aveva generato mi faceva letteralmente impazzire.
Con tutto ciò non pensai mai all'aborto, primo perché non ci pensò nemmeno Barbara, secondo perché per me è sempre stato ed è omicidio, punto e basta. Quindi trattenni il fiato per sette mesi filati, quasi otto, incazzandomi con Barbara per la sua correità e la sua imperturbabilità. E costringendomi a pensarci il meno possibile. Ma alla fine, dopo un travaglio durato tre giorni e un parto podalico miracolosamente riuscito senza nemmeno il cesareo, mi ritrovai Camilla tra le mani, piccolo fagottino congesto e pulsante di carne e di vene azzurrine. Due giorni dopo, mentre la portavo nella cesta per caricarla in macchina, ero già innamorato di lei al punto che le giurai, a lei ma anche a me stesso, che non l'avrei mai abbandonata, qualunque cosa fosse successa.
Bene, quel giorno, appena mezz'ora prima, l'avevo abbandonata nelle grinfie di quella pazza furiosa che, nel frattempo, era diventata sua madre Barbara, in appena cinque anni di matrimonio. Tra l'altro, ben sapendo quanto Camilla ne avrebbe sofferto ed i pericoli che avrebbe sicuramente corso.
La cosa mi aveva lasciato distrutto. Mentre faceva sera il mio pianto continuava. Andava e veniva, smetteva e ricominciava, così, in mezzo alla gente, senza che io riuscissi a trattenerlo, come un fiume da troppo tempo in piena che travolga gli argini. Credo d'aver pianto allora tutte le lacrime d'una vita intera, e infatti, oggi che Camilla si è sposata, il mio ciglio è rimasto asciutto nonostante che io abbia fatto piangere lei, mia moglie, sua suocera, e molti di quelli che erano rimasti in sala, leggendo la dedica e l'augurio che avevo preparato il giorno prima per il mio novello genero Mattia.
Cioè questa:
Caro Mattia
oggi tu hai sposato
il mio fiore di scogliera
un fiore così bello
unico e particolare
che solo un marinaio nato
eccentrico e incontentabile come te
poteva cogliere ed amare.
Un fiore
che per nascita e vicissitudini
dovrebbe essere indistruttibile
e forse lo è
ma è anche fragile e sensibile
e fra le sue puntute spine
e le sue meravigliose
e un poco capricciose volute
ti renderà felice.
Io
che ne son stato indegno artefice
e arcigno, inaffidabile
e inadeguato custode
oggi te l'affido per la vita.
Possiate esser degni uno dell'altra
e lottare insieme
e insieme spiccare il volo
verso la vostra
e nostra
e mia
felicità infinita.
Ma torniamo a quel maledetto lampione dove non ricordo quanto tempo sostai né quanto piansi, incapace di andarmene definitivamente ma anche di tornare indietro su una decisione ormai presa e per di più anche concordata, con Barbara stessa e i nostri avvocati. Restavo lì come se piangere guardando mia figlia che giocava di là dal vetro fosse l'unica cosa che mi restava da fare e di cui non volevo perdere nemmeno un attimo. La vita mi scorse davanti, quel giorno, come in un film ormai ai titoli di coda, quasi che fossi già morto e sepolto.
La sensazione era così reale e il rimpianto così forte che non potevo fare a meno di pensare a un libro che allora avevo appena letto (La fine dell'eternità) e che parlava di viaggi nel tempo in cui era possibile, grazie ad un minimo mutamento necessario, modificare la realtà esistente, eliminando in tal modo disgrazie e sofferenze eccessive ed improduttive. E quale sofferenza era più eccessiva ed improduttiva di quella che provavo in quel momento?
Pensavo spesso a quel libro, uno dei pochi veri romanzi di Asimov, forse il migliore, dove il protagonista, Harlan, era appunto uno di quei tecnici deputati a operare quei cambiamenti di realtà di cui parlavo prima, personaggio perciò temuto e ritenuto ai margini della liceità ma anche sognatore non rassegnato che sentivo molto vicino a me e al mio modo di essere. E che, infine, naturalmente dopo grandi ambasce e infinite peripezie, riusciva a far crollare il tempio, anzi il tempo, dell'eternità. Ottenendo ciò per cui aveva così a lungo lottato: il diritto ad avere, per sé e per tutti, una vita in cui esser libero di decidere del proprio destino e nella quale poter amare ed essere amato anche a costo della mortalità. Il trionfo, insomma, della libertà di essere e di agire, anche a costo di soffrire e morire. E, soprattutto, il trionfo di una ragione personale su un ingiustizia generale, cosa di cui io, allora ma anche adesso, sentivo un disperato bisogno. Avrei voluto perciò, con tutto me stesso, avere davvero una tale possibilità.
Invece, purtroppo, quello non era che un libro. Nella realtà, a crollare, non sarebbe stato il sistema, ma solo due piccole entità periferiche, già da tempo ormai molto compromesse: io e mia figlia Camilla. E questo mi faceva un male tremendo, per il modo oltre che per l'esito e per la marginalità e l'inutilità a cui vedevo ridotta la mia esistenza.
Ero stato, infatti, un ragazzo fortunato, un favorito dalla sorte, quasi un predestinato per tutta l'infanzia e la prima adolescenza. Intelligenza, bellezza, prestanza, in dosi forse non eclatanti ma comunque congrue ed anche abbondanti: i miei genitori mi avevano dato tutto questo con in più un amore assoluto ed incondizionato spesso sconfinante nell'ammirazione, anche se mai nell'accondiscendenza. Cosa contava che fosse gente umile e certo di pochissimi mezzi?
Per i miei fratelli minori, una femmina e un maschio che amavo il giusto e proteggevo con tutto me stesso, io ero sempre stato, insieme, un esempio cui ispirarsi e una montagna da scalare. Un fratello da amare ma anche di cui aver soggezione. Soggezione che incutevo anche a quasi tutti gli altri, parenti, amici e conoscenti, e che io, almeno all'inizio, scambiavo per antipatia e diffidenza. Quando poi ne divenni consapevole, invece di esserne orgoglioso, ne fui quasi infastidito, perché io, invece, ero personalmente scettico sulle mie proprie effettive capacità. Ero convinto, chissà perché, che derivassero da una debolezza altrui piuttosto che dalla forza mia, e quindi la soggezione che incutevo diventava un credito ingiustificato più che un merito. Forse, stimando poco gli altri, stimavo poco anche me stesso, forse ero solo stupido.
Certo così le doti, anziché un vantaggio, diventavano un peso: creavano pressione, aspettative che mi costava troppo soddisfare e risultati tutto sommato mai all'altezza. E infatti era tutto un continuo "non male, però, da te" oppure "fosse un altro ci accontenteremmo..." e via di questo passo. Cosa che per la verità non è mai veramente finita e mi ha creato una vera e propria forma mentis per la quale io stesso non mi sento mai soddisfatto dei risultati che raggiungo. Ma, insomma, specialmente allora, ciò che ai miei coetanei fruttava zucchero a me fruttava sale. Perfino alcuni effettivi e meritati buoni successi mi lasciarono indifferente, se non addirittura quasi infastidito. Due borse di studio, una presa alla fine delle elementari con un piccolo premio in denaro, e un'altra, poliennale e di buon livello, circa uno stipendio dell'epoca all'anno, presa alla fine delle scuole medie e valida per tutto il quinquennio delle superiori, a patto che non venissi mai rimandato in nessuna materia. Due borse che, tra l'altro, soprattutto la seconda, mi permisero di non pesare mai troppo sulla mia famiglia. Due borse di studio vinte con estrema facilità e che avrebbero dovuto finire di convincermi delle mie vere possibilità ma che invece non fecero che convincermi della mia fortuna (o sfortuna altrui).
Per questo allora, a maggior ragione, sentivo il peso del mio fallimento, per questo sentivo di aver tradito le attese: non tanto o non solo per la piega che avevano preso gli eventi, ma perché non c'era grandezza in essi, nemmeno quella che, nella sconfitta, deriva dal coraggio e dall'eroismo, dall'aver osato. Al contrario, io pagavo perché mi ero accontentato. E avevo comunque perso tutto.
Mi sentivo perduto. Avrei voluto andare a casa, prendere un sonnifero e piombare in un sonno ristoratore. Nero, artificiale, ma ristoratore. Ma non potevo. Dovevo star pronto ad affrontare qualsiasi emergenza, che non solo fino ad allora era sempre stata possibile e anche troppo frequente, ma che adesso lo sarebbe diventata anche molto, molto di più. Emergenze di qualsiasi tipo, ma che potevano riguardare sopratutto mia figlia Camilla. Emergenze che non ero mai stato in grado di impedire né mai lo sarei stato, ma che però dovevo almeno saper affrontare nel migliore, o nel meno peggiore, dei modi. Ne andava della vita stessa: la mia e quella di Camilla. Quindi non potevo, e chissà se avrei mai potuto, staccare la spina e interrompere il mio soffrire, così come non potevo impedirmi di pensare che non avrei mai sopportato, né superato, ciò che poteva accaderle in qualsiasi momento. Né, tantomeno, ch'ella potesse diventare come sua madre Barbara.
Quindi stavo lì, sotto il lampione, a guardare la loro finestra accesa, mentre ormai imbruniva e cominciava a piovigginare. Attorno a me le auto passavano e le persone camminavano senza che io le vedessi, senza che le sentissi. Solo, sentivo, lo scorrere del tempo, come una travolgente e inesorabile corrente che mi portava via e a cui, stremato, m'abbandonavo inerte.
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0 recensioni:
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- ieri sera ore 24 l'ho letto tutto dun fiato non potevo perdermi la fine di un testo che somiglia a tanti altricome ce ne sono stati anche in famiglia purtroppo e volevo arrivare alla fine non perche avevo sonno ma ero curioso di sapere il finale di una storia scritta a parer mio anche con una certa classe. sembrerebbe un racconto ma non lo è questa è vita vissuta e ne sò qualcosa. un saluto e auguri per tua figlia. salvo
- non è facile scrivere in maniera così sincera. la tua è una testimonianza della forza che ci vuole per superare costruttivamente le difficoltà. e, poi, mostrare le proprie fragilità, sapendole lucidamente rappresentare, è a mio parere, una grande prova che ci rende persone veramente speciali.
Vilma il 07/05/2012 16:00
Ho letto il tuo testo "a rate" colpa del tempo che manca sempre...è davvero un testo molto speciale scritto con il cuore in mano
Complimenti
- Ti confesso che non saprei cosa dire su questa storia denominata "drammatica" ma non del tutto, infatti c'è un lieto fine, se non che essa è raccontata come deve essere raccontata una storia di questo genere. Saluti.
Anonimo il 04/05/2012 22:55
Troppo lungo il testo o troppo lenta la scrittura? Il commento delle 22. 53 è mio, Piero.
Anonimo il 04/05/2012 22:54
Troppo lungo il testo o troppo lenta la scrittura? Il commento delle 22. 53 è mio, Piero.
Anonimo il 04/05/2012 22:53
Bene, Mauri, così abbiamo scoperto il tuo vero nome, Marzio. Con un nome così non potevi diventare di sinistra, quindi sei perdonato (scherzo, naturalmente). Quando ho visto che il tuo nuovo racconto constava di ben 5 pagine, mi sono detto "che faccio? Lo leggo o vado avanti con le mie cose da scrivere?" Non ho resistito e l'ho letto, d'un fiato. Nella seconda parte mi ha fatto star male, per via delle esperienze abbastanza simili (fra le altre, anch'io ho lasciato mia figlia sola con sua madre quando aveva cinque anni). Da quel tipo di fallimento è difficile riprendersi e forse non ci si riprende mai del tutto. Comunque, la vita va avanti, anche grazie all'entusiasmo dei giovani.
E non ho vergogna a dire che ho faticato a leggere il tuo "augurio nuziale" a causa delle lacrime che mi velavano il testo. Complimenti, e un abbraccio.
Anonimo il 04/05/2012 14:18
Ecco perché sei "forte"... temprato da sofferenze, le racconti con tutta l'anima ma ora goditi il cielo sempre blu di Camilla e della tua famiglia! Narrare palpitante di vita vissuta. Bellissimo!
Anonimo il 04/05/2012 13:55
Caspita che racconto col cuore in mano!!!
- Quando amore Mauri hai per la tua Camilla... quando dolore devi aver sofferto, esce da questo scritto il tuo tormento... ma ne esce anche il grande amore che provi per lei... bravissimo
Anonimo il 04/05/2012 12:36
Caspita che racconto col cuore in mano!!!
- iniziato a leggere lo finisco stasera, ma già da ora si sente che sarà un racconto molto bello, ciao