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Il Perdono di Ambrogio
PREFAZIONE DELL'AUTORE
Prima di tutto, il fatto storico che mi appresto a narrare, con mie parole, con mie invenzioni ad adattamenti poetici, è un fatto veramente esistito, questo per non pensare che sia il prodotto di qualche mia fantasia onirica.
Non vorrei rivelarvi più di molto sul succo del racconto, essendo obbligato a dire però che i fatti qui descritti si collocano intorno al 390 Dopo Cristo, quando l'Impero Romano entrava ( ma era già entrato seppur minimamente) in crisi e quando la Chiesa era già religione di Stato, approvata, contrapprovata e dichiarata.
Vescovi, chiese, cattedrali, Messe, si affiancavano agli ultimi fasti dell' Impero che aveva dominato il mondo.
Una società del resto molto simile alla nostra.
Buona Lettura.
L’alba sorse a Tessalonica con l’impiccagione del governatore Boterico.
Tumulti avevano infiammato la cittadina il giorno prima, durante lo svolgimento annuale dei giochi olimpici con i carri d’oro e le quadrighe bronzee.
Boterico non era il solo a pendere dal muro degli orefici, che si affacciava sulla piazza dei giochi olimpici.
Accanto a lui il funzionario romano Lucio Ventrone e alla sua sinistra il suo spietato consigliere, Emilio Sandalo.
Poche ore dopo giungeva da Salonicco un nuovo governatore, alleato del Cesare Romano, di Teodosio, Savio Parmalo, il quale con un pugno di legionari in molto silenzio prelevò i corpi impiccati e con la carovana delle zucche li spedì a Roma, dall’imperatore.
Questo Savio Parmalo covava un odio profondo per Tessalonica e si aspettava una bella punizione da parte di Teodosio per gli empi cittadini.
I corpi, ben sistemati da Parmalo e i legionari, arrivarono all’imperatore tre giorni dopo con tanto di lettera.
Teodosio credette di svenire davanti a tanta crudeltà.
Là giaceva il suo caro amico Boterico, che presentava sul collo le nette linnee della corda assassina.
E nella lettera, abilmente cucita da Parmalo, l’accusa diretta ai cittadini, ai migliaia di cittadini che si erano macchiati del crimine orrendo, assassini di tre fedeli servitori di Roma e che con questo si mettevano contro l’imperatore, la sua Corte, il Senato, il Popolus Romanus.
Tra Lesa maestà, triplice assassinio, Parmalo con le sue antiche doti retoriche aveva messo su proprio una bella letterina.
Quel giorno, del resto, trascorse confuso e concitato.
Teodosio era una furia, misurava ad ampi passi la Sala degli Ori, mentre il suo cuore bruciava e la mente era crogiuolo di passioni confuse.
Convocò quanti più potenti stavano sotto di lui a Roma: il prefetto del pretorio Cassio Nomea, il Senatore Manlio Licinio e il funzionario di Corte Emilio Saliente.
La riunione durò molte ore.
Il furente imperatore ascoltava le proposte mosse dai suoi uomini di fiducia:
Nomea proponeva un’indagine approfondita per individuare i diretti responsabili, Licinio proponeva invece che Tessalonica fosse sguarnita di truppe e quindi non fosse più sotto la tutela romana o che almeno fossero imposti tributi esorbitanti.
Infine Saliente proponeva un piano abbastanza infondato, una sottospecie di dittatura retta da tre governatori con una politica di poco respiro per i non molti cittadini.
Ma queste proposte, seppur mosse con il miglior impegno e la massima determinazione non soddisfecero l’imperatore, agitato, sconvolto, rabbioso, una tempesta umana.
Mentre gli altri discutevano sempre con voce più alta, Teodosio si alzò dalla sedia e questo fece zittire i tre funzionari che studiavano ora attenti le sue mosse.
L’imperatore si diresse verso l’immensa finestra che dava sui Fori, dando di spalle alla consulta segreta.
I tre aspettavano il verdetto di Cesare, che soleva pronunciarli sempre in quella ombrosa postura.
Le sue parole furono un sibilo, sottovoce, sì, ma udite e interpretate benissimo.
- Li voglio tutti morti- sentenziò e dopo lasciò la sala.
Al tramonto di quel giorno funesto, partirono da Roma due legioni, la VII e la XI senza che nessuno sapesse nulla, poiché quella frase che non fece dormire sia Nomea che Licinio che Saliente doveva assolutamente restare tra le mura del Palazzo Imperiale, pena la morte.
Indescrivibile fu la gioia del governatore Savio Parmalo nel ricevere i comandanti delle due legioni al Ponte Nubbio.
I due comandanti, Vero Nicolone e Palladio Supreo erano corsi incontro a Parmalo.
- Abbiamo precise disposizioni di Cesare.-
Parmalo prese raggiante i fogli in mano e li esaminò gongolando.
-Di che si tratta, prodi generali?-
-Cesare li vuole tutti morti entro domattina. Lei organizzerà dei giochi straordinari e al resto penseranno le nostre due legioni.-
Nel resto della mattinata Parmalo mise all’opera tutta la sua piccola corte per pulire lo stadio, sgomberare i posti, e far propaganda alla gente, che accorresse a cotanti magnifici giochi offerti dal pur sempre umile servo dell’imperatore, il governatore Savio Emiliano Parmalo.
Intanto i generali, con freddo calcolo e rigida coordinazione che arrivò a turbare lo stesso Parmalo, disponevano i legionari nelle ampie nicchie di tufo sotto i palchi.
- Qual è il piano di Cesare?- chiese durante i preparativi Parmalo a Nicolone.
- Lei faccia il suo lavoro. Quanta più gente possibile deve venire allo stadio.-
Parmalo allora girava intorno ai centurioni che si disponevano nelle ampissime nicchie, così ampie da far entrare moltissimi uomini, migliaia, per le loro ampie cavità naturali.
La notizia dei Giochi di Teodosio e dell’umile servo Parmalo attirarono allo stadio oltre settemila persone, mentre all’entrata veniva distribuito pane gratuito in abbondanza.
Quando l’arena fu gremita, piena fino all’inverosimile, tra i cittadini e i soldati nascosti, Parmalo si affacciò dal suo palchetto avvolto in una candida seta verdastra e salutato dalla folla con grandi ovazioni.
-Tessalonica!- Gridò solennemente- il nostro Cesare vi porta i suoi omaggi per una tanto fiorente cittadina…e dalle Mura dell’Anfiteatro Flavio, giunge oggi un nuovo gioco, che siamo sicuri, vi catturerà dal primo all’ultimo-
Mentre pronunciava queste parole alcuni centurioni ed abili manovali in silenzio guerresco chiudevano le possibili uscite ed entrate dello stadio, sbarrandole con grate di ferro e massi.
-……. Diamo quindi il via ai giochi….. salutate, o cittadini, a gran voce….. i legionari di Teodosio!-
Le grate delle nicchie in cui erano nascosti le due legioni caddero e fuoriuscirono i gridanti legionari che si lanciarono sulla folla con spietatezza unica.
I cittadini, dapprima sbalorditi ed incerti alle parole di Parmalo, si videro arrivare addosso i mille soldati, senza potersi difendere, come bestie al macello.
Mentre Parmalo fissava sbalordito la popolazione che stava morendo anche per causa sua, i due generali si avvicinarono raggianti al governatore.
- Tutti morti..-Iniziò Nicolone sorridendo malignamente.
- Questo è stato il comando di Cesare- concluse Supreo non meno solare.
Fu un autentico massacro.
Parmalo, sconvolto, nauseato, uscì dallo stadio, vagando per le vie di Tessalonica, e solo ora si rendeva conto del male che aveva fatto.
Era disperato, la paura, la follia annebbiavano i suoi occhi suini.
Raggiunse il Ponte Nubbio, ove scorreva l’impetuoso fiume Sarancecchio e si buttò senza pensare all’impeto che faceva ruggire le onde schiumose.
Il suo corpo non fu più trovato.
C’è chi dice che egli stesso perì nello stadio-mattatoio, ma solo il Sarancecchio e il Ponte Nubbio, naturalmente, conoscono la sua triste fine.
Le settimane seguenti fecero di Teodosio un mostro.
La sua nuova fama di sanguinario irrisoluto serpeggiò per tutto l’Impero, non si parlava d’altro, e la terribile notizia della strage di Tessalonica arrivò alle orecchie del Vecovo di Milano, Ambrogio, il quale inorridì.
Tutto trascorreva confusamente: Teodosio pareva essersi pentito di un colpo di mano così veloce e terribile che lo stava facendo apparire crudele, quale lui non si sentiva affatto.
Anche tra i pretoriani serpeggiava l’indignazione, e il prefetto Cassio Nomea cercava di sedare i diffusi malcontenti. il Senato gridava furioso di non aver saputo nulla, e il senatore Manlio Licinio taceva avvolto nella sua toga.
In questo clima convulso, Ambrogio lasciò Milano, mentre i primi fiocchi di neve annunciavano le feste Natalizie.
Saliente arrivò a Milano troppo tardi: Ambrogio era partito per il meridione e non intendeva certo tornare a celebrare la messa di Natale ad un imperatore sanguinario e folle.
Saliente fu convocato dal Vice del Vescovo Antonio Matrema, anche lui molto agitato e confuso.
Gli spiegò che era partito verso certe lande soleggiate del sud-Italia e non intendeva tornare fino ad anno nuovo, o anche oltre. Saliente portava scuse dell’imperatore, ma Matrema non aveva cotanto potere di ricevere le scuse imperiali, e liquidò Saliente con la scusa che quelle erano scuse ipocrite e infondate.
Ma fu Ambrogio stesso a farsi sentire.
Con una lettera indirizzata allo stesso Teodosio su cui vigeva il marchio dell’assoluta quanto totale segretezza.
Era la mattina del 23 dicembre quando arrivò la lettera a un insonne Teodosio, distrutto dai rimorsi, dai pentimenti, che avrebbe voluto morire in quei giorni.
Si chiuse nella sala degli ori e si sedette sulla Cattedra di Marmo, ove tutti gli Imperatori avevano preso le più importanti decisioni della loro vita.
Aprì con cautela la lettera e ne fece scivolare il foglio.
C’era tutto l’odore pregno di Sacralità con cui lo stesso imperatore era venuto su, affidato ai santi precetti di Sagullo, nipote del Vescovo Orso.
- In questa epistola a te medesimo diretta- cominciava così quella enigmatica lettera, e già gli stati d’animo di Teodosio rimescevano in un ribollire confuso,- non mi sento di rivolgere niente all’Imperatore, all’unificatore dei Mondi, al Primus Inter Pares, a Teodosio.
Mi rivolgo con tutto me stesso all’Uomo di Dio.
Mi rivolgo con tutto me stesso all’anima che dimora tra le sete d’oro, le terme di marmo e i bronzi persiani. Non voglio supplicare nessuno in queste righe, non voglio convertire nessuno, ormai sono anziano e Milano ha già visto molte mie gloriose albe e numerosi tuoi magnifici tramonti. Quanto ci resta caro Teodosio? La mia sottile barba è biancastra, l’impeto delle mie Messe è più pacato, il tuo ardore in battaglia non è certo più quello di un Alessandro Magno o di un Ottaviano. Quanto ancora potremo camminare queste terre e respirare gli aromi di Dio? In fondo, mi chiedo se ti senti sicuro nella tua reggia di marmo, con i tuoi pretoriani armati e contenti, i tuoi spietati tribunali, le tue torture terribili, mi chiedo se senti qualche volta la fragilità della tua fortezza. L’Impero che di per sé può sembrare la più grande forza è la tua ultima fortezza,, ma non è altro che una minuscola, insignificante provincia dei Regni di Dio. Ti senti sicuro nella tua fortezza di cristallo, ma alla resa dei conti, che credimi, nel bene o nel male arriva per tutti noi, ci sarà presto, e nulla si potrà fare.
Immense fortezze, anche ben più raffinate e geniali della tua si sono sbriciolate sotto il giudizio insindacabile di Dio.
Ma te tutto puoi, o Teodosio.
Sei capo in terra, che vuoi che sia Dio in confronto a te?
Tu puoi uccidere e creare.
Tu hai in mano milioni di vite.
Certo.
E le settemila pecore trucidate? Spero tu abbia un Paradiso per tutte loro, onnipotente Cesare.-
E la firma, impeccabile, del Vescovo Ambrogio.
Si narra che dopo quella lettera la giornata di Teodosio fu un turbinio di camminate lungo il Palazzo, un maremoto di proposte, di paure e soggezione.
In cuor suo Teodosio aveva una frattura dipendente dal rimorso per l’assassinio che non si addiceva a lui, troppo istantaneo, troppo fulmineo.
Secondo, aveva paura della probabile vendetta di Dio e della resa dei conti finale decantata da Ambrogio e così cominciò a far piani con Nomea, Saliente e Licinio sull’incombente Notte Di Natale, nella quale, seppur minimamente, si sarebbe decisa metà sorte e gran parte di fama dell’Eterno Impero.
Mentre lasciamo un Teodosio scosso e palpitante a pensare con i suoi fidati, Ambrogio ritorna a Milano per preparare la Cattedrale alla grande Messa per la sera stessa.
Il curatore quando lo vide chiese repentino spiegazioni e si meravigliò di vederlo così di buona lena.
- ma….. Ma…. non avevate detto di non voler mai e poi mai celebrare una Messa così importante dinnanzi a un mostro pari a Teodosio e ai suoi ministri?-
- Infatti. La messa è per il popolo. Ci ho pensato a lungo, e in effetti mai ho celebrato e mai celebrerò una messa ESCLUSIVAMENTE PER L’imperatore, ma solo per tutti.
Mille persone, tra volontari e addetti contribuirono ad abbellire la magnifica Chiesa, voluta tredici anni prima dallo stesso Ambrogio, con ghirlande, e quanti ornamenti possibili rendessero unico il luogo.
Ambrogio fece poi riempire i catini absidali con acqua limpida dove egli stesso si rispecchiava per testarne l’effetto voluto.
E guardando proprio il suo viso non più limpido come un tempo, trovò quell’ impeto che lui stesso diceva nella lettera aver perso da tempo.
Quest’impeto che attendeva da un po’ di anni lo pervase dalla testa i piedi e gli diede un’energia mai avuta.
E il Natale, con i suoi fiocchi freddissimi, avvolse candido anche il 390.
Tutta Milano era riversata in una delle più grandi chiese mai progettate, che gli architetti, stupiti dai progetti commissionati loro da Ambrogio, avevano definito di “ dimensioni ambrosiane”.
I matronei pieni, le navate brulicanti di fedeli, i primi posti eccedevano delle persone più riverenti dell’Impero, tutti, ma proprio tutti i ministri che reggevano il mondo d’allora.
Mancava l’Imperatore, tuttavia.
In cuor suo, Ambrogio quando lo seppe da Cassio Nomea non sentì né dispiacere né gioia.
Le tuniche azzurre e le corazze argentate dei mille pretoriani sfavillavano sotto i Candelabri della Pannonia, alla guida del prefetto Cassio Giulio Nomea, fiero, impettito, rigoroso.
Dunque i Portali della Cattedrale furono chiusi, e la Santa Messa ebbe a cominciare.
Sull’altare, adornato come mai lo era stato, risplendeva la splendida tunica d’oro e d’argento di Ambrogio, ornata con rari metalli preziosi, alto il cappello d’ordinanza e rigido ed ambrato il bastone con placche e smaltato di fini ori orientali.
Per un attimo il mondo si dimenticò d’avere già un Imperatore.
La celebrazione iniziò sotto il più grande dei religiosi silenzi.
La voce solenne e grave di Ambrogio inondò tutti come un fiume in piena straripato, frutto dell’impeto da poco guadagnato.
Ma durò poco.
Fu interrotto dal rumore ossessionante del Portale centrale che si apriva e dava scenario di una Milano sotto grida di neve e di tempesta, e tornava a chiudersi, così come era stata aperta.
Ma non invano.
Era entrato qualcuno.
La celebrazione si interruppe.
Tutto il mondo era rivolto verso la navata centrale, persino Ambrogio, dall’alto del suo leggio d’argento.
Una figura, losca a primo sguardo, avanzava avvolta in umili panni, stracci consunti e malandati, la povertà aleggiava, traspariva dall’individuo temerario che aveva interrotto una Santa Messa.
Aveva su di sé un pesante fardello fatto di rimasugli di vecchi abiti, ricordi martoriati d’un tempo glorioso, il grigio colorava quell’uomo, o qualsiasi cosa fosse.
Un cappuccio, nero e rovinato, lo adombrava.
Giunse in molti minuti all’altare, dal quale lo separavano cinque scalini di marmo pregiato.
Si tolse il cappuccio, e il mondo svenne.
Era L’Imperatore d’occidente, il Cesare, l’Augusto, il Romolo, Teodosio in persona.
Ambrogio si avvicinò all’umile penitente.
Toccò a Teodosio parlare, ora con la testa piegata.
- Chiedo umilmente perdono a Dio, ai suoi ministri e al Regno dei Cieli, se mai la mia grandissima colpa possa trovare rimedio. Nel mio pentimento, o Onnipotente, mi Inchino-
La sua voce mai era stata così solenne, così sincera, così bella.
Prima sciolse il fardello dove erano relegate le più preziose insegne imperiali di tutti i tempi, e la folla fu un mormorio di sorprese e di commozione generale.
Teodosio depose le Insegne Imperiali ai piedi di Ambrogio, ai piedi di Dio.
E si Inchinò.
Ambrogio, commosso, certo dell’ultima grande gioia della sua lunga vita, toccò la sua fronte e benedicendolo sussurrò, ma fu sentito da tutti:
-In nome di Dio, Io Ti Perdono-
Tutti si inchinarono, le personalità più illustri mai esistite lo fecero senza sforzo, le donne nei matronei con rara eleganza, i pretoriani con fedeltà mai avuta, quasi che Dio fosse il loro unico Comandante, il popolo con straordinario amore.
Tutto il mondo, tutto l’Impero inchinato.
Ambrogio permaneva in piedi, ma in cuor suo si sentiva così piccolo e vi riconobbe in quel generale inchino il pentimento rivolto a Dio.
Tutti rimasero inchinati e in seria preghiera quasi per un’ora mentre quel giorno passò alla storia come il giorno in cui l’Impero si prostrò umilmente dinnanzi a Dio, alla Chiesa, mentre le ultime candele di Pannonia emettevano l’ultima, debole, ma eterna fiamma.
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- racconto piacevole.
- bello il contenuto, bravo.
- Splendida narrazione. Le due figure dell'Imperatore e del Vescovo grandeggiano, seppure entrambe avvolte in un'infinità ben più grande, che rispecchia Dio. Stupenda la metafora "Roma, un'inutile provincia del regno di Dio". Davvero pregevole. Si respira appieno l'atmosfera storica ed i grandi valori che la contraddistinguono.
- Splendida narrazione. Le due figure dell'Imperatore e del Vescovo grandeggiano, seppure entrambe avvolte in un'infinità ben più grande, che rispecchia Dio. Stupenda la metafora "Roma, un'inutile provincia del regno di Dio". Davvero pregevole. Si respira appieno l'atmosfera storica ed i grandi valori che la contraddistinguono.
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