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Il grande manutentore
Avere cura del mondo
è un po' avere cura di noi stessi.
Suiish... suiiissh... suiiiisssh... la pialla scivolava leggera lungo il telaio della vecchia e malandata finestra, che sembrava gemere di piacere, distesa sui due possenti cavalletti di quercia. Nel suo ampio scorrere, lieve come l'andirivieni di un'altalena, liberava nell'aria minuscoli trucioli che scendevano a rallentatore. Erano passati sei lunghi anni dall'ultimo restauro. E adesso, entrata da tempo nella sua terza età, si abbandonava alle amorose cure di Sebastian, che l'avrebbe restituita di lì a poco ad una umile ma dignitosa vita. Alla funzione di prodiga dispensatrice di aria e tenace barriera contro le intemperie.
Sebastian era nato più di cinquant'anni addietro, in una modesta famiglia che viveva alla periferia di una piccola città. Oggi era un affermato imprenditore. Dalla sua fabbrica usciva un prodotto unico al mondo. Nessuno, nonostante i tentativi dei migliori cervelli del pianeta, era ancora riuscito a copiarne o replicarne la funzione seppur lontanamente. Ma di questo avremo modo di parlare in seguito.
Fin da bambino, Sebastian, dopo aver attraversato d'un balzo il periodo "distruttivo" in cui, specie i maschi, sventrano e sbudellano con piglio sadico ogni cosa che passa loro per le mani, presi da una pulsione esplorativ-cognitiva, raggiunse assai prima degli altri quello stato di grazia che si chiama "rispetto delle cose". E che porta, o almeno dovrebbe portare, come conseguenza diretta, al rispetto dei propri simili. Nei casi più felici, di tutti gli esseri viventi e del mondo circostante.
Non che la curiosità per i misteriosi meccanismi e le fantasiose architetture che gli oggetti celavano lo avesse abbandonato del tutto, ma era stata ampiamente superata dal piacere di godere della loro funzione. Ogni oggetto, dal più semplice al più complesso, dal più umile al più prezioso, aveva una sua sacralità che non andava violata. Anzi andava preservata: manutenendolo e serbandolo integro il più a lungo possibile. Solo così avrebbe adempiuto nel tempo alla sua funzione. Anche se puramente estetica. Insomma Sebastian conosceva l'importanza del rispetto. Non solo per le persone ma anche per le cose.
In parte questo derivava dall'insegnamento dei genitori. Non perdevano occasione per ricordargli che le relazioni umane andavano alimentate e manutenute come il bene più prezioso. E, per quanto riguardava le cose, dal fatto che in casa c'era penuria di tutto, in particolare di giocattoli. Per cui il poco che entrava era conservato con particolare riguardo. E, infine, e questa era la ragione principale, perché era fatto così. Per quel misterioso motivo per cui uno nasce buono e uno cattivo. Uno avaro e uno generoso. Uno tonto e un altro sveglio.
Suo padre e sua madre si tiravano il collo da mattina a sera per procurarsi quel tanto che potesse sfamare cinque bocche, vestirle e farle studiare. Una vita sobria e dignitosa. Molto essenziale. Le cose più utili erano un lusso. Figuriamoci il superfluo! Oltretutto quel poco di extra che entrava in casa era di seconda, terza, spesso quarta mano. Spessissimo di recupero. Per cui, nove su dieci, richiedeva un accurato restauro. Basti pensare agli interventi sui vestiti che dovevano servire diverse generazioni: dal più grande al più piccolo; o a quella bicicletta trovata abbandonata nella scarpata della discarica che, con l'aiuto di suo padre, Sebastian aveva rimesso a nuovo, e teneva con una cura inconsueta per un bambino. Di tanto in tanto oliava la catena, registrava i freni, cambiava un raggio, serrava i mozzi, rappezzava i copertoni... insomma: la manuteneva. Senza morbosità o attenzione maniacale. Solo quel tanto, spesso poco ma fondamentale, che richiedeva per non decadere. Sì, sembrava proprio che Sebastian conoscesse più di ogni altro suo coetaneo il valore delle cose. La fatica che la maggior parte della gente doveva fare per procurarsele. Ma probabilmente era solo, come ho già avuto modo di dire, un atteggiamento istintivo. Innato.
Un giorno, di ritorno da scuola, si fermò attirato da una piccola insegna di latta verde, con fregi floreali e scritte in oro che dicevano: Mastro Ramirez ridà la vita ad ogni oggetto. Fu colpito da quella frase, ma soprattutto da quell'articolo. Era un bambino intelligente e sensibile: quell'articolo "la", prima della parola vita, dava al tutto un significato più profondo. Esistenziale, avrebbe detto, se solo fosse stato più avanti con gli studi. L'importante comunque fu che ne percepì il senso. Attraversò la via e si trovò davanti ad una piccola vetrina. Sapete una di quelle che non arrivano a terra. Come una finestra. Solo un po' più larga. Dentro c'erano alcuni oggetti: vecchi ma dall'aspetto integro. Una fisarmonica dall'imponente e vistoso corpo di madreperla rosa. Una vezzosa lampada Liberty, con il suo paralume multicolore come i vetri delle cattedrali. Un orologio a carica manuale, incastonato tra due putti di ottone con tanto di arco e freccia, sotto una grande campana di vetro ben restaurata. Una bambola con una testa tutta boccoli dorati e le gote rubizze leggermente segnate dal tempo. E infine, proprio davanti, in basso, una locomotiva di latta nera e verde, con lievi ammaccature ben riprese, e una chiavetta con due enormi "orecchie" a sventola che usciva da un fianco. Una targa a lato indicava che si entrava dal cortile interno. Varcò il portone, percorse l'androne, girò a destra e si trovò davanti ad una porta a vetri. Senza pensarci su due volte, irresistibilmente attratto da una forza misteriosa, l'aprì: un leggero scampanellio inondò la grande stanza dalle pareti completamente bianche.
Nell'aria c'era un leggero odore di colla, vernice, acqua ragia, misto a olio paglierino, aceto, e limone. Nonostante fosse piena zeppa, ovunque regnavano ordine e pulizia. Il bancone che gli stava di fronte era così alto che non riusciva a vedere al di là. Appoggiata al bancone una cliente stava parlando con un vecchio. Era magro, alto, brizzolato. Il viso aveva lineamenti fini. Un paio di occhialini tondi con la montatura dorata gli incorniciava due occhi azzurri, profondi come il mare. Più che un artigiano sembrava un professore. Autorevole e distinto, ma non severo. Proprio così: avrebbe potuto essere un insegnante delle superiori, non fosse stato per quel grembiule nero da bidello di scuola. Per un attimo l'uomo guardò Sebastian, accennò un sorriso, poi tornò a rivolgersi alla cliente. Un'elegante signora della buona società. Parlava a raffica con voce un po' chioccia. E, da come si esprimeva, non doveva certo essere un mostro di simpatia, pensò Sebastian. Tra i due c'era una scatolina di un bel legno intarsiato, col coperchio aperto. A malapena, allungandosi un po', Sebastian riuscì a intravvedere una ballerina con tanto di tutù e scarpette bianche. Sembrava proprio un carillon. Finalmente la donna interruppe quel flusso scomposto di parole e se ne andò, lasciando una lunga scia di profumo che turbò l'atmosfera della stanza e i suoi caratteristici odori. L'uomo richiuse la scatola e scomparve. Dopo un attimo tornò, e sporgendosi dal bancone: - Allora giovanotto... cosa posso fare per te?
La domanda era di circostanza, perché aveva capito benissimo che Sebastian era stato spinto da qualcosa che andava ben oltre la semplice curiosità. Ma si disponeva a scoprirlo poco a poco. Anzi, voleva che fosse il bambino a dirlo. Dopo averlo messo bene a fuoco lui stesso. Perché al momento sembrava in preda ad una sorta di magia. Stregato da quel mondo. Da tutto quel bendidio che eccitava la sua fantasia.
Sebastian si guardava attorno estasiato, senza articolare un suono. Tutto preso a ispezionare ogni oggetto nelle vetrinette di fronte al bancone. Non ne aveva mai visti così tanti tutti insieme, e soprattutto così diversi, da quando era nato. L'uomo, che doveva essere il Mastro Ramirez dell'insegna, tirò verso di sè lo sportello a molla del bancone e gli fece cenno di entrare.
- Io sono Ramirez... Augusto per gli amici... e tu?
- Io... io mi chiamo Sebastian. Sebastian per tutti!
- Bene, Sebastian... quel giovane seduto laggiù, vedi quello che sta incollando il braccio alla statuina di Santa Teresa... lui è Pedro.
Pedro, tutto intento in quell'operazione, non fece una piega. Non per scortesia, ma perché ogni volta che iniziava un lavoro veniva preso, come suol dirsi, anima e corpo. Si estraniava dal mondo. Completamente rapito. Poteva crollare il palazzo che non avrebbe fatto una piega.
- È un bravo ragazzo... - si sentì in dovere di aggiungere Ramirez - Diventerà un bravo artigiano. Forse meglio del suo maestro, se avrà la costanza di continuare su questa strada... - Poi, appoggiandogli una mano sulla spalla - E tu dimmi, Sebastian, cosa fai, cosa ti interessa, oltre giocare alla pelota coi tuoi compagni. Sebastian, istintivamente, senza pensarci: - Mi piacciono gli oggetti... un po' tutti, prendermi cura di loro e, quando serve, ripararli.
- Me lo immaginavo. Appena ho visto come scrutavi ogni cosa mi sono detto: questo ragazzo è dei nostri! Gli si legge in faccia! Adesso ti faccio vedere alcuni oggetti che abbiamo restituito a nuova vita e di cui siamo, Pedro ed io s'intende, particolarmente orgogliosi.
Tutt'un tratto, Ramirez aveva assunto un'aria ufficiale. Professionale. Una via di mezzo tra un rappresentante di preziosi e una guida del museo comunale.
- Questa macchina per il caffè espresso è quella del Bar di Piazza Major. Abbiamo dovuto smontare la caldaia di rame, otturare un foro, e saldare a stagno una piccola crepa. Poi, il portacaffé... era caduto e l'impugnatura si era spezzata in due.
Afferrò il pezzo, lo avvicinò al viso, alzò gli occhiali sopra la fronte, e con lo sguardo percorse la superficie di bachelite a riprova che non si vedeva più la giuntura.
- Abbiamo inserito fra i due tronconi un'anima di metallo e li abbiamo uniti, incollati e lucidati... ed ecco qua, come ti sembra?
- Perfetto! - disse Sebastian, sgranando gli occhi.
- Questa macchinina a pedali vorrebbe assomigliare a una De Soto... insomma, con un po' di fantasia... comunque: sono stati saldati questi due tiranti della pedaliera ed è stata completamente stuccata e riverniciata con due mani di rosso, sopra uno strato di antiruggine. Appartiene al figlio di un notaio. È qui, pronta per essere ritirata, da alcuni mesi. Forse se ne è dimenticato. Capita a chi ha troppo. Peccato!
Sebastian era colpito, più che dall'oggetto, dalla cura e precisione con cui l'auto era stata rimessa a nuovo.
- Ed ecco il barometro della Signorina Vazquez, quell'anziana maestra leggermente claudicante che probabilmente conosci. Le era caduto dal buffet... la donnina con l'ombrello si era staccata, mentre il budello di pecora che reagisce alle variazioni del tempo si era spezzato. Disperata fino alle lacrime, continuava a ripetermi: - Sa, è un souvenir della Svizzera, un souvenir della Svizzera! Povera me! - Per la donnina... è stato un gioco da ragazzi... una goccia di mastice speciale e via. Quanto al budello, abbiamo avuto il nostro bel da fare a recuperarne un altro. Come potrai immaginarti a volte non si sa come venirne a capo, ma poi si aguzza l'ingegno e... questo è il bello del mestiere! - disse, pronunciando l'ultima frase con tono appassionato.
- E adesso, squillino le trombe: il nostro capolavoro! - esclamò, con gli occhi che gli brillavano, indicando con tutte e due le mani aperte un vecchio registratore di cassa meccanico. Di quelli con il corpo in ghisa color argento, pieno zeppo di fregi floreali in rilievo, che Ramirez definì con una certa enfasi "ramage", invitando Sebastian ad avvicinarsi per osservarli da vicino. Sebastian annuì, facendo finta di aver capito quella strana parola che veniva da chissà dove. - Questa Caixa Registradora National è del grande magazzino di Calle Gutierrez. Un giorno si è bloccata. Non ne voleva più sapere di battere un prezzo. Hanno interpellato il rappresentante, che ha diagnosticato la rottura di un pezzo ormai introvabile. Allora ce l'hanno portata quasi senza speranza. Per Sant'Isidoro! Sembrava davvero un'impresa impossibile! L'abbiamo smontata e scoperto che i guasti erano due. Una ruota dentata che aveva perso tre denti, e una barretta che era uscita dalla sua sede. Per la barretta non c'è stato problema... quanto alla ruota dentata, niente da fare: il dentista era scappato il giorno prima in Sudamerica con l'infermiera... - disse prima serio e poi, d'improvviso, ridendo di gusto alla sua stessa battuta - Devi sapere che qui si scherza di tanto in tanto. Come si dice: un po' per celia un po' per non morir. Dove eravamo rimasti? ah, sì, la ruota sdentata. Pedro ha avuto l'idea di farne un calco, poi uno stampo e, con l'aiuto di suo padre fabbro, ne abbiamo ottenuta una nuova di zecca. Che ne pensi?
- Incrediiibile! - disse Sebastian, rimanendo a bocca aperta, mentre Ramirez, dopo aver smontato un lato del registratore, ne mostrava fiero il meccanismo funzionante.
- E così per il filo della sintonia di questa vecchia radio di legno. Il braccio di questo grammofono a valigetta. E tanti altri interventi più o meno "arditi" . E, non ci crederai... - proseguì Ramirez - ... molte cose si guastano più per negligenza, maldestro utilizzo, mancanza di manutenzione che altro. Pensare che a volte basterebbe così poco... un po' di creanza, di garbo.
Vedendo che si stava facendo tardi, concluse: - Adesso credo sarà bene tu vada a casa. Cosa ne diresti, a tempo perso, di venire a darci una mano, con comodo, quando vuoi... sento che ci potresti essere d'aiuto. Eh, Pedro, cosa ne pensi, sei d'accordo di avere un assistente?
Pedro, che fino ad allora se ne era stato in silenzio, alla parola assistente, senza alzare gli occhi da Santa Teresa, si girò accennando un sorriso molto amichevole.
- Più che d'accordo, Mastro Ramirez, mi sembra un ragazzo sveglio e... soprattutto motivato. Come me. - Ridacchiò.
Il viso di Sebastian si illuminò. Non sperava tanto.
- Allora, Sebastian, adesso corri a casa, parlane coi tuoi e dormici sopra alcune notti. Poi ne riparliamo con calma.
Non è esagerato dire che l'incontro di quel giorno cambiò la vita di Sebastian, o meglio fece rapidamente evolvere l'innata predisposizione che egli aveva per la cura degli oggetti, fornendogli l'opportunità e i mezzi per un apprendistato che valeva più di un corso di specializzazione postuniversitario. Cos'altro avrebbe potuto desiderare di più? Benedetta quell'estemporanea sosta! Strabenedetta! Un vero segno del destino. Dal giorno dopo Sebastian, tre volte la settimana, invece di andare a giocare, nel pomeriggio, iniziò a frequentare la bottega di Mastro Ramirez. Per imparare l'arte della manutenzione, della riparazione, e del restauro degli oggetti. Spesso gli amici lo prendevano bonariamente in giro.
- Vai... vai... vai a bottega. Corri dall'aggiustatutto, vedrai che ti rimette a posto lui! Una passatina di colla, e ti fisserà le orecchie alla testa, così correrai più veloce... ah, ah, ah... al lavoro! adelante! march!
Per anni non mancò mai una volta. Grandinasse, nevicasse o cascasse il mondo. Per lui non era un lavoro: era un piacevole impegno: una sorta di appassionante doposcuola. Un modo per imparare divertendosi. E oltretutto guadagnava anche qualche soldo. Il che non guastava. In più, alla fine di ogni mese, Mastro Ramirez gli confezionava un pacchetto con un po' di barattoli e boccettini: - Ecco qua, per il nostro piccolo manutentore! - come gli piaceva sottolineare con enfasi ogni volta, sorridendo compiaciuto per la sua allusione al Piccolo Chimico, gioco che furoreggiava in quegli anni, insieme al Meccano. Questo durò per tutte le elementari, le medie e parte delle superiori. Se Mastro Ramirez non fosse morto, forse sarebbe continuato fino alla fine degli studi e poi chissà! L'attività fu proseguita da Pedro, che ricevette il negozio in eredità, alla sola condizione che se Sebastian, da grande, avesse deciso di fare l'artigiano, avrebbe dovuto prenderlo come socio. Ma Sebastian, per quanto amasse quel lavoro, sentiva di essere destinato ad altro.
Il gruzzoletto che si era fatto durante quegli anni gli consentì, alla fine del liceo, di iscriversi all'università: facoltà di Ingegneria. Si laureò senza strafare. Studiava per passione. Per conoscere, per capire, non tanto per il voto. Fu in quegli anni che, notte dopo notte, tra il restauro di una sedia, la pulizia di una pendola, un'oliatina ad una serratura, l'eliminazione della goccia da un rubinetto, mise a punto il progetto che lo avrebbe reso ricco, famoso, ma soprattutto realizzato e contento. Contento di aver fatto qualcosa in sintonia col suo modo di essere e di pensare. Qualcosa che serviva a lui, ai suoi cari, e alla comunità. A chiunque si trovasse sulla stessa lunghezza d'onda. Che condividesse la stessa filosofia di vita. Perché il suo rispetto per gli oggetti, il desiderio di mantenerli efficienti, non aveva nulla di morboso, di feticistico, era una sorta di empatia, una relazione molto simile a quella che aveva con le persone. Non così intensa ma dello stesso segno. In un mondo dove ormai il consumismo portava alla rapida sostituzione e all'abbandono, spesso prematuro, degli oggetti, Sebastian sentiva che bisognava porre un freno, rallentare questa tendenza o, magari - utopia delle utopie - suggerire un altro modello di sviluppo. Bisognava educare le nuove generazioni, insegnare loro che non tutto poteva essere ridotto a "usa e getta". Altrimenti il rischio era che, presto o tardi, la stessa cosa sarebbe potuta accadere nelle relazioni umane. Coi sentimenti. Gli affetti.
E così, nonostante fosse diventato ormai un uomo importante, eccolo dove lo abbiamo lasciato all'inizio del racconto: in un capannone dietro casa, intento a restaurare la vecchia finestra. Una passione, quella della manutenzione, che non lo aveva mai abbandonato. Anzi che aveva coltivato, più che come hobby, come una sorta di dovere. Un segno di civiltà, di responsabilità. Faceva parte del suo essere parte di questa terra. Membro della comunità umana. Quando gli impegni glielo permettevano, si chiudeva lì, fra torni, frese, trapani, cavalletti, colle, vernici, e mille strumenti di precisione, e passava un po' di tempo a prendersi cura di un serramento o un attrezzo da giardino; del piede di un tavolo o di un interruttore; di una guarnizione consumata o della lucidatura di un mobile; del tacco di una scarpa o della lubrificazione del vecchio orologio da taschino ereditato dal padre. Anche i figli, ormai grandi, condividevano i suoi principi: ogni oggetto ha la sua vita, che va preservata il più a lungo possibile. Almeno per tutto il tempo per cui è stato concepito. Per il resto si dedicava a sua moglie, ai figli, ai nipoti, e all'azienda che aveva messo in piedi con grande successo: la Sebastian. E da cui usciva un solo prodotto. Unico al mondo. In cui aveva concentrato gran parte dei suoi sogni, del suo essere. Della sua visione della vita.
Si trattava di una sfera di legno massiccio, con la superficie durissima e variamente corrugata. Di colore molto scuro. Una mano, per quanto grande, non riusciva a afferrarla tutta. Era racchiusa in una solida scatola e affondata in un piano di legno più chiaro, da cui emergeva per metà. Come una sorta di mappamondo che mostra solo un emisfero. Bastava appoggiare il palmo della mano sulla superficie della sfera, muoverla a seconda del proprio stato d'animo, che trasferiva vibrazioni più o meno intense. Dipendeva dal momento. Dalle condizioni di spirito e di salute dell'individuo. Non faceva miracoli. Per quanto qualcuno lo credesse. Si basava su di un principio di interazione. Bioscambio di energie. E aveva solo la funzione di armonizzare il soggetto con il mondo. Metterlo in contatto con energie positive. La "scatola" non si poteva smontare. Ogni tentativo di romperla per carpirne il segreto aveva avuto il solo effetto di ridurla in tanti di quei pezzi che nessuno era mai più riuscito a ricomporre il tutto. Anche i più abili e ostinati appassionati di puzzle ci avevano rinunciato. Si trattava di un meccanismo di legno, dove ogni pezzo era fatto a mano e assemblato con cura certosina, e il cui funzionamento continuava, dopo anni, ad essere un mistero per tutti. Quanto al prezzo, basti sapere che non era a buon mercato. Anche se la Sebastian, ditta individuale che impiegava alcune migliaia di dipendenti - tra impiegati, commerciali e operai specializzati - regalava la "scatola" ad ogni persona che ne facesse richiesta senza potersene permettere l'acquisto. C'era un intero reparto dedicato che aveva il compito di accertare l'effettivo stato di indigenza e provvedeva alla spedizione. In qualsiasi angolo del pianeta. La "scatola" era personale. Ogni coperchio aveva fregi, intarsi e inserti colorati, diversi uno dall'altro, opera dei migliori ebanisti. Così da farne un raffinato pezzo unico. Una volta che l'acquirente appoggiava la mano sopra la sfera, il meccanismo si metteva in moto e si tarava sulla persona. Se non mantenuto a dovere, il tutto diveniva inservibile in poco tempo. Fino al momento in cui collassava. Come un albero senza radici. Senza più linfa né anima. Il cartiglio interno, scritto a mano da Sebastian in persona, diceva: Questo oggetto, se ne avrete cura, vi accompagnerà per tutta la vita. Vi manterrà in sintonia con il mondo, dandovi sollievo, equilibrio e buona energia. Basterà versare periodicamente due gocce dello speciale liquido in dotazione dentro il piccolo foro che si trova sulla destra della superficie piana. Nient'altro. La mancata manutenzione porterà, alla lunga, al blocco totale del meccanismo, che non potrà più essere ripristinato. Che possiate vivere in armonia.
Sebastian.
Questa sorta di scatola magica, che veniva venduta senza pubblicità, ma solo grazie al passaparola e alla cassa di risonanza dei media, aveva un nome che Sebastian stesso aveva partorito durante una lunga notte di veglia. Solo a pronunciarlo disponeva l'animo alla positività. Era come una boccata d'aria fresca. Si chiamava: El Respiro de la Tierra. Ma quasi tutti, in omaggio al suo inventore e costruttore, la chiamavano ormai confidenzialmente: El Sebastian.
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