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IL FIGLIO DELLA TIGRE.
Lentamente i granelli di sabbia si disponevano sul fondo della clessidra. Per infinite volte si girava su se stessa per sottolineare quell’incedere costante del tempo. In altri posti, lontano da Guadalavez, l’alternarsi delle stagioni scandisce il ritmo della vita, a Guadalavez neanche quello. Il clima è costante, immune ai cambiamenti di questo mondo. Come se la città fosse vaccinata contro tutto e contro tutti. Indenne, nella sua perenne decadenza. Quando i padri fondatori posero le prime pietre il destino della città era già segnato. Si narra che la tribù india che generò la città fece un incantesimo per renderla immortale. I più anziani raccontano che tanto tempo prima, nessuno sa quando, un uccello dalle piume di fuoco guidò una tribù di indios attraverso la foresta; e si posò su una roccia, pietrificandosi. Fu lì, ai piedi della roccia, che al calar del sole lo sciamano incominciò la sua danza rituale. Fu accesa una pira alle pendici del masso sacro; e alte fiamme si levarono fino alla sommità, quasi a lambire l’uccello pietrificato; le punte delle fiamme sembravano voler riaccendere le sue piume; e intorno al fuoco gli indios cantavano antiche nenie, bevendo distillati d’erbe fino allo stordimento. Le figure si confondevano con il tremolio delle fiamme e le donne danzavano sopra i corpi degli uomini trascinandoli in un’orgia confusa di sensi. Al primo raggio di sole lo sciamano mise fine alla danza tribale, prese con sé l’ultimogenito della tribù, un maschio di giovane età, e lo condusse in cima alla roccia, al cospetto dell’uccello di pietra. Lo mise in ginocchio e lo uccise, pronunciando frasi in una lingua conosciuta solo dagli dei. Il sangue del ragazzo colava sulle fiamme mentre tutti sotto stavano a guardare, in un silenzio irreale, rotto solo dal crepitare del fuoco. Le fiamme, invece di assottigliarsi, sembravano nutrirsi di quella sacra linfa; l’uccello di pietra colorò le sue piume col rosso di quel sangue, si rianimò, e volò via in una scia di fuoco, portando via con sé l’anima del ragazzo. Il nome di quel ragazzo era Guadalavez.
Nessuno sa quanto tempo passò da allora; forse è dalla notte dei tempi che la leggenda di Guadalavez si trascina nel corso dei secoli. Il sacrificio del giovane avrebbe dovuto preservare la tribù dalle ire degli dei e dalle avversità del futuro. Invece, il futuro arrivò puntuale, portando con sé il suo esercito di imprevisti: gli spagnoli, la guerra civile, imprenditori americani senza scrupoli e avventurieri di ogni tipo.
Forse la città fu fondata da un insediamento di spagnoli; forse avevano sterminato la tribù india e dato così origine ad una città figlia dei conquistatori, o forse si erano uniti con gli indios, generando una stirpe meticcia; ma ormai era passato troppo tempo per ricordarne la vera origine. Una cosa era vera: tutti gli avvenimenti che nel corso del tempo si avvicendavano, galleggiavano nel limbo di memorie incerte. Nessuno ricordava bene, o a nessuno interessava ricordare. Solo a questo servì la stregoneria dello sciamano: a immobilizzare le coscienze degli abitanti di Guadalavez. Imperturbabili fantasmi, abitanti di una città fantasma, subivano il destino che la vita gli aveva assegnato senza tentare mai un moto di ribellione. Quando qualcuno cercava di riemergere dalla nebbia, la città allungava la sua mano invisibile e lo trascinava giù.
Ci aveva provato Felicia. Quando pensò che, forse, solo per una notte, avrebbe potuto trasformarsi in preda, cedere al compromesso. Lei, la figlia della foresta, nata per essere regina, il fiero animale che nessun uomo aveva mai catturato. Felicia, la donna che quando attraversava la piazza toglieva le parole di bocca a chiunque. Lei, perenne sospiro, anelato desiderio, l’umile regina che invece era solo una serva, la serva di una delle famiglie benestanti della città.
Non era di certo una donna comune, forse nel suo sangue risuonava ancora l’eco lontana di un popolo ormai estinto, forse era l’unica vera discendente della tribù che sacrificò il giovane Guadalavez, o forse niente di tutto questo; forse il suo incedere altezzoso, fiero, testa alta e sguardo dritto, sempre l’ultimo ad abbassarsi, celava una fragilità ben nascosta.
Eppure ci aveva provato Felicia, illusa dalle parole che sentiva in giro, dalla prospettiva che un giorno, se avesse avuto il coraggio di lasciarla; Guadalavez, avrebbe potuto vivere veramente come una regina. Per una sola notte si sarebbe trasformata da tigre in gatta, se il comandante avesse mantenuto la promessa avrebbe scavalcato l’immensa burocrazia dei visti, dei permessi, e avrebbe lasciato la città. Il comandante la tradì, invece, si prese gioco di lei e non tenne fede alla parola data. Il ricordo della saliva del comandante sulla sua pelle, delle sue mani sudate che violavano il suo corpo erano ancora vivi dentro di lei. Ma quello che le dava più fastidio era il ricordo dei suoi stivali sporchi di fango nella sua umile casa. Quel bastardo non aveva avuto neanche l’accortezza di sfregarli sullo zerbino all’uscio prima di entrare.
La tigre meditava la sua vendetta che puntualmente avvenne. Il comandante lasciò la città per sempre, una zampata della tigre lo spedì sul fondo del mare, dove la corrente lo trascinò chissà dove. Decise che mai più avrebbe abbassato la guardia e che prima o poi avrebbe lasciato Guadalavez. Era una donna Felicia, giovane ma era una donna, e non ci mise tanto a capire che il comandante non era scomparso del tutto; qualcosa in cambio per quella notte di amore rubato le era stata data. Partorì Diego nello stesso letto dove era stato concepito. Nessun rammarico per quel bambino inatteso; e nessuno per il comandante, naturalmente. Felicia accolse Diego come un regalo del destino, portò avanti la gravidanza con immensa forza e fierezza, continuando ad attraversare la piazza come aveva sempre fatto, a testa alta. Nessuno seppe mai chi fosse il padre, anche se in molti se lo chiedevano, ma in sua presenza nessun commento sarcastico e nessuna mancanza di rispetto. Tutti sapevano che Felicia, la serva, dentro di sé era una tigre. E se solo lei avesse voluto, molti uomini della città si sarebbero precipitati per fare da padre a Diego; sarebbe stato forse l’unico modo per passare tutta la vita accanto a lei. Il piccolo Diego era nato, perché il destino, quando ha voglia di giocare a Guadalavez, gioca pesante. E Felicia decise di giocare.
Diego percorse i suoi primi anni di vita sotto le amorevoli cure della madre, aiutata anche dalla famiglia presso la quale prestava servizio, che lo aveva accolto come un dono divino. Il piccolo Diego trascorse un’infanzia come tutti i bambini: tra pianti, giochi, sorrisi, sbucciature di ginocchia e solite coliche. Nei tratti del viso si incominciavano a delineare, pian piano che cresceva, quei lineamenti che ricordavano assolutamente sua madre: una bella carnagione bruna, lucente, folti capelli ricci e tratti del viso delicati, taglienti ma delicati; e gli occhi, quella luce, quello sguardo così animalesco, occhi così profondi e neri che si faceva quasi fatica a guardarli.
Cresceva Diego, e cresceva bene. Da subito in lui si poteva riconoscere anche il carattere della madre: forte, ostinato, intelligente, fiero e scaltro. Riuscì bene negli studi, cosa alla quale la madre teneva in particolar modo, e man mano che cresceva, il suo modo di fare gli fece guadagnare il rispetto dei suoi coetanei e non solo. Era sempre cortese con tutti, ma non chinava mai la testa, riconosceva i suoi torti, ma era pronto a menare le mani quando sapeva di avere ragione. Tutti lo conoscevano in città, soprattutto le ragazze. Ormai era diventato un uomo, dal fisico possente, lucenti capelli corvini e uno sguardo che imbarazzava. Capì presto che nessuna ragazza della città avrebbe potuto resistergli e, con la consapevolezza di essere un animale predatore, imparò presto che i suoi occhi erano la miglior trappola per le sue prede. Non mancò di inciampare in qualche inconveniente. La madre gli aveva detto di lasciare perdere le donne altrui, soprattutto quelle sposate, ma che ci volete fare? Quale eccitazione migliore per un ventenne di farsi sedurre da una esperta e prosperosa donna di quasi quindici anni più grande di lui e che, in più, è la moglie del sindaco della città? Fortuna volle che la rabbia del sindaco gli fece tremare la mano al momento dello sparo. Diego, qualche secondo prima l’irruzione del marito della bella signora nella camera da letto, era saltato giù dalla finestra e si dileguava di corsa tra gli arbusti; la luna, però, aveva deciso di stare a guardare, illuminando quell’animale in fuga. Fu un vero miracolo se quella rosa di pallini da caccia gli si infilarono solo nel deretano. Ci pensò Felicia a tirar via da quelle chiappe sode tutti i pallini uno per uno, e a curargli tutti i graffi che si era procurato, fuggendo nudo tra gli arbusti. Per un’intera settimana Felicia non gli rivolse la parola. Capì immediatamente quello che era successo quando Diego entrò in casa con l’aspetto di un giovane animale ferito. Felicia fece partire due ceffoni che Diego sorbì senza alzare lo sguardo. Non aggiunse altro, e Diego imparò la lezione.
Erano passati più di venti anni dal giorno in cui la tigre mise al mondo il suo cucciolo. Il suo aspetto resisteva bene agli ostinati e impietosi attacchi del tempo e i suoi occhi brillavano ancora della stessa fiamma ardente dei tempi della gioventù. Ma il tempo, si sa, non rallenta mai la sua corsa. Passa invisibile, creando speranze e concedendo illusioni, ma ha incaricato il suo amico destino di girare puntualmente la clessidra. E ogni volta che l’ultimo granello di sabbia si posa sul fondo, il tempo stende un nuovo, leggero, quasi impercettibile velo sopra ogni uomo. Fino a quando, il peso dei tanti veli sovrapposti incomincia a farsi sentire, e solo allora ci si rende conto dell’inganno. Felicia ormai incominciava a sentire i suoi, tutti quelli che il tempo, dopo più di quaranta anni, le aveva donato. Ma non le importava più di tanto, le importava solo di Diego, vedeva in lui la speranza del suo riscatto. Anzi, forse sarebbe stato proprio Diego, un giorno, a portarla via da Guadalavez.
Perfino le lucertole si sottraevano alla calura pomeridiana, cercavano riparo sotto i sassi o sfuggivano agli implacabili raggi di sole nascondendosi tra gli anfratti più in ombra delle case. Il pomeriggio imponeva il silenzio e la città si ritirava dietro gli scuri delle finestre, dove un velo d’ombra si stendeva sulle pareti delle stanze, e solo il ronzio dei ventilatori si univa al canto dei grilli e delle cicale. Là fuori, per strada, brevi aliti di vento sollevavano di tanto in tanto manciate di polvere e, nascoste dall’accecante bagliore del sole, alcune scaramucce tra scorpioni o fulminei morsi di crotalo testimoniavano che la vita e la morte non si concedono pause.
Diego trascorreva le ore della siesta come tutti in città. Il lento oscillare della sua amaca sotto il soffio del ventilatore gli concedeva un’illusoria sensazione di fresco e, prima di abbandonarsi al sonno pomeridiano, dedicava sempre un po’ di tempo alle letture. Teneva in mano un romanzo che narrava le avventure di un cavaliere folle, che a cavallo del suo destriero tentava imprese impossibili, rincorso sempre dal suo scudiero, che mille volte più saggio, in maniera disperata, cercava di riportarlo alla ragione. Diego leggeva quelle pagine avidamente e con curiosità e ogni tanto si lasciava scappare qualche sonora risata, provocata da qualche stramberia del cavaliere. Ma quando le righe si sovrapponevano, e le parole si mischiavano, qualsiasi tentativo di resistenza era perfettamente inutile. Il libro gli scivolava lentamente dalle mani e andava a cadere per terra, mentre il sonno, ormai, si era impadronito della sua volontà. Diego non era immune ai sogni, come tutti del resto, e nei suoi sogni cercava risposte alle domande che la vita gli poneva. Riceveva visite inattese durante il sonno pomeridiano: belle ragazze gli sorridevano e a volte ci faceva l’amore; il cavaliere folle gli urlava frasi sconclusionate inseguito dal suo scudiero e Felicia gli regalava sorrisi. A volte, sognava il mare, nero, increspato di una schiuma violenta che gli turbinava intorno, come quella di un cane rabbioso, e a volte tra quei flutti maligni gli pareva di intravedere le sembianze di un uomo. D’un tratto l’uomo gli si avvicinava e Diego riconosceva in lui il volto dell’ex rivoluzionario Da Silva che, guarda caso, anche lui faceva di nome Diego. Allora il suo sogno si faceva più sereno, e il volto di Diego Da Silva lo accompagnava dolcemente verso il risveglio.
Diego conobbe il rivoluzionario quando aveva più o meno sedici anni, quando incominciò a lavorare nella taverna di Manuel Mendoza come garzone. Dopo le calde ore della siesta prestava servizio nella taverna per qualche ora. In quel periodo Guadalavez era percorsa da un insolito fremito, forse l’avvento degli americani giunti per estrarre il petrolio aveva dato una scossa illusoria alla città, fatto sta che la taverna era abbondantemente frequentata e Mendoza aveva bisogno di una mano. Mendoza ritenne Diego la persona adatta: svelto di intelletto, cortese ed educato, forte abbastanza da sollevare di peso qualche avventore molesto e ubriaco per poterlo sbattere fuori dal locale, ma soprattutto, un ragazzo onesto di cui ci si poteva fidare. Tra una birra gelata e un’acquavite Diego scambiava qualche parola con gli avventori, tra i quali spesso si trovava Da Silva, il rivoluzionario. Diego aveva già sentito parlare di lui, ma non aveva ancora avuto l’occasione di parlarci; e anche da Silva conosceva Diego in maniera indiretta. I due ebbero occasione di conoscersi una sera che la taverna era quasi vuota, e si poteva perdere del tempo a fare due chiacchiere. Da Silva disse a Diego che conosceva quella brava donna della madre, sapeva che anche lui era un bravo ragazzo, e sapeva anche che era andato a scuola. Diego sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi e rispose che anche a lui, nonostante la giovane età, erano arrivate le voci delle gesta del rivoluzionario Da Silva: di quando mise al tappeto la guarnigione e della fama dei suoi galli da combattimento. Iniziò così una buona amicizia. Diego, quando poteva, andava a trovare Da Silva. I due parlavano delle cose del mondo e Da Silva, sul mondo, di cose da dire ne aveva tante. Diego ascoltava attentamente, faceva domande e diceva la sua, senza timore di dire stupidaggini. Parlavano di rivoluzione, di donne, di galli da combattimento e di ogni cosa gli passasse per la mente. Il legame tra i due diventava sempre più forte. Da Silva vedeva in Diego la febbre sana della sua gioventù e forse quel figlio che non aveva mai avuto e che ogni uomo sarebbe stato orgoglioso di avere; e Diego, forse, aveva trovato un padre, quel padre che non aveva mai avuto, e che ogni figlio sarebbe stato orgoglioso di avere.
Felicia da tempo si era preparata a quel momento, più volte dentro di sé aveva costruito mille storie da raccontare a Diego, quando sarebbe stato il momento, sulla vita di suo padre: una volta era un marinaio che il mare, in un giorno di tempesta, decise di non restituirgli più; un’altra era un commerciante che, in viaggio per affari, era stato ucciso dai banditi, nel tentativo di rapinarlo, oppure un cacciatore che diventò preda di un grosso giaguaro e di lui rimasero solo il fucile e gli stivali che l’animale trovò poco digeribili. Era dibattuta tra l’idea che suo figlio ricordasse il padre mai conosciuto come un martire, un eroe o un uomo qualunque. E poi, nessuna foto, nessuna lettera testimoniavano un briciolo di esistenza di questa persona. Mentre il ragazzo cresceva le sue domande sul padre si facevano sempre più insistenti e le risposte di Felicia sempre meno evasive. La storia del marinaio alla fine prevalse: un giovane marinaio, bello e coraggioso che, poco dopo l’inizio di una promettente storia d’amore, sparì in una notte di tempesta, soffocato da un abbraccio troppo vigoroso di quel mare tanto amato. Pochi ricordi, nessuna foto, nessuna lettera, un idillio troppo breve e una sola certezza; un figlio. Di questo Diego si accontentò per il resto dei suoi anni. I suoi incontri con Da Silva procedevano regolarmente e il rivoluzionario a un certo momento si ritrovò a frequentare abbastanza spesso la dimora di Diego. Accadde che Diego un giorno dimenticò dei libri a casa di Da Silva, il quale pensò che sarebbe passato lui a portarglieli. Diego non gli avrebbe certamente negato un buon caffè. Naturalmente, dentro di sé Da Silva celava anche la curiosità di sapere che volto avesse la splendida Felicia, non che non la conoscesse, ma era passato tanto tempo dall’ultima volta che la vide passare per le vie di Guadalavez. E lui non era uno che amava tanto sprecare il suo tempo in piazza, a perdersi nelle inutili discussioni di superficie sui soliti argomenti: chi aveva avuto ragione o meno nella solita rissa da ubriachi del sabato, le gesta amorose extraconiugali della moglie del sindaco, di cui tutti conoscevano i dettagli tranne il sindaco, oppure, quando andava bene, qualche discussione animata su un eventuale beneficio che l’estrazione del petrolio da parte degli americani poteva portare alla città. No, Da Silva non era fatto per queste cose. Preferiva impiegare il suo tempo in attente letture, discuterne con Diego, curare i suoi galli da combattimento e ogni tanto andare a bere un bicchiere di rum nella taverna di Mendoza.
Bussò due volte alla porta e, nell’attesa che qualcuno gli aprisse, stava con lo sguardo diretto verso le punte dei suoi stivali: lucidi come una grossa mela. Quando la porta si aprì due occhi severi e diffidenti gli chiesero cosa desiderasse. Da Silva si sentì spogliato di ogni forza e con un balbettio da adolescente sbiascicò due parole per presentarsi e spiegare il motivo della sua presenza sullo zerbino all’ingresso. Felicia lo osservò in silenzio, attentamente, da capo a piedi. Da Silva in quei pochi secondi si sentì tremare ogni muscolo e vampate di calore gli salivano dalle punte dei piedi, per disperdersi poi dalle orecchie. La donna, sempre senza rivolgergli la parola, gli voltò le spalle e rientrò, un sorriso divertito e maligno le illuminò il viso mentre chiamava Diego affinché ricevesse il suo ospite. Diego accolse Da Silva felice della sorpresa, lo invitò ad entrare nonostante Da Silva tentasse di scusarsi per l’improvvisata, notevolmente imbarazzato. Felicia avvertì lo sfregolio veloce degli stivali di Da Silva sullo zerbino e un’espressione di compiacimento le comparve sul viso. I tre bevvero un caffè in silenzio e ogni volta che Da Silva incrociava lo sguardo di Felicia pensava che se si fosse trovato di fronte ad un plotone d’esecuzione avrebbe provato meno imbarazzo. Invece, Diego insistette affinché l’uomo pranzasse con loro. La madre non disse niente in contrario, anzi, era incuriosita da quella presenza timida ed educata. Trovava diverso lo sguardo di Da Silva rispetto agli sguardi che normalmente riceveva dagli altri uomini. Accettò di buon grado quella presenza, che si fece ricorrente anche nei giorni a venire. Felicia era spesso presente durante quelle incursioni e assisteva incuriosita alle animate discussioni tra Diego e Da Silva, tanto che delle volte anche lei interveniva per dire la sua, soprattutto quando l’argomento era politico e si parlava della rivoluzione, del potere e delle miserie dei comuni mortali. L’india era analfabeta, vero, ma aveva una brillante intelligenza e capiva come girava il mondo. E si rendeva conto, mentre osservava il figlio, e quell’uomo, nelle loro appassionate discussioni, che era bello, piacevole, sentirli discorrere, mentre lei faceva le faccende di casa. Durante quegli incontri Felicia sentiva una sensazione di benessere, di calore. Cominciava forse ad avvertire il bisogno di un’altra presenza maschile accanto a sé, oltre quella di Diego.
Da Silva, dal canto suo, continuava a sentire le vampate di calore, ma questa volta non per imbarazzo o timidezza. Quando rientrava nella sua casa percepiva una forte sensazione di vuoto, i suoi libri, i suoi galli non gli bastavano più. Pensava tutto il tempo al momento in cui sarebbe riandato a far visita a Diego e, soprattutto, al momento in cui Felicia gli avrebbe aperto la porta, lo avrebbe invitato a entrare, avrebbe preparato il caffè e, se non avesse avuto di meglio da fare, sarebbe rimasta con loro, a sentire i loro discorsi. E lui a incantarsi, perso nel sorriso di quella donna. Innamorato come un ragazzino.
Erano molto lunghe le giornate a Guadalavez, e perdersi dietro alle parole dei grandi scrittori era diventato un passatempo molto apprezzato anche da Felicia. Da Silva le leggeva dei romanzi e nel tempo le insegnò anche a leggere e a scrivere. Lei lo ascoltava incantata, lo interrompeva per fargli delle domande e per commentare quanto Da Silva leggeva. E ogni tanto, anche lei si incantava guardando gli occhi di Da Silva, si rese conto che era difficile fare a meno della sua voce e della sua presenza. E per una volta le cose andarono come dovevano andare: Felicia per la prima volta si sentì amata come lei desiderava, in maniera gentile, rispettosa. E Da Silva, dal canto suo, percepiva di essere ricambiato, leggendo l’amore negli sguardi di Felicia. La tigre che era diventata madre era pronta per diventare moglie.
Tre giorni di festa sancirono l’inaspettata unione, la città ne parlò per settimane, e tutti concordarono che questo matrimonio era il frutto di una benedizione del destino. Il coraggioso rivoluzionario Da Silva, quasi un eroe cittadino, aveva preso in moglie la più bella e fiera donna della città e Diego aveva trovato un padre, che avrebbe saputo indicargli la via più giusta per affrontare gli ostacoli della vita.
Ci volle poco tempo affinché Guadalavez inghiottisse la nuova famiglia nella consueta normalità delle cose. Diego, invece, partì. Decise di imbarcarsi come marinaio, come quel presunto padre mai conosciuto. Ogni tanto Felicia e Da Silva ricevevano lettere da ogni parte del mondo, si sedevano attorno al tavolo e le leggevano insieme, commentandole con commozione, mentre constatavano dalle foto che Diego allegava alle lettere, che erano stati davvero fortunati ad avere un figlio così.
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