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Un vero affare
Era lì, su un banco d'un negozio d'antiquariato della "Rive Gauche" che era ancora umida della pioggia caduta abbondante nella mattinata.
Aldilà dell'argine, la Senna gonfia e potente, appariva come una pennellata d'inchiostro in quel tardo pomeriggio primaverile e, sulla corrente, sembravano danzare miliardi di riflessi come fossero coriandoli.
La "Rive Gauche" è il quartiere degli intellettuali, degli artisti; quella parte di Parigi in cui nacque la Bohéme. Quella parte della Senna che è sempre stata considerata il centro della vita letteraria parigina, o meglio ancora, europea. Lì si trova l'università La Sorbonne e si trova anche l'apice della vita artistica che ancora scorre e si alimenta tra le Rue del quartiere latino e Montparnasse.
Era lì, dicevo, smarrito tra mille altri oggetti antichi, vecchi libri, penne stilografiche e quaderni dalle copertine nere. Alcuni contenevano disegni o testi scritti con una bella grafia in lingua francese e altri, ancora nuovi, che avevano almeno cent'anni.
Il negozio aveva solo una vetrina sulla strada. Un insegna in legno era deliziosamente decorata con il semplice nome di "Les Antiquités de Madame Therese" con lettere dorate su un fondo nero anch'esso incorniciato con un filo appena percettibile d'oro. Non era fissata al muro con viti o sistemi di fissaggio sofisticati, ma solamente appesa a dei ganci con delle piccole catenelle. L'unica vetrina faceva bella di mostra di sei quadretti che contenevano delle stampe di metà '800 nelle quali sfilavano delle signore con vestiti eleganti, copricapo molto chic e ombrellini da sole. Queste stampe erano gli inserti de "La Mode Illustrée", quella che oggi potremmo chiamare "postal market". Le loro cornici erano in ciliegio intarsiato finemente e completate da un passepartout a rilievo color crema. Due applique deliziosamente liberty la illuminavano di una luce gialla e sul piano in basso vi erano orologi da polso e da taschino, accendini, portasigarette e cornici d'argento.
Rimasi immobile a fissare la vetrina che rifletteva sul vetro la vita che scorreva alle mie spalle e quelle dame ben vestite dei quadretti, sembravano passeggiare sui marciapiedi dietro di me. Entrai.
Madame Therese era una donna alta e bionda che pur avendo una cinquantina d'anni e forse di più mostrava un corpo da far invidia a donne anche molto più giovani di lei. I suoi abiti, una camicia bianca e una gonna grigia, in altri casi non avrebbero meritato nessuna attenzione, su di lei facevano presagire una carica di sensualità impensabile altrimenti. I tacchi contribuivano ad elevarla in statura ed in bellezza, ma solo sensibilmente.
Era seduta ad una piccola scrivania inizi '900 coloniale che una lampada, anch'essa liberty, illuminava di color verde. Usava per scrivere una vecchia penna Mont Blanc con il classico fiorellino bianco in cima e non c'era nessun computer in giro.
Lungo la parete si sinistra una libreria, chiusa da vetri conteneva libri prevalentemente del XIX secolo di cui molti di pregio. Sulla destra l'esposizione, tipo mercatino, di moltissimi oggetti vintage e antichi. Alla parete quadri a olio e stampe di ogni genere e corrente artistica. Spiccava tra questi il "Manifesto del Futurismo" di Martinetti. Una semplice pagina del giornale che lo pubblicò: "Le Figarò" il 20 Febbraio 1909.
Non poteva mancare il grammofono con una decina di dischi appoggiati accanto sopra lo scaffale dietro la piccola scrivania.
Il mio sguardo e le mie mani iniziarono a frugare nel "mucchio delle cose".
Anche se era tutto ordinato e catalogato sui banchi e sugli scaffali, la differenza tra un oggetto e l'altro causava alla vista un divertente senso di disordine fatto apposta per invogliare il passante ad entrare e cercare l'oggetto pennellato proprio per lui dal caso nell'apparente caos semantico d'un negozietto retrò. Trovandolo puntualmente dove meno se lo aspettasse e con l'effetto sorpresa che lo coglieva impreparato.
Fui colpito, infatti, subito un vecchio manifesto che riportava l'annuncio di una serata al Moulin Rouge, domenica 8 febbraio del 1912, in onore della famosissima ballerina Cléo de Mérode e anche da una foto che, malgrado l'età, mostrava ancora il volto sorridente di una giovane ragazza in posa di tre quarti. Quando la presi in mano mi apparì improvvisamente un dagherrotipo del 1850 circa in cui marito e moglie posavano seri. Madame, con la cuffietta bianca in testa, aveva una faccia dimessa e accanto l'uomo mostrava quasi un ghigno di soddisfazione: non mi piacque affatto la sua espressione e lo rimisi laddove l'avevo preso, continuando a guardare la bellezza della belle epoque attraverso il viso e gli abiti della ragazza nella foto.
Di lì a pochi anni, il novecento, sarebbe passato proprio di la a prendere un caffé magari proprio in quel guscio di limoges con il suo cucchiaino d'argento dentro, lì, accanto a quella macchina per scrivere che, come un vecchio senza denti, era carente di una decina di tasti.
Entrarono due signori, credo giapponesi, classicamente con le macchine fotografiche al collo, Madame li informò in inglese che essi non avrebbero potuto scattare nessuna foto nel negozio. Acconsentirono e cominciarono a dare un'occhiata in giro parlottando piano. Io li stavo osservando incuriosito e in effetti ero curioso di sapere cosa avrebbero comprato. Si risolse il dubbio in modo piuttosto veloce, poiché qualche minuto dopo avevano deciso per un servizio di posate da dolce in argento davvero molto vecchio. Quando andarono a pagare, mentre avevo un quaderno in mano che stavo sfogliando, mi voltai verso il registratore di cassa: aveva battuto 83 euro. Se ne andarono sorridendo.
Poi trovai un carnet ingiallito dal tempo con disegni e schizzi di paesaggi e di qualche personaggio. Uno in particolare, somigliava a Winston Churchill, ma non era lui di certo.
Stampe e incisioni colorate o in bianco e nero del sette o dell'ottocento raffiguravano uccelli di specie sconosciute, donne nude, medaglioni nobiliari e animali da cortile in un assortimento davvero estemporaneo tra cui spiccava un vecchio "téléphone de bateau", usato sui battelli di piccolo e medio cabotaggio che facevano staffette tra occidente e medio oriente fin dall'800. Portava addosso, come un'antica nostalgia, la carezza del mare e della salsedine e malgrado ciò era dichiarato funzionante!
Di tanto in tanto i miei occhi tornavano in strada osservando le persone che camminavano lungo la Senna, ma l'immaginazione in cui ero calato ormai aveva preso il sopravvento. Quel negozio in cui ero entrato era la porta per un epoca remota e gli oggetti che le mie mani toccavano erano divenuti catalizzatori per un viaggio nel tempo con la fantasia. E ciò che videro i miei occhi erano signore con cappelli dalle grandi falde talvolta decorati con motivi floreali e vesti ampie da cui ritmicamente spuntavano da sotto la gonna solo le punte delle scarpette. A passeggio sotto braccio di impettiti signori col cappello. La strada bagnata assorbiva i loro passi, ad uno ad uno, in quella lenta e apparentemente felice e spensierata passeggiata serale mentre iniziavano a vibrare sui marciapiedi le prime luci dei bistrot dove l'odor di fumo, il rumore delle idee degli artisti, il romanticismo della velocità e i propositi futuristi si mescolavano al fragore dei bicchieri. Dove spesso un amore annegava in una bottiglia d'assenzio.
Il chiassoso vociare di ragazzini che giocavano in strada a rincorrere una palla di stracci. Le carrozze che facevano vibrare le vetrine al loro passaggio.
Lo stupore riportò il mio sguardo all'interno del negozio dove, nel frattempo, le mie mani avevano trovato una lampada a olio. Era d'argento ed era del tutto simile a quella del genio di Aladino, identica!
Gettai uno sguardo alla Signora del negozio quasi nascondendolo dietro, temendo che vedendolo, decidesse di ritirare dalla vendita l'oggetto. Presi a sfregare col polsino la lampada. Non accadde nulla. Riprovai e riprovai, ma nulla continuò ad avvenire se non indispettire quasi Madame Therese che non capiva ciò che stavo facendo.
La riposi da dove l'avevo prelevata con l'amara delusione che mi aveva pervaso.
Io, di desideri, ne avevo molti da chiedere al genio se solo avesse avuto il buon gusto e la gentilezza di presentarsi.
Primo tra tutti quello di trovare il coraggio di dire "ti amo" a due occhi verdi che ormai occupavano gran parte della mia mente per gran parte della mia giornata. E della mia vita. Una ragazza di cui ho imparato ad amare follemente il sogno. Due occhi che solo a vederli ci si innamora in un rapimento surreale. Occhi che hanno dentro la nostalgia del mare, i capelli le cui onde improvvise travolgono quando scuote il capo e le sue labbra con il bacio di un sorriso sempre colmo di ribelle allegria. Il suo collo che forma una curva in un'iperbole che segue le spalle e taglia obliqua di netto una metà con i seni che sembrano dipinti da Cézanne. Una ragazza con cui vorrei far l'amore guardando il mare e carezzandone il riflesso che ella gli dona coi suoi occhi. Vorrei far l'amore con lei attraverso il vuoto, con le parole che salgono come sale la marea quando lei ne sfiora i flutti. E che ha un caratterino che investe della sua essenza con la forza di un T. I. R. e che stordisce come l'oppio. Si, avrei voluto esaudito quel desiderio: aspirare dalla sua bocca il suo respiro e succhiare dalla sua lingua un po' della sua linfa vitale, sfiorandone il seno gonfio e stringendolo nelle mie mani. E nient'altro m'importava in questo malinteso che mi lega assieme i lacci di queste scarpe strette chiamato "realtà". Avrei solo chiesto al genio di essere un folle che col bicchiere in mano gira sulle punte urlando il suo nome sul tavolino di un bistrot, per lei, la mia mania. Bella da impazzire.
Fu in quel momento che me lo ritrovai in mano quello strano oggetto. Era in argento massiccio, quello che si chiama "sterling silver" ovvero una lega di argento 925 di una manifattura inglese di nome Mordan & Co e mi domandai, subito incuriosito, cosa ci facesse lì. La datazione, mi fu detto, risaliva nientemeno che al 1900 o giu di lì. Si trattava di un porta-matita. Era un astuccio metallico che aveva la forma di un fodero per una piccolissima spada di circa 10 centimetri e, all'estremità, il tappo, era anche il cappuccio della matita stessa. Anche questa, secondo me, risaliva alla stessa epoca.
Rimasi affascinato da quell'oggetto e mi passarono per la mente i volti di Dalì, Picasso, Cocteau,... Chissà... e se fosse stato l'oggetto di uno di loro? Ma quello che mi sconvolse maggiormente fu il pensiero che quell'oggetto potesse essere appartenuto a Modigliani. Probabilmente perché era poggiato su una ristampa di un suo dipinto. Immaginai, forse sognando ad occhi aperti e con la matita tra le mani, che quella stessa matita potesse aver schizzato il volto e l'anima di Jeanne, la sua allieva, amante e madre di sua figlia.
Niente come i suoi occhi sapeva affilare meglio la la punta del lapis di Amedeo Modigliani. Colei che alla morte del pittore decise di seguirlo nella stessa sorte ponendo fine alla sua stessa vita e a quella di suo figlio in grembo.
Chissà se quella stessa grafite aveva accarezzato le linee dei suoi occhi azzurri e il suo bellissimo corpo inverosimilmente allungato sul divano della loro casa in affitto a Rue de la Grande Chaumière.
Amedeo, che però amava farsi chiamare Modì, aveva sempre una bottiglia di rosso che lo seguiva come una compagna fedele e questo mi spinse inconsciamente a portare l'oggetto al naso per verificare se si sentisse ancora l'odor del vino impregnato dalle sue dita sul legnetto giallo ocra.
Il suo lento barcollare che lo faceva appoggiare spesso contro i muri saturi dell'umidità del fiume senza avere quasi mai soldi in tasca. Al café, monsieur Lagrange, barattava sempre volentieri una zuppa di legumi o una bottiglia di vino per i suoi dipinti e spesso con i suoi disegni fatti lì per lì con la matita sui tovaglioli, oppure sui fogli che portava sempre con se in una cartella di pelle logora.
Chissà, se durante una di queste serate al café, con Maurice Utrillo e Diego Rivera, i suoi più cari amici, in una di quelle frequenti gare in cui gli artisti si sfidavano in tenzoni artistiche, questo legnetto, dilaniato da una lama mordace, abbia partecipato e magari vinto una competizione. Forse proprio con quella matita Modì vinse un pasto caldo e una bottiglia di Beaujolais.
E forse quella matita gli fu regalata da Auguste Renoir quando alla fine dei suoi giorni l'ebbe ospite assieme a Picasso nella sua casa di Cagnes-sur-Mer.
Forse...
Durante tutto il tempo che ero stato li, Madame Therese mi aveva guardato dalla sua scrivania come se temesse che volessi rubar qualcosa. Me ne accorgevo quando di tanto in tanto uscivo dalla trance poiché ella mi chiamava per chiedermi se avessi avuto bisogno di aiuto. Una sorta di trance che perdurava ormai da circa due ore.
Io alla fine le feci un sorriso tranquillizzante e, senza nemmeno chiederle quanto costasse l'oggetto, le diedi la carta di credito e pagai. Madame Therese mi restitui il sorriso e la carta Visa... e io mi portai via la matita di Modì.
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