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L'Ombra di Caracalla
PREFAZIONE DELL'AUTORE
I fatti qua narrati ci riportano al lontano 211 Dopo Cristo, sempre nell'Impero Romano, per toccar con mano la tormentata vita del figlio di Settimio Severo, Caracalla.
Qua ho cercato di ripercorrere il dramma di un uomo.
Ancora una volta i fatti, seppur romanzati, sono veramente accaduti e nomi o persone sono reali, fidandoci dell'attendibilità di molte fonti storiche.
Buona Lettura.
Lucio Settimio Bassiano soleva in quei tiepidi giorni settembrini giocare nei Giardini Reali con Livio Didone, il suo migliore amico, suo immancabile compagno di giochi, l’eterno fanciulletto biondo che sprizzava energia e trascinava Lucio per le vie più nascoste e più buie di Roma, le più belle, le più magiche.
Lucio era uno dei bambini più in vista a Roma. Figlio dell’Imperatore Settimio Severo, Lucio discendeva da quel magnifico filosofo che era stato Marco Aurelio e dalla la sua superba casata. E sua madre, Giulia Domna, direttamente dalla recente casata del ricchissimo senatore Oreste Gruccia. Lucio, all’età di sette anni, sapeva quanto di importante c’era da sapere sulla Letteratura Greca, si comportava a Palazzo come un vero e proprio signorotto nobile, educato, affabile, premuroso, carezzevole, disponibile come pochi figli reali lo erano stati.
Settimio era orgoglioso di Lucio, se lo portava sempre con sé alle assemblee più importanti in Senato e a cavallo tra le magnifiche province d’Oriente.
Lucio aveva anche un fratello, Antonino Geta, con il quale non aveva un rapporto così affiatato come lo aveva con Livio, ma lo trattava lo stesso con quella generosità, con quella sensibilità, che facevano di lui una delle persone più apprezzate dal popolo e dal senato stesso.
Lucio adorava passare pomeriggi, quando non era impegnato con il magister Filone a ripassare Omero o qualche passo dell’Eneide, con il suo inseparabile Livio, con il quale adorava appostarsi ai Mercati Traianei e spiare sogghignando le bellissime fanciulle che passavano, e poi scorazzare per i Giardini Reali, bagnarsi nelle fontane di marmo di suo padre e ancora giocare con i fedelissimi cani Plutarco e Sigrinio.
E poi, immancabile ogni giorno al tramonto, la corsa, la gara, che per pochi attimi li metteva contro, anche se per gioco, al Ponte Milvio.
I due davano il meglio di sé, correndo con quella intramontabile spensieratezza giovanile le lastre pietrificate del Milvio, e il sole, ormai tutto corrucciato e rossastro, alla sua morte, pareva abbracciarli dall’orizzonte con calorosa gioia.
Altre volte scendevano negli Horrea, i magazzini per l’accantonamento di materiale bellico già usato, ove si travestivano con vecchie armature cadenti e giocavano per ore.
Talvolta Livio impersonava Marco Antonio, altre volte Lucio impersonava Cesare o il folle Tiberio o Caligola, o il suo preferito in assoluto, Alessandro Magno.
Quando arrivò il compleanno di Lucio suo padre aveva allestito il Circo Massimo come reggia dei divertimenti per suo figlio e mezza Roma era accorsa là con l’invito dell’Imperatore.
In quel bagno di regali, di coccole, di chicche, di feste, di giochi dove Lucio non conosceva nemmeno un quarto dei partecipanti, apprezzò fino in fondo un solo regalo: quello del suo amico Livio.
Era infatti questo regalo una mantellina stupenda, di origine gallica, con cappuccio.
Una caracallis, gli spiegò immediatamente Livio, mentre Lucio scorreva una mano sulla superficie candida e morbida del piccolo mantello gallico ed ammirandola come estasiato.
Livio lo aiutò a indossarla, stringendola bene e dispiegandola.
Lucio corse un po’ attraverso il circo, sfidando col suo cappuccio in testa le schiere di invitati e immaginandosi di essere in mezzo ad Azio, a Tapso, a Munda, a Farsalo, che so io.
Lucio non si separò mai più dal mantello che gli aveva regalato il suo grande amico, e dal quel giorno fu per tutti “Caracalla”.
Quando la colossale festa fu finita, tutti cominciarono pian piano a tornarsene nelle sperdute vie romane, inebriati dal lusso e dallo spasso.
A quel punto Livio prese da parte Lucio, o Caracalla per parlargli di una cosa che lo turbava da tempo.
- Lucio, amico mio, ormai è tempo che ti dica come stanno le cose, ma tu promettimi di restarmi amico. Prometti-
- L-lo prometto.-
- Si tratta di mia madre. Da quando mi ha portato all’insaputa di mio padre ad assistere ai Rituali Giudaici, e tu sai quanto per noi elevati sia proibito prendere parte al culto, è stata arrestata e mio padre mi vuole parlare con urgenza-
- Non c’è niente di male ad essere giudaici. Vedrai, tuo padre saprà ascoltarti e la situazione sarà chiarita- lo rassicurò Caracalla.
Ma non fu così.
Due mattine dopo, Caracalla era agli Horrea, loro fisso punto d’incontro, ad aspettare l’amico Livio.
Ma non venne.
Così passarono mattine, pomeriggi e sere e l’amico non si presentò.
Seppe molto tempo dopo da uno schiavo di Palazzo, certo Ctesione, che Burio Didone, padre di Livio, aveva ordinato che suo figlio fosse vergato molto duramente per aver preso parte ai Riti Giudaici, e che sua moglie fosse arrestata e condotta lontano da Roma.
Caracalla seppe sempre da Ctesione che Burio, per ottenere il permesso di far percuotere suo figlio, doveva chiedere il permesso all’Imperatore.
Che aveva acconsentito.
Il mondo di Caracalla crollò in pochi attimi.
Odiò con tutto sé stesso per molte ore suo padre, che si era macchiato a tal punto, il padre di Livio, e naturalmente i responsabili delle percosse.
In questo misto indicibile di odio e rabbia interna Caracalla concluse l’infanzia.
Non rivide più il caro Livio, che era stato mandato con sua madre in Cappadocia, e quando seppe quest’altra terribile notizia, imbestialì.
Prese il caracallis e partì come una furia verso il Senato, dove suo padre stava tenendo un’assemblea importantissima.
Irruppe così violentemente nella Curia, da far zittire immediatamente Settimio, impegnato in un’orazione e da far girare sorpresi tutti i Senatori.
- Padre! Maledetto! Tu!- Partì spietato verso il padre che nel frattempo era sbiancato.
- Tu hai fatto bastonare il mio migliore amico e l’hai spedito in Cappadocia! Maledetto!-
Caracalla fu un vulcano, il senato trasalì, il padre quasi svenne.
L’assemblea fu sciolta subito, e i senatori prendevano immediatamente la strada non volendosi immischiare in affari personali dell’Imperatore, così che nella Curia rimasero solo Settimio e suo figlio.
Settimio gli mollò un ceffone sonoro e gridò: - Come ti permetti di entrare come un barbaro durante una cotanto importante assemblea e di maledirmi?-
- Tu hai autorizzato Burio Didone a vergare il mio amico e a esiliarlo come un cane!-
- Lo sai benissimo che non è consentito ai nobili prendere parte alla religione Giudaica!-
- Ma è solo una bambino! Era il mio unico e grande amico! Cane! Masnadiero! Belva!-
- Come ti permetti, insolente moccioso?-
- Tu invece, con quale diritto ti proclami Imperatore di Roma e del suo Popolo se poi commetti atti così barbarici?- E se ne andò.
Suo padre rimase da solo qualche attimo nella Curia, in attesa dei pretoriani, e ripensò alle dure ma vere parole del figlio, e meditò infine se un Imperatore potesse compiere una cosa del genere.
Di fronte alle statue di marmo dei suoi antenati, tra i quali spiccavano l’austero Antonino Pio, il saggio Traiano, l’immortale Adriano e lo stesso Augusto sopra di tutti, Settimio Severo si pentì molto duramente, sentendo di chiamare suo figlio per farsi perdonare, magari graziare Livio Didone e richiamarlo a Roma con la madre, riconciliare tutti….. ma non lo fece.
E fu proprio questo l’errore.
Caracalla crebbe, in mezzo a ripicche e situazioni terribili, ingiustizie e misfatti di ogni tipo.
Diventò più superbo, altezzoso, truculento, odiando tutto ciò che avesse a che fare con la vita imperiale.
Il suo volto divenne spigoloso, ereditò in due anni l’espressione superba del padre, alterandola e diventando scontroso come pochi.
Aveva progettato una fuga in Egitto con la sua amante Decia Priscola, ma tutto era andato a monte.
Aveva maturato una profonda gelosia e un abissale disprezzo per suo fratello Geta, che cresceva sotto i principi della grande umiltà e dello spirito Romano.
Qualcosa in Geta riecheggiava quello spirito fanciullesco mai morto, che a Caracalla era stato sottratto come il più bello dei regali mai ricevuti.
Caracalla cominciò a divenire assetato e bramoso di potere, aspettando che suo padre morisse, ogni giorno più che mai.
Influenza negativa e preponderante sulla sua tormentata fanciullezza l’ebbe sua madre, Giulia Domna.
Essa se lo prendeva in camera con sé e gli narrava tutta la storia Romana, le imprese nobili e meno che avevano contraddistinto i personaggi più illustri del passato.
E gli parlò del potere, di come ti inebria e ti cattura, di come ti rende magnifico e capace di tutto.
Lo portava sul terrazzo e gli faceva vedere che un giorno l’Immensa Roma sarebbe stata sua e di nessun altro.
Ogni tanto Caracalla scendeva negli Horrea e si sedeva in un angolo, a pensare a tutti i momenti più belli della sua vita che lo avevano affiancato a Livio, che si trovava ora esiliato con la povera madre nelle sperdute lande della Cappadocia.
Passarono tanti anni, Settimio severo cominciava ad essere molto vecchio e incapace di reggere un impero tanto vasto come Roma e cominciò a pensare alla suo testamento.
Così, in un mattino di gennaio convocò Caracalla, Geta, sua moglie Giulia nella Sala degli Ori, dinnanzi alla Cattedra di Marmo, per renderli consapevoli delle importanti decisioni che aveva da non molto preso.
Parlava a fatica, grinzoso e canuto, biancastro, un vecchio che reggeva il mondo e non si sentiva più in grado di sopportar simil fatica.
- Pochi giorni separano la mia esistenza terrena a quella dei Campi Elisi- comunicò con la sua voce rauca e stonata.
- Sono troppo vecchio per governare Roma, e ho già preso tutte le decisioni necessarie. Sarò rapido e conciso.
Ho deciso di affidare L’impero nelle mani di voi due soli, figli miei, Lucio ed Antonino.
E spero che saprete fare meglio di me, nel bene, figliuoli, sempre nel bene.-
Queste parole trafissero Caracalla come una freccia persiana, adesso che si trovava a condividere il potere che sognava e bramava da moltissimo tempo con il suo odiato fratello Geta.
Settimio morì trenta giorni dopo, mentre si trovava ad Eboracum, in Britannia, il 4 Febbraio 211, e vi fu un giorno di pianto generale a Roma, tra celebrazioni e riti sacri.
L’unico che non pianse fu Caracalla, adesso che si trovava a combattere contro l’io superbo, mentre lontane tracce dell’io fanciullesco tornavano a imporsi come un tempo.
Ripensò alla faccenda del potere, e raggiunse la conclusione che avrebbe diviso l’Impero in due parti di dominio, una occidentale ed una orientale e che lui se ne sarebbe andato in oriente, in Egitto, terra dei suoi sogni.
Giulia Domna si oppose con tutte le sue energie, come una gatta impazzita.
-Non puoi abbandonare proprio ora che il potere è tuo! Lo desideri da tutta la vita, figlio mio!!!!-
E con questo e con molti altri discorsi persuasivi, Domna rovinò ancor di più l’animo di suo figlio più di quanto non avesse già fatto.
Geta regnò al fianco di Caracalla fino a metà Dicembre del 211.
In quel periodo, Geta accolse raggiante la proposta di Caracalla di spartirsi l’enorme Impero, e cominciarono i progetti di ordinaria amministrazione.
Ancora Giulia Domna convocò suo figlio Caracalla e lo inondò di discorsi per oltre tre ore.
- Tuo fratello! Tuo fratello vuole tutto il potere per sé, e poi io, tua madre, finirò nelle galere della Siria! Lui ti manderà in Oriente a governare….. e Roma sarà sua! Non lo vuoi capire?-
- Basta!- gridò allora Caracalla a sua madre.
- Adesso che mi sto riavvicinando a mio fratello, tu subito vuoi che tutto finisca! Sei come quel mostro di Settimio, che mi ha privato della gioia più grande della mia vita!-
Allora Giulia capì che si doveva comportare diversamente per compiacere suo figlio.
Cominciò a trattarlo in modo più affabile, coccolandoselo, e dicendo che lei volevo solo il bene e la gioia da parte del suo figlio preferito.
E come qualsiasi corruttrice abile che possa esistere, Domna prevalse sul debole Caracalla.
- Dopo le Idi cominceranno i Saturnali- cominciò a dire in modo pacato Giulia -e a quel punto tu sarai già in Oriente.-
- Cosa devo fare?- chiese Caracalla sconsolato ed afflitto.
- Se vuoi l’Impero, allora dovrai uccidere tuo fratello-
Un sibilo detto con tanta freddezza che ridestò i morti.
Caracalla impallidì, si alzò, si mise una mano in faccia e tornò a sedere.
La madre gli accarezzò la spalla.
- E poi tutto questo mondo sarà tuo, e di nessun altro-
- Chi mai si macchierà di un crimine del genere?- chiese Caracalla con voce sopita.
- Paolo Mavone-
- Il prefetto del pretorio?-
- Sta appoggiando la nostra causa, mio caro Lucio. Mi serve solo la tua parola…e l’Impero sarà tuo-
Caracalla annuì, quasi piangendo, disperato uscì dalla sala, mentre Domna istruiva Mavone su come compiere l’assassinio atroce.
Caracalla percorreva le esedre di marmo mentre il mantello era agitato dal vento e rifletteva la triste luce della luna.
Durante questo suo tormentato tragitto, che congiungeva la residenza di Giulia Domna alle Sale degli Ospiti, incontrò suo fratello Geta il quale colse prontamente il suo turbamento e ne chiese il motivo.
-Lucio! Fratello mio! Lucio! Cos’hai?-
Caracalla tremava e non riusciva a stare in piedi.
Lo abbracciò con tutto l’affetto che potesse provare, lo baciò e lo tenne al suo petto per molti minuti.
Fece come suo padre alla Curia molti anni prima.
Fu tentato infatti Caracalla di far arrestare sua madre, il prefetto Mavone corrotto dai soldi di Domna, e partire via con suo fratello per vivere la vita e cercare Livio, sua madre, vedere i suoi figli, riconciliare tutti.
Ma non lo fece.
E fu proprio questo l’errore.
Caracalla lasciava per l’ultima volta suo fratello nelle esedre e scendeva nelle stalle per prendersi il suo cavallo Manto.
Mentre scioglieva le briglie di Manto, sentì passi concitati e il tipico rumore delle armature dei pretoriani che si muovevano con la complicità della notte.
Rumore di spade. Il grido soffocato di Geta. Il cadavere a terra. Brusio. Il sangue di Geta che macchiava i marmi augustei. Altri lamenti e pianti. Il silenzio.
E la tempesta esplose con tutta la sua premeditazione, con tutta la sua imponenza dentro l’unico imperatore di Roma, che sopra il suo Manto usciva da Roma per cercare la solitudine.
Le ore successive a Roma, e soprattutto a Palazzo, trascorsero nella più totale confusione ed incertezza.
I pretoriani, dei quali non tutti sapevano dell’incursione di Mavone e dei pochi altri complici, si muovevano disperati da una sala all’altra.
Giulia Domna piangeva disperata, ma noi conosciamo bene le sue abilità teatrali, sul cadavere di un Geta brutalmente trucidato.
I senatori erano stati immediatamente convocati per una riunione di “assoluta quanto necessaria importanza”.
Il Palazzo Imperiale era un via-vai di guardie, senatori, schiavi, matrone in ansia, centurioni, uomini di spicco, liberti impazziti, fedeli di Geta che gridavano al complotto e senza neanche pensarci incolpavano suo fratello Caracalla.
Il prefetto del pretorio Paolo Mavone, già ricercato dal praefectus urbi per chiarimenti del caso, era fuggito con i suoi due fedeli Rubieno e Pasca.
Come prevedeva il codice dei pretoriani, se un comandante( ma in questo caso un prefetto) voleva di sua spontanea volontà la morte, non poteva togliersi la vita da solo, ma doveva farlo fare ad un pretoriano o centurione che sia nominato da lui solo.
Rubieno avrebbe dovuto colpirlo con la spada nello stomaco, Pasca alla gola per concludere.
Così morì Paolo Postumo Mavone.
Rubieno e Pasca, non sapendo cosa fare, e vedendo che l’intera Armata Pretoriana di Roma stava cercando con le armi Mavone e i suoi complici, si suicidarono.
Il prefetto del Pretorio fu nominato solo il giorno dopo, tale Emilio Rota Gennèo.
Caracalla arrivò col suo cavallo Manto alle pendici dell’Esquilino e lo bloccò ad un pioppo abbastanza robusto.
Quasi cadendo, raggiunse il manto erboso e vi si buttò gridando e piangendo.
Che diritto aveva di stare al mondo, ora che aveva fatto uccidere l’unica persona che veramente lo amava? Che diritto di governare l’Impero se macchiato tutta la vita da un simil misfatto?
Cominciò una lenta salita fino all’Esquilino, rimuginando e scorrendo con la propria mente gran parte della sua vita.
I fasti di palazzo, le cerimonie, i colossali compleanni, ma soprattutto il grande amico Livio.
Le corse stupende al Ponte Milvio, le battaglie storiche agli Horrea, i bagni alle fontane, le puntatele ai mercati traianei, le infaticabili giornate ai Giardini Reali.
Poi il mantello che gli aveva regalato, che tutt’ora portava con sé, e che si era promesso di non togliere mai.
Poi il suo amico gli era stato portato via, e i suoi occhi si erano aperti su quella che lui definiva crudeltà imperiale, fino agli sciacqui del potere di sua madre, e Caracalla era sicuro che se lui adesso era l’unico Imperatore lei voleva o reclamava il diritto di diventare Imperatrice.
In cima all’Esquilino, guardò Roma.
Come la aveva amata, così adesso la odiò.
Lì gli avevano rovinato la vita, incendiata l’innocente giovinezza, esiliato l’amico, ucciso il fratello, dietro quei marmi si celava scaplitante il suo tormento.
- Vedranno di che pasta è fatto Caracalla, spietati mostri, volete che io comandi? E così sarà! Ma avrete di che pentirvene-
In cuor suo, che rimesceva odi e tormenti d’una vita, egli si prometteva davanti alla luna di pagar con la stessa moneta tutti quelli che avevano cambiato radicalmente la sua vita in peggio.
Poteva abbandonare tutto e fuggire via, magari verso la Cappadocia dal suo amico perduto.
Ma non lo fece.
Sciolse Manto, vi montò sopra con estrema naturalezza, si sistemò il mantello e infilò in testa il cappuccio gallico.
- Avranno da me un salato resto. Tempus Est Migrandi( è ora di andare)-
Spronò il cavallo, partì infiammato verso Roma per reggere le insegne imperiali che a gran voce reclamavano un Cesare.
Caracalla era cambiato, in lui ruggivano i tormenti d’una vita, era pronto a stravolgere Roma.
E lo spirito fanciullesco che dimorava da sempre in lui era confinato adesso nella prigione della sua anima, e lo sarebbe stato in perpetuo.
La Storia fece di Caracalla un mostro.
POSTFAZIONE DELL'AUTORE
Caracalla resse il potere a Roma fino all’8 Aprile 217, quando fu ucciso dalla congiura ordita dal prefetto del pretorio Opellio Macrino( futuro imperatore, che deterrà il potere per nemmeno tre mesi e mezzo), per mano del sicario Giulio Marziale, presso Harran.
Di lui si ricordano solo tre cose:
Le imponenti Terme di Caracalla, i cui resti tutt’oggi permangono, la Constitutio Antoniniana, la quale dava la cittadinanza romana a tutti gli italici che non fossero di ubicazione rurale, e la svalutazione della moneta, a causa dell’aumento della paga dei soldati.
Gli storiografi lo ricordano per il barbaro omicidio del fratello Geta e di come sterminò una provincia egiziana, di 20. 000 abitanti, per aver fatto satira su di lui. Ma questa è un fatto non storicamente attendibile, poiché riportato solo da uno storico, Cassio Dione, e non dagli altri.
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- scritto in modo molto coinvolgente, complimenti!
- notevole. Enrico
- Bravo. Ciao; Angela
- bravo, un bel racconto rappresentato con un ottimo stile. Povero Caracalla, alla fine fa anche un po' pena... in attesa di rileggerti...
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