Stamattina sono stata interrogata alla cattedra.
Sentivo tutti gli occhi puntati addosso mentre stavo lì in piedi col terrore che qualcuno potesse accorgersi del mio segreto.
A un tratto mi è addirittura sembrato che il professore avesse cambiato faccia, come se un'espressione di disgusto gli si fosse affacciata dietro gli occhiali, invece ha solo annotato un voto nel registro prima di rimandarmi al posto.
Ho appoggiato la testa sul banco freddo. Avrei voluto piangere ma poi tutti mi avrebbero fatto un sacco di domande.
Su dallo stomaco ho sentito salire un qualcosa di acido e sono dovuta scappare in bagno senza neppure chiedere il permesso. Piegata in due sul water ho vomitato anche l'anima con la speranza di riuscire a buttare fuori ogni errore, poi mi sono appoggiata con la schiena contro il muro lasciandomi scivolare a sedere sul pavimento sporco.
Oggi all'ultima ora c'è il compito di matematica e io non sono pronta, se non sono in grado di affrontare uno stupido compito come potrei mai mettere al mondo un bambino?
Lascio scivolare la mano sulla pancia. Sembra sempre la stessa eppure lì dentro c'è un piccolo miracolo, un miracolo che mi terrorizza.
Mi concentro come una stupida ma non c'è niente di diverso, nessun movimento che testimoni la sua presenza, eppure lui c'è. Lo so.
Chissà se è maschio o femmina... da quando l'ho scoperto me lo domando spesso. Se proprio dovessi scegliere preferirei una femminuccia, un qualcosa più simile a me.
I flashback sono dolorosi. Quando penso a queste cose mi vedo con il bimbo in braccio, immagino il profumo della sua pelle, la sua manina che stringe il mio dito. Ma poi devo guardare in faccia la realtà.
Sono appena passate le tredici quando Camilla mi viene a prendere a scuola per condurmi dal professore in una clinica privata.
La mia è una famiglia molto in vista, sarebbe uno scandalo troppo grande se si venisse a scoprire che a quattordici anni sono incinta. Per fortuna si può evitare ogni vergogna pagando una discreta somma di denaro.
Basterà qualche soldo e un po'd'anestesia per ammazzare il mio bambino, per cancellarlo come se non fosse mai esistito, nulla più di una macchia su un capo potato in lavanderia.
Il professore è un uomo vecchio con lo sguardo di ghiaccio, ha imparato a essere cinico per mestiere, non prova rispetto per la vita, la morte o il dolore.
Lo immagino mentre mi fruga dentro e già vorrei fuggire, ma la decisione non spetta a me, sono in trappola.
Camilla, la nuova fiamma di mio padre, parla di me col dottore come se non fossi presente.
Lui fa qualche cenno d'assenso, dice che capisce, che il riserbo sarà assoluto.
Poco dopo mi preparano. Indosso un camice e una cuffietta, ho freddo perché sotto sono nuda.
Sento il cuore che batte forte, forse batte così forte perché dentro di me ci sono due cuori e anche lui non vuole morire... ho letto che insieme al cervello è la prima cosa che si sviluppa.
In sala operatoria nessuno mi parla, per loro è routine, gesti automatici.
A un certo punto mi tiro su a sedere, non lo voglio più fare, non posso stroncare quel cuore, ma loro mi fermano. Il professore con l'aria scocciata fa cenno all'anestesista di addormentarmi in fretta e allora io scalcio, grido, mordo finché alla fine il farmaco non mi annienta. Scivolo nel buio.
Non so quanto sono stata addormentata, la luce che filtra dalla finestra mi ferisce gli occhi.
Passo di nuovo la mano sulla pancia, sembra sempre normale, come prima, ma adesso quel cuoricino non c'è più, c'è solo il mio di battito, il battito di un'assassina cui hanno strappato l'anima.