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Buon sangue non mente
Spense l'ennesima sigaretta nel portacenere stracolmo e si alzò. La notte era trascorsa lentamente, guardò l'orologio, ancora un paio d'ore. La telefonata era arrivata un paio di giorni prima, la sentenza, dopo un processo durato quasi un anno, sarebbe stata emessa alle nove e trenta. Aveva ringraziato l'avvocato e aveva riagganciato. Già, l'avvocato. Per fortuna ne aveva scelto uno in gamba. Nonostante la gravità dell'accusa era riuscito a tenerlo fuori dal carcere. Il pubblico ministero, infatti, aveva richiesto la custodia cautelare, temeva che potesse scappare.
Aveva vissuto quelle quarantotto ore come in apnea. I ricordi erano riaffiorati in maniera dura, pesante, tanto da impedirgli di respirare normalmente. Dopo aver disdetto gli impegni di lavoro, si era chiuso in casa, aveva spento il cellulare e aveva ignorato un paio di volte il citofono.
A fatica si spostò in bagno. Il volto che vide riflesso allo specchio lo fece rabbrividire, chiuse e riaprì gli occhi un paio di volte. Di Paolo Perrone, capo struttura in una nota tv commerciale, non vi era traccia. Quello che lo stava osservando, era un uomo che dimostrava ben più dei suoi cinquant'anni. Le occhiaie, nere come la pece, dominavano un viso che, in tempi non molto lontani, si sarebbe potuto definire bello. Le guance erano infossate e la barba, lunga di tre giorni, lo rendevano simile agli identikit appesi alle volanti della polizia. Aprì l'armadietto e fissò il rasoio come se lo vedesse per la prima volta. Iniziò a radersi pensando che, per lo meno, quel giorno sarebbe finita, finalmente.
Alle nove e quindici l'avvocato Raffaella Tosi attraversò la strada e gli andò incontro. Nonostante i tentativi, l'aspetto di Perrone non era migliorato molto. Lei gli tese la mano e fece per dire qualcosa, ma lui l'anticipò."Non mi chieda come sto..." disse "... lo può vedere da se, piuttosto, durerà molto?" L'avvocato esibì un sorriso stentato e lo prese sottobraccio. Mentre si incamminarono verso l'ingresso del tribunale, lei gli spiegò brevemente cosa sarebbe successo.
L'esterno dell'aula in cui si sarebbe svolta l'udienza era abbastanza affollato. Tre o quattro fotografi parlavano tra di loro, le macchine appese sul petto o a tracolla. Altrettanti giornalisti facevano dondolare i loro taccuini digitali camminando avanti e indietro. E fu uno di questi ultimi a notare il suo arrivo. Subito gli corsero incontro e iniziarono a tempestarlo di domande, i flash esplosero come fuochi d'artificio. L'avvocato Tosi fece il possibile per tenerli a distanza, lo prese per il braccio e cercò di portarlo via. Ma Perrone non si mosse. Stava fissando un punto in lontananza, l'avvocato fece lo stesso. La persona che l'accusava si trovava poco distante e lo stava guardando. Al suo fianco un paio di legali. Stavano parlando fitto con il testimone principale, colui che, senza ombra di dubbio, lo avrebbe fatto condannare. Questi alzò a sua volta la testa e lo fissò, a lungo. Fu Perrone ad abbassare gli occhi per primo, il cuore gli mancò di un battito e le gambe sembrarono cedergli. Era uno sguardo carico d'odio, lo sguardo di un nemico. Con uno sforzo sovrumano l'avvocato Tosi riuscì a trascinarlo dentro l'aula. I giornalisti non erano ammessi e vennero bloccati dai poliziotti in servizio. Quando la porta si richiuse e il silenzio li avvolse, Paolo Perrone si lasciò cadere su una sedia.
L'udienza fu breve. Dopo un paio d'ore di camera di consiglio, i giudici lo condannarono a tredici anni senza condizionale, per stupro e sequestro di persona. Alla lettura della sentenza l'avvocato Tosi gli mise una mano sulla spalla. Avrebbe ricorso in appello disse, nulla era ancora perduto continuò. Le guardie carcerarie lo ammanettarono ma lui nemmeno se ne accorse. Dall'altra parte dell'aula osservò la donna che aveva violentato. Stava abbracciando colui che l'aveva fatto condannare con la sua testimonianza, la persona che l'aveva sorpreso durante la violenza: suo figlio, Maurizio Perrone. Le guardie lo scortarono fuori dell'aula, i due non lo degnarono nemmeno di uno sguardo.
La notizia apparve su tutti i giornali nazionali e i telegiornali ne parlarono ampiamente.
Paolo Perrone, suicida in cella.
Il noto dirigente tv si è tolto la vita infilandosi un sacchetto di plastica in testa. Inutili i tentativi di rianimazione da parte dei medici.
Il Perrone era stato recentemente condannato per stupro. La violenza era stata compiuta all'interno degli studi della televisione privata. La giovane aveva più volte ribadito che il Perrone l'aveva convocata per un colloquio prettamente professionale, poi, come se fosse impazzito, l'aveva aggredita. L'intervento provvidenziale del figlio dello stesso dirigente, rientrato in anticipo da un viaggio all'estero, aveva evitato il peggio. Il dottor Perrone aveva sempre negato tutto, aveva sempre asserito che la ragazza fosse consenziente. Quindi il processo, la testimonianza del figlio, la condanna.
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dario il 13/06/2012 20:47
ti ringrazio Ellebi, il titolo è chiaramente ironico, saluti
- Strano racconto davvero a cominciare dal titolo. Sarebbe infatti tutto da discutere e da approfondire: un figlio che fa condannare il padre. E qui il titolo è ironico? Comunque al di lá dei significati, racconto ben composto e di lettura godibile. Saluti
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