Un centro oncologico è un mondo a sè, quasi una centrale atomica.
Già dall'esterno ci si accorge della strana atmosfera che avvolge la struttura, il viavai di gente, i grossi tubi d'acciaio che circondano gli edifici, il senso di leggerezza come se la vita e la morte danzassero come Nureyev e la Fracci una danza silenziosa e inesorabile.
Varcata la soglia, ci attende una grande sala di accettazione con diversi sportelli e un giro di poltroncine dal colore acceso. Un maxischermo fluttua in alto.
Tutto è pulito, asettico, metallico.
Gli ascensori d'acciaio e funzionali, le camere attrezzate di tutto, non come gli ospedali pubblici dove tutto è lasciato nel più completo abbandono!
Ad ogni angolo il segnale di "pericolo radiazioni". Qui tutto è radioattivo, dalle stanze per la TAC alle sale per la radioterapia dove non entrano neanche i medici.
Certi particolari si fissano nella memoria in maniera indelebile: un uomo piccolissimo di Niscemi con la moglie enorme completamente calva: diceva di essere al limite delle sue forze, ogni volta sollevare quel macigno di 150 chili era un'impresa titanica.
Eppure in questo luogo non ho mai sentito la presenza della vita in un modo così "forte"; tutto vibrava nello spazio, la gente, il personale, il cibo, il mare così azzurro da togliere il fiato che splendeva in lontananza.
Ricordo l'aggressività dei colombi sul balcone: erano colombi che non avevano paura della morte, ti stavano addosso e quando gli gettavi le briciole del cibo avanzato, si scannavano tra di loro.
Poi ricordo una donna con un cancro al cervello che incurante del suo male, la notte stava sveglia a fumare e a guardare la tv.
E la piccola, piccolissima cappella, forse il centro pulsante di tutta quella strana, convulsa, calma energia.
Appartata, metallica, era un luogo dove poter chiedere a Dio di darci la forza per resistere. Un piccolo mondo di silenzio che infondeva coraggio in un momento difficile della nostra vita.