racconti » Racconti del mistero » Ombre e pioggia sul Paese
Ombre e pioggia sul Paese
a An Lan
La pioggia nutre i solchi secchi qua e là nelle strade, e nelle crepe dell’asfalto spunteranno fili d’erba, e un minuscolo seme vincerà la resistenza di un cappotto malvoluto, quel nastro grigio pezzato di nero che arriva sino al mercato. An Lan camminava pensando a piccole meraviglie, lentamente nella sera gelida di Cheng-yu, fra le vie strette inumidite dalla pioggia vaporosa e spicciola che bagnava appena i lunghi capelli neri, lunghi sino al bacino, stringendosi nel soprabito leggero, che frettolosa una mano le aveva porto sulla soglia della casa degli zii paterni.
Qualche isolato più in là del suo domicilio c’era la scuola, non occorreva avere fretta. An insegnava inglese, e le lezioni della sera procedevano svagate in colloqui tra la gente del paese che vi capitava per i motivi più vari: i commercianti, coloro che dirigevano piccole industrie, e qualche studente che stentave nella lingua. Un sottile umorismo permeava le mura dell’edificio e sprigionava talvolta di sera negli scolari un’ilarità inattesa, che poco serviva all’apprendere ma che creava un’intesa sotterranea fra gli animi dei convenuti. Solo qualche bambino, che qualcuno aveva finto di dover accompagnare, prestava attenzione alle disciplinate parole dell’insegnante, e agli scarabocchi sulla lavagna che nulla avevano da spartire con gli ideogrammi, quei pochi o molti che ciascuno conosceva, e di tanto in tanto, sui biglietti di auguri scriveva.
I bambini, pensava con intermittenza An, essi sono come dei piccoli semi che durano a fatica la grave indifferenza degli adulti…I passi risuonavano ritmici sul selciato, fra le irregolarità e le pezze d’asfalto, e in ognuno An ravvisava una diversa sfumatura che il suo pensiero assumeva, tentennando fra la tenerezza di un ricordo non lontano e la coscienza del freddo che masticava i lembi dell’abito. Potrebbe nevicare, pensò d’un tratto, e mise in tasca la mano infreddolita, trovandovi due monete che rigirò tra le dita, mentre il passo veniva più solerte man mano che vedeva avvicinarsi il portone della scuola, non più d’una macchia di vernice verde fra il vaporio dell’acqua e le luci dei neon diffuse nel miope intrigo di vie, dove suonavan voci come cori distanti, musichette tristi od ebbre, appese fra i pentagrammi delle geometrie murarie. “È dopotutto una bellezza inesprimibile, senza il peso dei miei passi, senza questi occhi che cercano luci riflesse nelle pozzanghere. Ora passa un uomo, lo conosco, è il giovane Ling”.
Il giovane Ling Bao, figlio dei commercianti Ling, sostò non appena scorse la piccola figura di An, a tre passi dall’entrata della scuola, e indirizzò alla fanciulla il più schietto dei sorrisi, salutandola in tono scanzonato. “Buona sera Ling”, le uscì a malapena dalla bocca viola di freddo, un fiato di fumo freddo, affatto indifferente. Non ora, Ling, non ho tempo per le tue filastrocche d’amore. An passò sfiorando il braccio di Ling, verso lei proteso, in cerca di un contatto forzato, lo sguardo fisso e insistente, vanamente speranzoso di una linea amichevole sul volto di An; non fermò un istante il flusso dei pensieri che s’incanalavano costanti e fitti come la pioggia nella grondaia; vide solo il braccio inguainato in una manica di pelle, guardò riflettersi un lampione sull’asfalto. Come una grondaia, suonava in mente un principio di poesia.
“Fa freddo, eh, stasera, un freddo da cani” riprovò Ling, mitigato nella baldanza, la fronte corrugata, un punto interrogativo in mezzo ad una via aspersa di lumi riflessi, bionda e vuota.
“Night falls as a huge wing”, pensò An Lan, senza rivolgere attenzione al suo accidentale amico, il quale vistosi abbandonato in tanta fretta, voltò di mala voglia in direzione opposta, e si spense e si fuse nelle ombre della sera, nel soliloquio di An che continuava. Meccanicamente aveva espresso in inglese quel briciolo di metafora, che continuò così, mentalmente confondendosi con la strada bagnata e con un sentimento di piacere, breve e intenso calore: “in questa città mia, così strana, così amichevole e lontana”. Ora intercalava il proprio idioma a completare il pezzo, e quel sentirsi aliena dalla propria gente, di camminare su pietre distanti, si diffuse nello svago, nel timbro della voce intima.“rallentata è la città, il mio piede si pone con fiducia sul selciato, ma sono un’ombra che non appartiene a queste mura”.
Già, un freddo da cani. Sembra agli occidentali che i cani e il freddo abbian che di comune. E gli uomini. Ling entrò nella saletta di un bar, ordinò il solito strizzando l’occhio a Mei-bionda-chioma e sedette al tavolo, prese un foglio spiegazzato di tasca, e scrisse un breve appunto. Non era certo un perdigiorno, Ling, lui sapeva usare la penna o il pennello, conosceva l’inglese, era stato anche in Italia. Scrisse in inglese, poi lo copiò in mandarino, cercò i segni più adatti, fece un inventario di parole a suo dire poetiche, rappezzò il testo e cancellò un verso. La striscia blu scuro correva su di una piega, mangiando una fila di parole: without the pain of love. Ripiegò il foglio e lo mise nel taschino. Il caffè, di cui aveva appreso il vizio in Italia, era sul tavolino, in una tazza, che sfumava il calore in volute sbuffanti, spargendo in aria un aroma poco invogliante.
“Ehi, Bionda chioma, è inutile che ci trucchiamo da occidentali se poi non si può avere un caffè decente” stropicciò un piccolo tovagliolino sotto i baffi nero lacca, e seguitò, ricevendo al solito di risposta “hmm…sì, certo, hmm” alle sue lamentele:
“Mei, lo sai che non intendevo offendere nessuno, ma questo caffè cinese è imbevibile. E dire oggi si può avere a buon prezzo tutto quel che si vuole dall’estero. Lo dico io, i miei genitori neanche si sognano quel che si può ottenere con la tecnologia. Sono fossilizzati su un’idea di commercio che prevede questo e quell’altro e… “Le pareti del locale erano malandate, le la carta da parati era tappezzata di poster e immagini di film occidentali. S’indovinava sotto una carta lustra l’affresco del Presidente, ormai sbiadito e annoiato. Ling parlava. Mei nel frattempo pensava alla serata da trascorrere col suo boyfriend, al cinema appena inaugurato, ma non mancava di emettere mugugni meccanicamente, a dissimulare attenzione ai passaggi chiave della prosopopea di Ling Bao, “…e in pochi giorni si può ricevere il miglior caffè direttamente dal Brasile!”
Ling sembrava poco curarsi delle barriere governative imposte ai commercianti. Dacché era riuscito a farsi mandare un videoregistratore dall’Europa, Ling era divenuto euro-cinese e soprattutto fervidamente anticomunista, liberalista e chissà poi cosa. Continuò a pontificare sugli effetti della nuova onda economica della Tigre cinese, e sulle pressioni nei mercati occidentali. Ma a mezzo del discorso Mei sbottò, forse per tagliar corto e poter chiudere:
“Già, sarà per queste tue idee di rovesciar tutto che i tuoi ti hanno destinato al vagabondaggio piuttosto che occuparti del retrobottega. E poi, dimmi, se alzo il prezzo del caffè non verrai più a scroccarlo gratis, dicendo che non vale il soldo!”. Davvero non gliene voleva, Mei, anzi talvolta riusciva a sembrarle simpatico, ma non era serata. Questa sera aveva altro cui pensare, c’era una motoretta che doveva venire a prenderla; sopra un tizio un po’ butterato che si chiamava Pu Yi, come l’imperatore.
Il povero Ling si ritrovò nella strada bagnata, un po’ indispettito dal mondo e dal suo Paese grande e sudicio. Si ficcò le mani in tasca zufolando un motivetto scese ciondolando verso il mercato. Lì c’era davvero di tutto, e di miseria ce n’era ancora. Non la miseria dei contadini, ma la miseria dei nuovi ladroni, dei furfanti, degli spacciatori di facili illusioni. Ma in fondo la cittadina non era poi male, c’erano promesse di crescita, di lavoro e guadagno. Frattanto egli era indeciso se fare il poeta o il mercante, o il politicante: almeno a parole sapeva insultare il comunismo, o quel carcame che ne era rimasto dopo l’inizio dell’era economica, meglio di chiunque. A voce bassa però, senza correre il rischio di farsi arrestare. Ricordava quel giorno, la piazza Tian-an-men sotto le luci della sera, gli studenti i carri armati due borsine di plastica nelle mani, gli assassini. Lo aveva visto in una cassetta mandatagli dall’Italia. Aveva ancora la grazia di quella terribile memoria, tradotta nel bianco e nero del televisore. Questo, si deve riconoscere, è un punto a suo favore.
An Lan procedeva a passi cauti lungo la via, ora i gelsi che parevan bianche sagome in agguato sfilavano alla sua destra mentre ella camminava e via via s’inoltrava nelle trame dei suoi pensieri, senza badare alla pioggia che seguitava costante. Ricordi, frammenti, tutto lì il malanno della sua anima, stratificazioni del sentire. Si fermò per cogliere con lo sguardo la goccia che si formava nelle vene di un’ampia foglia, come da rigagnoli irradiati nella carne verde che verso la punta si univano in un piccolissimo fiumiciattolo, una grossa goccia. Dettagli, così era il mosaico della sua anima; il suo nome di famiglia, An, significava tranquillità, silenzio, e per tracciare il carattere si doveva scrivere tetto e mettervi sotto la donna. Il nostro lascito di confucianesimo, pensava sorridendo di sé ‘donna’ e ‘casa’: la casa lontana a Changsha. Lan indicava il color blu.
Ora sentiva strani i propri passi rumoreggiare sopra un poco di terriccio, portato in strada dal cantiere lì accanto. Perché strani? si chiese, e in un momento precipitarono insieme quei castelli di carte ch’erano le sue divagazioni, le sue distrazioni: si rese conto di un fatto solo. Il portone della scuola lo aveva saltato da un pezzo, la monotonia del muro dell’edificio s’era interrotta, gli steccati della campagna si indovinavano nella nebbia. “Cielo” sospirò, e si volse in fretta per tornare sui propri passi e raggiungere la sua classe, strinse al seno la cartella dei libri e affrettò nervosamente l’andatura.
Quasi alla soglia della scuola, udì un motore sferragliarle accanto, e una sporca due ruote arrugginita saettò e la sfiorò di un soffio, facendole ruzzolare la cartella, i libri e i fogli rovesciandosi sul selciato oleoso. Un sospiro più lungo e sofferente le sfuggì dalla bocca, gridò qualcosa?"damn! ?" al maldestro centauro e represse la rabbia fino a velar di lacrime il viso. Lacrime e pioggia si mischiavano sul viso ancora infantile, respirava affannosa con le spalle pigiate al muro, senza raccogliere i volumi che si saturavano d’acqua, gonfiando l’inchiostro sulle pagine di cartaccia. L’imperatore rombava lontano quasi in un’eco di memoria, cavalcava il nuovo balzo in avanti col suo ferraccio. E i rumori della città si fusero col respiro, tutta la patina unta della strada, dei ristoranti e dei motori ansimavano in una sola voce, ridondanti e grevi, nella solitudine di ognuno.
An si piegò e raccolse di scatto una lettera caduta con i libri. Presa con certa cura, la fece passare sotto il mento, si calmò lentamente, risentendo la pioggia e il sale rigarle il viso. Una lettera scrittale da me. “Poi penserò ai libri, ai ragazzi e alla lezione”
Lungo la strada la pioggia continuava a comporre minuscole meraviglie, giocando con l’olio colato sull’asfalto, compiendo arcobaleni sotto il temporale, chiazze mirabili nell’alchimia del puro e dell’impuro, del giorno e della notte, dello Yang e dello Yin. E vi formavano un drago dalle scaglie policrome, una nuvola di ideogrammi, tutte le cose che si trovavano nell’emporio del signor Tang, tutte le cose che non si potevano ancora vedere nel grande grigio Paese. Senza che nessuno le osservasse...
Paolo Veronese
1234
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0