Quando mi svegliavo guardavo il soffitto bianco sopra di me.
Lo osservavo, immobile, le braccia inerti lungo il corpo, e mi chiedevo: "Dove sono?"
Ogni mattina andava in questo modo, avevo bisogno di qualche istante per concepire dove mi trovassi. Poi procedevo, mi alzavo e tiravo su le persiane, sapendo perfettamente che avrei visto il solito cielo assolutamente azzurro senza una briciola di nuvole.
Poi guardavo il mangimificio, sulla mia destra, intensamente, quasi per paura che durante la notte un qualche prodigio lo avesse fatto sparire. Invece il mangimificio c'era, grande, solido, tristemente desolato fra erbacce e cespugli incolti.
Mi bastavano pochi minuti per essere pronto. Sentivo forte il profumo del caffè che Mohamed stava preparando.
"Svelto che anche stamattina siamo in ritardo" gridava il mio socio.
"Arrivo" gli rispondevo finendo di vestirmi. Così iniziava una nuova giornata di lavoro.
D'inverno, appena usciti dagli uffici dove erano i nostri alloggi, li vedevo lì, in fila lungo il capannone, gli operai egiziani, marocchini, ciadini, centroafricani, sudanesi, e altri ancora, in faccia al sole che stava nascendo, e in quelle fredde mattine soltanto il sole alto riscaldava quegli uomini assonnati, e la sabbia rossa che andava a ricoprirsi di erba verde a seguito delle più frequenti piogge invernali.
La primavera giungeva in pieno inverno in quel deserto rosso e arso.
Io e il mio socio raggiungievamo un piccolo ufficio, su una bassa costruzione un po' discosta dal capannone, che era il nostro punto di partenza e di ritrovo. C'era, affiancata all'ufficio, anche una piccola officina discretamente attrezzata. Di solito ci voleva qualche minuto al mio socio per svegliarsi completamente, e allora si sedeva da qualche parte con la testa fra le mani in silenzio. Intanto già ferveva l'attività e il progressivo accendersi di motori di tutti i tipi e i rumori meccanici dei macchinari, producevano un ronzio che aumentava di intensità fino a stabilizzarsi quando il mangimificio raggiungeva il pieno regime. Allora il mio socio si riprendeva e si andava a fare quello che c'era da fare. Era stato lui a propormi l'avventura africana.
Conosceva come le sue tasche quel mangimificio ai margini del deserto. Lui c'era quando, qualche anno prima, era stato costruito, e quando tutti i macchinari e quant'altro necessario per produrre mangime, era stato montato esattamente al suo posto. Il problema era mettere in moto quell'impianto e farlo funzionare al meglio delle sue possibilità. Ed era questa la sostanza "dell'avventura africana", per questo avevamo accettato di partire dalla comoda Italia, ed eravamo lì, ed era questo che si aspettavano da noi, ed è proprio questo che abbiamo fatto. E qualche volta, dal nostro punto di ritrovo, si guardava il grande e sbuffante edificio d'acciaio e gli enormi allineati silos, e soddisfatto il mio socio esclamava: "Alla fine ce l'abbiamo fatta".
"È vero, ce l'abbiamo fatta", ripetevo io. Il resto non importava perchè si trattava di una sfida che era stata vinta, e in molti non ci avrebbero creduto.
E quando partimmo con pochi stracci e un biglietto d'aereo di sola andata per Tripoli, qualcuno disse che eravamo pazzi, che era troppo rischioso, in Libia poi, con quel pazzo di Gheddafi. Invece quando fummo in quell'aspro territorio e ci incontrammo con il ricco imprenditore Nasser, bastò una reciproca occhiata: aveva bisogno di noi, nel volgere di qualche minuto l'accordo fu stipulato.
Ci siamo messi al lavoro e abbiamo fatto funzionare e ci siamo occupati a dovere di quel dannato opificio, e andava a tutta birra ed eravamo fieri di lui e di noi.
Sia ringraziato Allah il compassionevole, e Maometto il suo profeta, la pace sia con lui.