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Quando il buio
Dietro la facciata di uomo per bene, Valfredo celava la sua seconda vita di killer professionista. Tuttavia quella notte una presenza aveva scosso le sue certezze, facendole cadere come foglie d'autunno.
Adesso, tra le mura di casa ripensava a quella figura vestita di nero con un cappello a falda larga e rigida. Gli si era presentata nel parcheggio sotterraneo, dove attendeva il socio della vittima. Era apparsa come un fantasma, il volto della figura era completamente ingoiato dall'ombra della larga tesa; nondimeno il suo sguardo buio posato su di sé lo aveva fatto sussultare. La figura in nero si era poi dileguata, lasciando dietro di sé un lezzo nauseabondo.
Valfredo aveva ripreso a respirare e la sua mente si era sforzata di elaborare l'incontro come uno scherzo procuratogli dalla tensione, benché non potesse negare a se stesso che le sue narici erano pregne del puzzo della morte.
Doveva eliminare un ricco imprenditore legato al narcotraffico. Inoltre il "contratto" prevedeva che l'omicidio ricadesse sulla testa del socio della stessa vittima.
Appena il socio uscì dall'ascensore Valfredo scalzò dalla mente ogni indugio e lasciò riaffiorare l'istinto del predatore. Neutralizzò l'uomo con un potente narcotico, poi lo caricò nel vano bagagli della bmw, negandogli così qualsiasi alibi per quella notte.
Raggiunto un luogo sicuro, Valfredo prelevò dal corpo privo di sensi fibre di tessuto, dei capelli e piccoli frammenti di pelle raschiati dalla gola simulando un graffio. In tal modo aveva materiale per inquinare la scena del crimine. Completò l'opera indossando il cappotto e le scarpe del socio, poi attese.
Il disco argenteo della luna fu oscurato da nubi dense e lente come un corteo funebre. Quando Valfredo raggiunse la villa della sua vittima i primi lampi graffiarono il cielo.
Eludere l'antiquato sistema d'allarme era stato per lui un gioco da ragazzi, aveva anche tolto l'energia elettrica a tutta l'abitazione. Lasciò spalancata la porta finestra e fece dei rumori che soverchiassero quelli del temporale: doveva stanare il suo uomo in modo da rendere credibile una colluttazione. Intuendo che l'imprenditore era armato, il killer si appiattì dietro un mobile del soggiorno. Subito dopo si udì aprire una porta al piano di sopra e il disco luminoso di una torcia elettrica baluginò lungo la scala. Come previsto l'uomo si mosse lento verso la porta finestra. Il lampo che seguì fece brillare il metallo di un revolver. Il killer gli apparve alle spalle bloccandogli la mano armata e infilandogli uno stiletto tra le costole. L'uomo emise un gorgoglio simile a uno scarico appena sturato, poi si afflosciò a terra. Valfredo si rialzò e per un momento ebbe l'impressione che da quel buio migliaia di occhi lo stessero osservando.
Il temporale stava ora infuriando come se volesse distruggere l'intera casa. Un urlo echeggiò per la scala sovrastando i tuoni. Valfredo balzò sui gradini e fu subito addosso alla donna. Le teneva il viso premuto sul gradino, e ancora quella sensazione di essere osservato dal buio. Sentiva i nervi come cavi d'acciaio, voleva gridare invece scaricò la tensione sbattendo la testa della donna sullo scalino: uno, due, tre quattro volte. Alcuni denti rotolarono giù per la scala come perle di un rosario, poi le infilò lo stiletto nella nuca fino a oltrepassare il collo e impiantarsi nel legno del gradino.
Valfredo si tirò in piedi ansante e incredulo: era la prima volta che perdeva il controllo durante un'operazione. Il cranio gli martellava come se una forma aliena lo stesse usando come uovo prossimo alla schiusa, ma aveva un lavoro da compiere. Perlustrò il piano superiore per non avere altre sorprese, poi ridiscese a completare la messinscena. Ripristinò l'energia elettrica. Ora doveva occuparsi del cadavere dell'imprenditore: con cura gli prese la mano e applicò sotto le unghie i capelli e i minuscoli brandelli di pelle prelevati dal socio.
L'aria era satura dell'odore ferrigno del sangue. Valfredo ispezionò nuovamente la scena, dedicando attenzione anche al cadavere della donna: tutto sembrava fatto a regola d'arte. Il cappotto era schizzato di sangue, ma era del socio quindi andava bene così.
Spense tutte le luci e quella sensazione di esser osservato lo pervase nuovamente. Quando fece per uscire un lampo delineò la figura nera col grande cappello nello specchio della portafinestra.
"Chi cazzo sei?" Urlò estraendo la pistola, ma quando la puntò verso la porta, la figura era scomparsa.
Si lanciò all'esterno sotto la pioggia. Là fuori c'era solo un fottuto buio spezzato dai lampi e il lezzo della putrefazione.
Seppur con la mente in tumulto, Valfredo completò il lavoro e quando tornò nella sua abitazione, la città era ancora avvolta dalle tenebre.
Seduto al tavolo della cucina l'uomo sorseggiava una tazza di caffè. Chi o che cosa aveva visto quella notte? E ancora:cos'era quel tanfo nauseabondo? Tali domande continuavano a girargli per la testa come spiriti senza pace. Sicuramente la polizia non c'entrava nulla: altrimenti avrebbero già circondato la casa facendo un casino d'inferno.
Valfredo terminò il caffè, ma quando abbassò la tazzina, vide qualcosa al suo interno. Il fondo del recipiente, contro ogni legge della fisica, era diventato buio. L'uomo lo osservò con curiosità , poi cercò di infilarvi un dito, ma subito lo ritrasse terrorizzato:da quel piccolo buio, un occhio lo stava osservando. Scagliò la tazzina contro il muro e rimase a contemplare i cocci. Si mosse nervoso per la stanza ripetendo a se stesso che andava tutto bene. Sforzandosi di simulare una certa normalità, prese lo zucchero e aprì l'antina del mobile, ma anche qui l'interno del pensile era buio con due occhi malvagi che lo fissavano. Indietreggiò sbattendo l'anta e corse in soggiorno. Da un cassetto estrasse una pistola, intanto anche i telai di porte e finestre si stavano oscurando e nel buio rilucevano occhi silenti. Valfredo sparò in direzione della porta d'ingresso, senza sortire alcun effetto. Il buio continuava ad allagare le stanze come un fluido nero e canceroso.
Quando Valfredo, spinto dalla disperazione, puntò verso di sé la pistola, vide un occhio spuntare dal buio della canna, mentre in bocca percepì il formarsi di un bulbo gelatinoso. In quel momento i sensi lo abbandonarono e cadde a terra come una marionetta cui sono stati recisi i fili.
Il sole era già alto e lame di luce penetravano le finestre solleticando minuscole particelle di polvere. Valfredo lentamente riprese i sensi. Si passò una mano sul viso, nell'altra stringeva ancora la pistola:
"Un incubo... è stato solo un incubo". Pensò. Il pannello della porta blindata presentava fori di proiettile: evidentemente nel delirio aveva avuto una qualche reazione. Spalancò una finestra e inspirò a pieni polmoni. Mai come quel giorno si sentì contento di vedere il sole. Aveva voglia di andare fuori. Si fece una doccia veloce, ingollò una buona caraffa di succo di frutta e uscì.
L'uomo fece retromarcia lungo il vialetto, ma prima di uscire in strada si ricordò di avere un'arma sotto il cruscotto. Alla luce del sole lui era uno stimato professore e non voleva con sé nulla che potesse comprometterlo. Si abbassò, aprì il bauletto e infilò la mano, restando inorridito nel vedere due occhi che lo fissavano dal buio del cassetto. Con il cuore in tumulto, l'uomo schizzò fuori dell'auto e si mise a correre raggiungendo una via trafficata. Grondante di sudore, si fermò a prendere fiato poggiandosi a un muretto. Il traffico e la gente che si muoveva sui marciapiedi gli diede un momentaneo senso di calma, ma il panico subito lo incalzò, quando il suo sguardo si posò su due occhi privi di corpo apparsi nell'andito buio di un palazzo.
Valfredo riprese a correre circondato da sguardi malvagi che emergevano da ogni ombra, e dai recessi bui laddove al sole era negato di giungere. Attraversò la strada gridando, poi l'urlo si spense seguito dal tonfo sordo e dal rumore di ossa spezzate. L'auto si bloccò con le gomme che gridavano sull'asfalto. Il corpo rovinò a terra diversi metri più in là.
Valfredo giaceva supino in una postura grottesca e, tra la piccola folla che lo avvicinava, riconobbe la figura vestita di nero.
"chi... chi sei?" Riuscì a proferire col sangue che inciampava tra i denti.
La figura alzò la tesa del cappello e Valfredo stavolta non vide occhi, naso o bocca, ma solo il buio.
"Dovresti sapere chi sono..." Ci fu una breve pausa. La figura in nero si abbassò su di lui
E riprese a parlargli con un sussurro raschiante:
"Io sono le Tenebre... sono colui che ti ha sempre protetto, mentre compivi i tuoi deliziosi misfatti... e ora, IO ho bisogno di te!"
La gente lì intorno, ignara di ciò che stava accadendo, guardava con pena il corpo che sussultava scomposto, mentre attendevano gli inutili soccorsi. Qualcuno si allontanò trattenendo i conati di vomito, altri si chiedevano che cos'era quel puzzo mefitico, come se il ferito fosse già putrescente.
"Sei stato un omicida e ora un suicida: quale migliore soldato per le mie legioni!" Sentenziò la figura in nero aprendo un poco la falda dell'impermeabile.
Valfredo esalò l'ultimo respiro e altri due occhi si aggiunsero al buio.
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- Ben scritto, un po' macabro...

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