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Il Prof. Segal, spia per diletto
Meglio nutrire seri dubbi
su chi ha sempre
le idee chiare su tutto.
Anche se chi vive sempre nel dubbio
è un infelice.
- La narrativa moderna inizia nel '700 con Lawrence Sterne, e finisce nel '900 con Joyce.
Con questa frase lapidaria, il professor Segal apriva ogni anno il corso di narrativa alla University of Louisiana. E, dopo una lunga pausa, aggiungeva sarcastico: - Tutto ciò che viene dopo è puro esercizio di scrittura! - In un mondo di cagadubbi, questa nettezza arrivava a destinazione come uno schiaffo nel dormiveglia.
Henry Segal, oltre ad essere una persona diretta, senza peli sulla lingua, era uomo dal carattere assai difficile. La moglie era morta di cancro da parecchi anni. Il figlio si era sacrificato eroicamente nella Guerra di Corea. E questa fine gloriosa era, insieme alla Letteratura, la sua unica consolazione. In un crepuscolo di vita che sarebbe trascorso fra pochi ricordi e tanti libri. All'università gli avevano affibbiato il soprannome di Acido Muriatico. A causa dei suoi giudizi netti. Brucianti. Corrosivi. Era un uomo senza dubbi. Magari con idee un po' bizzarre. Spesso eccessive. A volte estreme. Raramente sbagliate. Insomma, nessuno avrebbe potuto accusarlo di non avere solidi punti di vista. Non aveva amici. L'unica distrazione che si concedeva era qualche viaggio. Si riteneva un buon americano. E lo era. Animato da un forte spirito patriottico, per tutta la vita era stato un sincero repubblicano. Dell'ala moderata. Questo amore per la sua patria gli aveva reso meno drammatica la morte del suo Ron. Il pensiero che quel ragazzo pieno di vita avesse servito così generosamente il suo paese lo ripagava, anche se molto parzialmente, della sua fine. E della sua assenza. Sempre presente in ogni momento della sua vita. Tanto che spesso, sprofondato nella sua poltrona a leggere, il libro gli scivolava in grembo, una stretta lo afferrava alla gola, e grosse lacrime scendevano incerte e smarrite attraverso le profonde rughe di quel viso severo.
Da qualche tempo la routine della sue giornate era turbata da un fatto inaspettato. Assurdo, pensando che lui, al di là del carattere aspro, era un uomo tranquillo. Le sue brusche esternazioni non gli procuravano nemici. Venivano generalmente archiviate come manie di un vecchio professore. In molti casi erano addirittura viste con simpatia. Infatti qualche studente, di tanto in tanto, suonava alla porta e con la scusa di approfondire la sua visione della Letteratura, ne approfittava per fare quattro chiacchiere con il bizzarro prof. Da alcuni giorni aveva una strana sensazione: essere pedinato. Prima un uomo vestito di scuro che, lungo il viale di casa, appena lui si era girato per attraversare, aveva finto un atteggiamento disinvolto, tradendo un comportamento a dir poco anomalo. Poi, all'uscita dalla biblioteca comunale, aveva avuto la sensazione che un'auto lo seguisse. Procedeva troppo lentamente per non destare sospetti. Non c'era nessun motivo, nemmeno il panorama, per correre il rischio di fondere il motore. Ma al Prof. Segal, che non mancava certo un acuto spirito di osservazione, tutto questo era sembrato ancora più strano. Come se chi lo pedinava non volesse di proposito passare inosservato. Ma avesse messo in scena quegli improbabili appostamenti per saggiare i suoi riflessi, il suo stato di allerta. Oppure prepararlo ad un incontro. E così avvenne. Dopo altri due o tre tallonamenti, l'ultimo terminato con una breve, affannosa corsa del professore su per una scalinata, finalmente ci fu l'incontro ravvicinato.
Un bel giorno, una limousine nera gli si affiancò mentre, a piedi, stava rincasando. Due uomini alti e longilinei, in abito scuro, scesero e lo avvicinarono. Gli fecero un cenno di saluto, toccandosi la tesa del cappello. Uno, il più anziano, gli disse, mostrando un tesserino: - Pofessor Segal!? Lei è il professor Henry Segal, vero?
Prima di rispondere, alzò il sopracciglio destro, e li fissò negli occhi lungamente, con aria severa. Tanto da provocare in loro un certo imbarazzo.
- Sì, sono il Professor Henry Segal! - Disse con fiera e spavalda decisione.
- Professor Segal, dovrebbe cortesemente seguirci...
L'agente non riuscì a terminare la frase che Segal chiese con durezza: - E perché mai?
- È atteso nell'ufficio della Central Intelligence di Washington per comunicazioni urgenti. - E prima che potesse interromperlo di nuovo, proseguì: - Un aereo privato la sta aspettando all'aeroporto e la riporterà di nuovo a casa, appena terminato il colloquio.
Il tono con il quale gli si erano rivolti non lasciava dubbi: era un invito che non poteva rifiutare. Anche se avrebbe voluto mandarli al diavolo. Salì in macchina. L'auto nera si allontanò rapidamente. Arrivò all'aeroporto senza che ci fosse più uno scambio di parole con i suoi angeli custodi. I motori del piccolo Learjet stavano rollando. Salì la scaletta, tenendosi il cappello; uno strano incrocio tra un agente e uno stuard lo fece accomodare, e gli chiese se desiderava qualcosa. Rispose di no, stava bene così. Durante il volo cercò di capire il perché di quell'improvvisa convocazione. Forse qualcosa legato alla morte del figlio. Poi ci rinunciò e schiacciò un pisolino. Era un uomo dai nervi saldi.
L'auto stava procedendo ad andatura sostenuta lungo la highway. Improvvisamente l'agente seduto a fianco del guidatore si girò e gli allungò una busta, aggiungendo: - Professor Segal, dovrebbe avere la cortesia di leggerne il contenuto, prima di arrivare.
Segal allungò la mano, la prese, l'aprì e, dopo aver inforcato gli occhiali, lesse: Egregio Professor Segal, mi scuso per averla distolta così bruscamente dai suoi impegni. Gradirei parlarle. L'aspetto nel mio ufficio. Appena arriverà dica il suo nome e la condurranno da me, senza ulteriori controlli. Ted Sullivan. CIA Recruiting Chief Officer.
L'ufficio era molto grande. Dalle finestre rivolte a ovest si poteva assistere ad un bellissimo tramonto rosso fuoco che esaltava uno skyline da cartolina. Ted Sullivan, seduto alla scrivania, stava terminando di parlare con la sua segretaria. Dopo pochi secondi la congedò e si alzò di scatto, venendogli incontro con un sorriso largo quanto la sua faccia. E la mano tesa verso il basso, su di un braccio orizzontale, rigido come l'asta della bandiera stelle e strisce. Era un ometto alto un metro e sessantacinque. Centimetro più, centimetro meno. Sui quarant'anni. Forse trenta, portati male. La sua testa, colpita da quella impietosa calvizie chiamata giocosamente "tabula rasa", rifletteva tutto quello che stava sopra di lui. Stringendogli un po' nevroticamente la mano gli disse, con un'enfasi che lo sorprese non poco: - Esimio professore, quale immenso piacere fare la sua conoscenza. Ha fatto un buon volo? Le porgo ancora le mie più profonde scuse per averla fatta prelevare in modo così inusitato e brusco, ma avevo le mie buone ragioni, che spero avrà la cortesia di ascoltare.
Colpito da quel tono cerimonioso, così poco si ai ei, ma per nulla intimidito, Segal rispose: - Effettivamente spero ci siano delle valide ragioni.
Sullivan incassò, annuì, e lo fece accomodare nel salottino davanti all'immensa vetrata.
- Prima di entrare in argomento, posso offrirle qualcosa?
- Un caffè, grazie!
Premette su di un tasto due volte e il caffè arrivò con una rapidità che sembrava stesse aspettando impaziente fuori dalla porta. Probabilmente due volte era il segnale in codice per il caffè. Tre per una coca. Quattro per un whisky. Per una cena forse avrebbe composto una sinfonia. Segal bevve sorseggiando. Mentre Sullivan quasi scompariva nella grande poltrona di pelle.
- Come si trova a Baton Rouge? All'Università? Pare che insegnare le dia grandi soddisfazioni. D'altronde nella vita ci devono essere delle cose che ti fanno dire: è dura, ma per fortuna c'è questo e quest'altro che mi impegna. Senza il quale non potrei vivere.
Segal, senza darlo a vedere, si stava spazientendo e si chiedeva quando il suo interlocutore gli avrebbe finalmente rivelato il motivo della sua presenza a Washington. Al ventiduesimo piano della sede dell'organismo a cui era demandato il controllo del mondo. Ma non poteva essere lui a fare la prima mossa. Così decise di stare al gioco. Di dargli corda. Sempre più curioso di dove sarebbe andato a parare. Mantenendo un tono asciutto, un'espressione un po' distaccata, rispose: - Mi trovo molto bene a Baton Rouge. Un po' meno da quando mia moglie non c'è più e, come saprà, da quando mio figlio ha perso la vita. Laggiù in Corea. Ma così va il destino! Il tempo non rimargina... attenua solo le ferite!
- Certo, certo, deve essere stato tremendo. Anch'io ho due figli piccoli, e spero che il maschio, quando sarà in età, pur servendo la patria con onore, possa trovare un mondo rappacificato. Se non altro meno turbolento. E per questo che noi...- facendo roteare l'indice nell'aria a indicare tutto il palazzo - ... nel nostro piccolo, ci adoperiamo.
Speranza del cazzo, pensava Segal. Perché perfino un cieco, dal suo osservatorio privilegiato, avrebbe visto che le probabilità che il mondo potesse trovare una certa tranquillità, erano uguali a zero. L'equilibrio del mondo si regge sui conflitti. Gli interessi si nutrono di guerre. E queste non sarebbero mai cessate completamente. Era un'illusione. Propaganda democratica. Perché gli diceva quelle cose? Lo aveva preso per un allocco? Non poteva essere così stupido da crederci. Di certo non lo era. Almeno fino a quel punto.
- Ha mai pensato, durante la sua vita, di cambiare mestiere? Le è mai venuta la tentazione di provare l'ebbrezza di un nuovo lavoro?
- Se devo essere sincero: mai! Nemmeno per un istante. Non riesco a immaginare altra attività al di fuori dell'insegnamento. Mi piace troppo! In un altro ruolo sarei come un pesce fuor d'acqua!
- Allora... diciamo un'attività laterale, in aggiunta, ma compatibile con il suo incarico all'università.
A queste parole, il presentimento che si era insinuato nella mente del professore appena aveva messo piede nell'ufficio, cominciò a crescere e diventare pensiero dominante. Gli pareva ormai di conoscere i prossimi passi. Avrebbe potuto scriverli, metterli in una busta, e passarla a Sullivan dicendo: - Ted, permetti che ti chiami così, vero, figliolo? Apri e leggi. Se ho indovinato mi sganci mille dollari. - E invece il teatrino doveva continuare. Doveva recitare la parte dell'uomo ingenuo, per consentire a quel piccolo, vanitoso, ottuso burocrate di recitare la sua.
- Che tipo di attività?
- Ebbene, Professore, lei è un repubblicano, un buon patriota... mettiamo che la nazione dovesse avere bisogno di lei.
Ci siamo finalmente, pensò Segal.
- Se il suo Paese dovesse aver bisogno del suo contributo, come risponderebbe?
- Che per rispondere dovrei saperne di più.
- Giusto, giusto... mi sembra più che ragionevole. Mai dare risposte affrettate, diceva il Generale Patton.
Fra tutti i generali che poteva citare aveva scelto proprio quello giusto! La storia non doveva essere il suo forte, pensò il professore. Aveva confuso Patton con Eisenhower, probabilmente. Poi si disse: ci fa o ci è? Forse gli piace solo atteggiarsi a grande manager. E poi quanto parla. Parla e straparla. Dove lo avranno pescato? A una serata di beneficenza?
- Dunque le annuncio che la CIA ha bisogno di lei. Sono mesi che la teniamo d'occhio. L'abbiamo studiata a fondo e... lei è la persona che fa per noi.
- Sarebbe?
- La persona che ha tutte le qualità per ricoprire un ruolo delicato, una missione difficile.
- Ma no?
- Certo, glielo dico io, lei ha tutte le carte in regola per far parte della nostra grande famiglia.
Beh, se lo diceva lui, poteva stare tranquillo.
- Veniamo ai dettagli...
Meno male. Forse stavano per arrivare al beef. L'antipasto era stato piuttosto stucchevole.
- Lei, in quanto professore, può viaggiare all'estero senza dare nell'occhio. È plausibile che venga invitato da atenei oltreoceano a tenere lezioni su questo e su quello. Parigi, Oslo, Vienna, Praga, Atene... E durante questi soggiorni potrebbe, senza destare sospetti, incontrare gente, assumere notizie, scambiare informazioni in loco. Tutte cose che ci sarebbero di grande utilità. Per aggiungere tessere al nostro grande puzzle del mondo. Come diceva... - schioccò più volte nervosamente pollice e medio, alla ricerca di un nome che non veniva - ... in questo momento mi sfugge... "le informazioni valgono spesso più di intere compagnie armate di tutto punto".
Attribuire anche questa citazione a quell'intellettuale di Patton, pensò Segal, sarebbe stato troppo. Stavolta, l'amnesia era stata provvidenziale. Aveva consentito al buon Ted di salvarsi in corner.
- Cosa ne direbbe, Professor Segal, se le proponessi di diventare messaggero, ma che dico, "ambasciatore" della Central Intelligence Agency nel mondo?
A quella parola "ambasciatore" poco mancò che Segal seppellisse il povero Ted sotto una fragorosa risata. Riuscì a trattenersi a stento. Ripreso prontamente il controllo, prima di rispondere, pensò a tutto. Alle possibili risposte. Alle relative conseguenze. Ai margini di manovra. E concluse rapidamente che la risposta non poteva che essere una. Una sola. Anche perché, come si dice del presidente: good or bad he's still my president, altrettanto poteva dirsi della CIA. Era sempre un'istituzione del Paese. Andava rispettata. Con pregi e difetti. Sorrise leggermente e disse, con tono rilassato, quasi allegro: - Se pensate io abbia le caratteristiche giuste, perché no!? Mi piace molto viaggiare.
Il colloquio si protrasse per alcuni minuti. Ormai la decisione era presa. La cosa era fatta. Parto lungo. Un po' faticoso. Ma, per fortuna di Ted, senza taglio cesareo. La sera lo attendevano una raffinata cena ed un comodo letto in una suite dell'Hilton e la mattina dopo, alle nove, era già in aula.
Ah, trascuravo di dire, il professor Segal era ebreo. Un ebreo americano. Suo padre era arrivato negli Stati Uniti dalla Polonia. Fin qui non ho ritenuto importante precisarlo, perché una persona non si definisce certo per la sua religione. E, per quanto mi riguarda, Segal era un uomo di razza bianca, ma soprattutto un americano. Un buon americano come Giorgio Washington, Martin Luther King, Isaac Singer. Ho voluto specificare la sua condizione religiosa solo perché, da qui in avanti, avrà una certa importanza. Almeno per lui.
Riprese il suo lavoro all'università con l'impegno di sempre. Gli accordi con i suoi nuovi datori di lavoro erano stati definiti negli ultimi minuti di quell'indimenticabile, simpatico, caloroso colloquio. Avrebbero comunicato attraverso i libri. E altrettanto avrebbe fatto lui all'estero con le sue interfacce. Ma come? I titoli dei libri non avrebbero avuto importanza. Unica condizione: che fossero coerenti con la sua attività universitaria. I volumi avrebbero avuto delle sottolineature a matita, come abitudine del professore. Ma sarebbero state fatte con due matite diverse. Una normale per la maggior parte delle evidenziature, e una speciale che sarebbe andata a formare il messaggio segreto. A occhio nudo non si sarebbe notato nulla, ma se analizzate con una lente, la cui impugnatura conteneva una lampadina con un gas speciale, la graffite di diversa consistenza avrebbe rivelato la differenza. E così, mettendo insieme tante differenze, si sarebbe arrivati a comporre l'intero testo. Semplice e pulito. Altro che microfilm, inchiostro simpatico, messaggi cifrati, tacchi girevoli, capsule fasulle, macchine Enigma, e altre diavolerie del genere. Tutta roba per agenti segreti. Spie internazionali. Lui invece, come lo aveva definito Ted Sullivan, era "ambasciatore" della CIA nel mondo. Altra classe. Mica noccioline.
Dopo circa due mesi ricevette un invito dalla Università di Heidelberg per tenere un breve corso su Virginia Woolf. E la mattina seguente trovò, nella cassetta della posta, un pacchetto contenente due libri e una bella lente di ingrandimento: una Bausch & Lomb con l'impugnatuta di pelle scura. Più una scatola di metallo, con una serie di matite dall'aspetto molto comune. I libri erano: Gita al Faro, con il messaggio per lui come "professor Jekill" e Mrs. Dalloway, per lui come "ambasciatore Mr. Hide". Gita al faro conteneva tutte le istruzioni per il viaggio e la sua permanenza nella graziosa e accogliente cittadina del Baden Wurttenberg. Naturalmente il messaggio, pazientemente composto, andava un po' interpretato, ma creatività e acume a Henry Segal non facevano certo difetto. Giusto per sua conoscenza, compose anche il messaggio di Mrs Dalloway. Niente di sconvolgente. Ordinaria amministrazione. Se quelli erano messaggi importanti, la guerra fredda sarebbe rimasta ibernata per secoli.
Partì con un volo TWA diretto a Berlino. E da lì, in un'ora, atterrò ad Heidelberg con Lufthansa. Trascorse una settimana assai piacevole tra poco dovere e tanto piacere. Incontri non programmati con studenti, aperitivi, cene, party, e numerose altre cose molto amene, della cui esistenza si era dimenticato. Un pomeriggio, come programmato, incontrò il suo collega in Germania, lo salutò, si scambiarono i libri, e tutto finì con una stretta di mano. Vita facile, pensò, per noi "ambasciatori" della CIA. Non poté, per un attimo, evitare di pensare a quel mitomane di Ted Sullivan. Che riteneva il termine spie troppo volgare: cosa da Notorius.
Fu poi la volta della Spagna. L'Università di Salamanca lo invitò a tenere un corso sul Tristram Shandy di Lawrence Sterne. Sterne era uno dei suoi cavalli di battaglia: in quelle lezioni mise tutto se stesso: la sua conoscenza, la sua abilità, la sua verve; tanto che alla fine studenti e uditori si alzarono in piedi e gli dedicarono un affettuoso, interminabile applauso. Fu un soggiorno strano quello spagnolo. Sorprendente, imprevedibile, e scoppiettante come petardi impazziti durante le sagre di paese. La Spagna, sotto il generalissimo, era un paese a dir poco anestetizzato. La vivacità, la creatività, la generosità, il dolore e i dramma degli spagnoli si intravvedevano a sprazzi durante le feste di matrimonio, nel flamenco, e nelle corride. Per sottrarsi agli sgherri della polizia segreta franchista, Segal e il suo collega spagnolo dovevano incontrarsi proprio a " La Glorieta", la plaza de toros della città. Quel giorno successe di tutto. Niente sembrava andare per il verso giusto. I due impiegarono non poco a incontrarsi. Forse un'interpretazione errata del testo, una sottolineatura di troppo, uno scherzo del destino. Fatto sta che solo dopo tre quarti d'ora si trovarono finalmente fianco a fianco. Poi, l'mprevedibile. L'assurdo. Il torero, certo Manolo Escobar, aveva assaggiato la polvere per ben tre volte a causa di un toro che sembrava uscito da una mucca e un fantasista del Real Madrid. Gento, così veniva chiamato per estro e rapidità fin da piccolo, invece di caricare diritto come tutti i tori, a metà corsa, senza rallentare, cominciava a fintare e dribblare con rapidi slalom, proprio come Gento, la Galerna del cantabrico: l'ala sinistra che correva così veloce da meritarsi la definizione di gentometrista. Sta di fatto che Manolo perdeva la concentrazione, l'orientamento e la fiducia in se stesso e, sfiorato da Gento, volava a terra rovinosamente. Muleta, spada, onore compreso. Per fortuna senza gravi danni. Alla quarta carica, proprio nel momento degli zigzag più funambolici, al colmo dell'esasperazione, Manolo, furente, con mossa tanto fulminea quanto inaspettata, estrasse dal corpetto una piccola pistola e scaricò addosso all'animale l'intero caricatore. Sei colpi. Tutti a segno. Gento, probabilmente più sorpreso del pubblico, improvvisamente ammutolito, gli arrivò ad una spanna dai piedi, sbuffò, lo guardò esterrefatto, e spirò. Poi, d'un tratto, il silenzio fu rotto da un boato da stadio e tutti cominciarono a gridare, inveire, gesticolare, spintonare, lanciare cuscini. Nel caos furono entrambi urtati e i libri caddero sulla gradinata. Li recuperarono, parecchio malconci, dopo una specie di lotta corpo a corpo, senza esclusione di colpi. Le pagine importanti erano salve. La mattina dopo i giornali nazionali titolavano: Ieri, all'Arena di Salamanca, sfida all'O. K. Corral. La vita da "ambasciatore" cominciava a farsi interessante.
Come ho detto prima, il Prof. Segal era ebreo. Ma non frequentava molto né la sinagoga né la comunità. Contribuiva generosamente alla raccolta di fondi a sostegno di Israele; partecipava alle discussioni sulla questione israelo-palestinese; aveva le sue brave idee sioniste, ma niente più. Non aveva il rigore e la disciplina di un ortodosso. Rispettava probabilmente solo un decimo dei 613 mitzvot. Diciamo che apparteneva a quell'ala liberale, che qualcuno definiva laica. Anche se ho i miei dubbi che nell'ebraismo ci sia qualcosa di veramente laico. Prima che gli arrivasse un nuovo incarico passarono altri tre mesi. Non bisognava dare troppo nell'occhio: correre il rischio di bruciarlo così presto. Stavolta l'invito venne dall'Università degli Studi di Roma. Oggetto: una serie di letture su Isaac Singer, autore di lingua Yiddish. Anche in questa occasione stessa procedura.
Era primavera inoltrata, Il suo soggiorno romano fu particolarmente piacevole. Mangiò e bevve come non aveva mai fatto in vita sua. Fu perfino organizzata, in suo onore, una serata dalla Comunità ebraica, che si concluse con un suo breve discorso, molto applaudito. Una volta venne invitato da due studenti a trascorrere una serata sui colli romani. Fu una cena in cui si parlò molto, si affrontarono numerosi temi quali l'odio razziale, l'integrazione dei popoli e, dulcis in fundo: la questione israelo-palestinese. Era terminata da qualche anno la guerra con l'Egitto e gli animi erano ancora piuttosto accesi. I suoi interlocutori, ambedue molto giovani, non potevano certo definirsi di rigida ortodossia sionista. Sembravano piuttosto rappresentare le nuove tendenze, minoritarie, di un liberismo avanzato che riteneva la fondazione dello stato di Israele un errore storico. Uno di quelli che si compiono a caldo, sulla scia di avvenimenti drammatici, ma poi, alla lunga, si rivelano dei passi falsi. Situazioni senza ritorno. Loro avrebbero preferito, per i loro correligionari, un'integrazione completa nei paesi dove erano nati o, comunque, dove vivevano. Il Prof. Segal fu colpito in particolar modo dall'intervento del più giovane, Joshua, che con tono ispirato iniziò: - Non ho mai creduto che un popolo possa definirsi tale su basi religiose, o peggio ancora di razza. Che persone possano chiudersi volontariamente in una sorta di nazione ghetto. Non mi piacciono i ghetti. Risultato di libere scelte o imposti che siano. Fosse per me, Little Italy, Chinatown, Harlem non esisterebbero. Le persone sono persone. Né il colore della pelle, né la loro origine, né la fede religiosa possono essere una discriminante. Israele? Una scelta impulsiva. Un cedimento emotivo. Una soluzione sbrigativa. Ma il bello è che a questo mondo... c'è libertà. Anche di sbagliare. E quindi... - sospirò e prese fiato - ... felice il giorno in cui anche gli ebrei si considereranno un po' meno ebrei e più cittadini del mondo. Tutti i popoli sono cittadini del mondo. Di tutte le razze. Da parte mia, se un uomo è una merda: ebreo, nero, giallo, gentile, ariano, arabo, omosessuale, resta una merda. Se invece è decente, lo rimane a prescindere da pelle, religione, orientamento sessuale, appartenenza politica.
Era un discorso che aveva una sua logica. Che risentiva di qualcosa che era nell'aria. Che soffiava nel vento. Che si proiettava nel futuro. Che aveva colpito Segal. Fatto vacillare per un momento le sue credenze. E a cui il professore aveva cercato di contrapporre, da buon sionista, tutto l'armamentario delle argomentazioni classiche : le indicibili sofferenze della persecuzione nazista; gli orrori dei campi di sterminio; l'esclusione dalla maggior parte delle cariche pubbliche nei vari paesi, che durava da tempo immemorabile. E poi la diaspora! Dove la mettevano la diaspora!? La possibilità di tornare nella terra dei loro padri era sembrata rappresentare, negli anni immediatamente dopo la Shoa, non solo un piccolissimo riconoscimento dei loro drammi, una sorta di simbolico risarcimento per le pene subite; ma soprattutto l'opportunità di riappropriarsi del loro destino, della loro vita. E questo, dopo millenni, non era cosa da poco. Questa sfilza di argomenti, mentre gli usciva dalla bocca, gli suonava più una giustificazione che frutto di convincimento profondo. In ogni caso era giusto rispondere così. Non avrebbe potuto correre il rischio di compromettere, non tanto se stesso, quanto la sua missione, imbarcandosi in questioni così controverse, con risposte che non fossero più che ortodosse. Forse era un tranello. Magari il Mossad era in ascolto. La sua proverbiale schiettezza aveva dovuto cedere il posto alla diplomazia. Alla ragion di stato. Come si addiceva a un buon ambasciatore.
Tornato a Baton Rouge riprese le sue solite abitudini, la solita rassicurante routine: da casa all'Università e ritorno. Ma questo ultimo viaggio, oltre a tanti gradevoli ricordi: le visite ai musei, alle gallerie d'arte, il cibo, la vivacità dei romani, la calda accoglienza della comunità, gli aveva lasciato anche un'altra cosa. Più concreta. Più profonda. Una sorta di indimenticabile souvenir: i discorsi fatti quella sera di maggio sui colli romani. Quei discorsi non smettevano di agitarsi nella sua testa. La lucida testa del Professor Henry Segal, Acido Muriatico, l'uomo che non aveva dubbi. Che iniziava i suoi corsi con affermazioni così radicali da mettere in soggezione chiunque. Le parole ispirate di quel ragazzo, poco più che ventenne, mentre il tiepido ponentino gli muoveva dispettoso i capelli, avevano aperto una piccola crepa nel muro delle sue certezze.
Non condivideva le sue tesi, ma una cosa l'aveva capita: se ogni tanto ti capita di svegliarti in un altro posto, in un letto diverso dal tuo, lontano da casa, magari al di là dell'oceano, il mondo ti appare in modo diverso. E al mondo c'è ancora tanto da vedere. Da scoprire. Tanto da imparare.
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