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La porta
«Aneto, paprica e una fialetta di kirsch… Però! Credevo che la signora Carla non andasse oltre l’uso di prezzemolo e basilico… salvia raramente! Ed invece è qui ad impartire lezioni di nouvelle cuisine imparate dalla Clerici e dai suoi cuochi del mezzogiorno! Cose mai viste…
Proprio mai viste: chissà dove zia avrà infilato il barattolo dell’aneto… Certo avrei potuto far fare alla mia laurea in biologia una fine migliore di questa: a chi mi avesse detto, dopo il mio trenta in chimica organica, che la mia speranza più grande sarebbe presto diventata quella di rilevare il negozio di paesello di mia zia, avrei risposto con un “noooo, ma stai scherzando?”. Ora quella stessa persona, alla notizia che quella jettatura è divenuta realtà, direbbe “noooo! Ma stai scherzando?”. Strana la vita.
L’unico stimolo ad ogni mia ricerca tra queste disordinate posizioni delle spezie " tali finché non potrò avere campo libero su etichette e classificazioni " è lo spirito che invade gli armadi che li contengono. In questo corridoio, particolarmente stretto, gli scaffali coprono l’intera parete. La loro altezza raggiunge il soffitto, tanto che non riesco a distinguere i pomelli in alto che ne consentono l’apertura, piccoli, tondi e scuri più del legno già cupo delle ante. Solo una lampadina in tutto il corridoio; la sua luce fioca e giallastra t’impone di credere che si trovi lì da molti anni.
Cassettini quadrati ricoprono la parte mediana dell’armadio; a due metri dal basso una lista di legno in rilievo ne interrompe l’ascesa e dà inizio a due file di ante, quadrate anch’esse, lunghe ciascuna quanto quattro dei cassetti sottostanti. Ad un metro e venti circa da terra sporge una sottile e stretta mensolina, che funge da appoggio, e che sovrasta la parte inferiore dell’armadio, composto sempre di cassetti, ma stavolta bassi e lunghi quanto le ante. Questi risultano soprattutto adatti a contenere tele, tovaglie, tessuti: la zia ha compreso il concetto, e li ha riempiti di scampoli di stoffa di ogni tipo, vecchie tovaglie di tela usate, lenzuola perfino; ne ha fatto insomma il suo “baule” di corredi nuziali.
L’intero scaffale da l’impressione di un unico pezzo di legno: il colore è scuro e antico, ricco di righe dell’usura che però non ne hanno scalfito la dignità. Nonostante diverse spezie ne ricolmino gli interni, conserva tutt’ora il suo profumo di legno spesso e forte.
Varcare l’ingresso di questo corridoio cieco, reso cupo dalla sua poca larghezza e dalla vecchia luce, austero dalla parete composita, seria e imponente, mette sempre una certa agitazione. Ti sforzi di non pensarci, ignori la sensazione e fingi indifferenza e coraggio di adulto: ma tutte le volte, il pensiero di restar chiuso tra quelle strettissime pareti per un qualunque motivo sfiora la tua mente e la tua schiena, sovviene la perfida sensazione che qualcuno sia lì con te, anche se sai perfettamente che già un piccolo movimento della coda dell’occhio potrebbe far svanire quell’inganno. Ugualmente eviti di usarla, eviti di guardare, perchè è da stupidi aver paura… e perchè se provassi a guardare, anche una sola volta, avresti dato vita ad una fobia e credito a sensazioni che non ti avrebbero lasciato mai più.
Ricordo uno studio di filosofia al liceo; ero rimasta impressionata per giorni dalla locuzione di Fichte: l’io pone sé stesso. Non riuscivo a trovare la consistenza di queste parole nella vita reale, come invece ero riuscita a fare con altri filosofi. Qualche anno più tardi, improvvisamente, ho interpretato questa locuzione come una realtà continua ed evidente della nostra mente: esiste ciò che per me esiste, cioè solo ciò che io riesco a porre davanti a me stesso.
Non ho mai verificato se fosse realmente questo il senso - spicciolo per la mia comprensione, chiaramente! - dell’ideologia fichtiana, ma certo è una riflessione che da allora mi sono posta molte volte, anche come giustificazione di tanti comportamenti umani. Compresa l’indifferenza verso certe paure: esiste ciò che io penso, e se ignoro la sensazione di avere qualcuno accanto, questo non potrà essere per me un pensiero, una preoccupazione, né dunque una paura.
Nel caso specifico, però, questa ignoranza della sensazione era puramente finzione: io sentivo perfettamente quel brivido, sentivo chiaramente la soggezione di quello spazio e si formavano fugaci e furtive nella mia mente tutte le possibilità più casuali e più orride per cui avrei potuto restare incastrata in quella via. La volontà di non porli oggettivamente davanti al mio raziocinio più conscio era appunto pura volontà: mi costringevo a non vedere, mi costringevo a pensarmi persona adulta… come se le persone adulte non avessero paura! Le parole che tante volte dicono ai più giovani, per apparir forti ai loro occhi, non sono anch’esse spesso finzione?!...
Persa nei miei ragionamenti filosofici, nelle mie riflessioni quotidiane, avevo del tutto scordato la signora Carla ed il suo aneto! Esco dal mio vicolo di spezie e mi volto a sinistra: che strano… Tiro su le sopracciglia accorgendomi che invece del passaggio alla sala del negozio mi trovo di fronte un altro corridoio, senza uscita sul fondo, chiuso a destra dal muro e a sinistra da un altro scaffale, che alto fino al soffitto funge da parete del negozio. Come fossi in uno spazio ulteriore… Da uno spiraglio all’angolo passa un filo di luce, e da questo spessore intravedo la zia, intenta a dare alla cliente la ricetta della sua famosa torta alle noci: non si è ancora accorta del mio infondato ritardo. Contemporaneamente lo sguardo mi cade sul bancone della cassa: il mio barattolo dell’aneto è appoggiato lassù ed una ragazza entra nella sala con in mano il kirsch. Come?! Un’altra aiutante? Guardo le mie mani: vuote…
Non ho il tempo di capire, neppure quello per pensare. Ma resto calma.
Mi sento calma in effetti, come se stessi osservando un fatto conosciuto.
Una musica leggera attira la mia attenzione; dietro di me il corridoio prosegue e volta a destra. Lo percorro, riconoscendo la carta da pareti chiara, tempestata di mazzolini di fiori piccolissimi e chiari anch’essi. La luce ora è splendente, niente più lampadine: è luce di giorno d’estate, che inonda lo spazio, proveniente forse da una grande finestra, forse da una porta.
Stanno cantando un canto alpino: riconosco nel sottofondo musicale il gruppo di ragazzi che un’unica volta ho sentito in università, in quell'università del nord che ho rincorso come un sogno. Sorrido compiaciuta, esattamente come la prima volta: perché è bello sentire dei giovani impegnarsi con garbo in un’arte, e perché è insolito, per i giovani e per il luogo.
In effetti, dalle nostre parti risulta sempre strano pensare che la musica possa rientrare nelle attività culturali universitarie in assoluta naturalezza. Fa sempre un po' “specie” sentir suonare, quasi fossimo in un’epoca in cui, essendo la musica vissuta dai molti solo come momento di svago, non si addice ad un luogo di studio, perchè richiama alla mente solo le sue proprietà ludiche. E pensare invece con quale fatica nel nostro ateneo ci si sforzava di sottolineare proprio le basi culturali della stagione concertistica che veniva proposta. Basi che proprio gli studenti - che non debbono essere disturbati dallo studio! - riconoscevano poco, e seguivano con ancor minore interesse: attività culturali fatte per chi studia, che gli studenti sfuggono.
Un rumore e delle voci mi distraggono dai miei pensieri e attirano la mia attenzione. Il corridoio piega nuovamente a destra, e verso il fondo, sulla sinistra, si apre una porta. Ecco! Ora riconosco il posto: non so come io ci sia finita, ma è la casa in campagna della zia! Di rimpetto a questa sta un’altra porta che dà sul negozio, che da piccola, durante le vacanze estive, saccheggiavo insieme ai miei fratelli. Non vendeva spezie allora, la zia, ma prodotti alimentari e tabacchi, e dei sacchetti di patatine soffiate al formaggio che mi facevano impazzire e per cui impazzisco tuttora " e data la mia linea, l’invocazione della pazzia risulta più che appropriata!
Poso nuovamente lo sguardo sulla porta che si apre, e ne vedo uscire alcuni signori, tutti compiaciuti del gruppo vocale che avevano appena ascoltato. Riconosco in loro alcuni membri di una confraternita religiosa del mio paese. Tra loro c’è anche mastro Tommaso, che per primo mi aveva insegnato a leggere il pentagramma e a solfeggiare quando avevo dieci anni. Abitava di fronte casa mia, ma dava lezioni a me e ad altri due ragazzini in un’auletta della scuola elementare o nella sua falegnameria. Ricordo bene le sue mani callose e grosse, che sulle mie guance morbide e pulite di bambina appoggiavano ruvide carezze di lode per il mio studio e il mio solfeggio perfetto. Pensare come da quei calli io abbia ricevuto il dono più bello di tutta la mia vita, la cosa che da sola, piccola e fragile, ha caratterizzato e segnato la mia intera vita, in ogni sua importante dimensione.
Sorrido a quell’uomo ed anche agli altri signori, che non sembrano meravigliarsi di vedermi là, quasi fossi stata con loro già da prima.
Aprono la porta sul fondo del corridoio, che porta all’esterno della casa, sul cortiletto. Stanno per uscire anche loro, mi sembra, ma esco io per prima, e mi ritrovo uno scenario totalmente diverso da quello che mi aspettavo. Anzi, se devo essere sincera, non mi aspettavo nulla: ho imboccato quel varco di luce di sole, aperta ad ogni possibilità e soluzione, senza curiosità, senza timore. Potrei dire “apatica”, ma dovrei dire invece serena.
La scena cambia davvero enormemente: via S. Agnese a Milano. Esco da una porta che non esiste, appena prima dell’angolo con la rotonda di piazza S. Ambrogio: a sinistra l’università, di fronte la basilica con i suoi splendidi campanili illuminati.
È sera, l’aria freddina e umida; un leggero velo di foschia evapora ed espande la luce dei lampioni. Realizzo appena dove sono atterrata; volto indietro la testa e lo sguardo: la porta è ancora lì, aperta, anche se non riesco più a vederla. Ma vedo chiaramente la luce del suo interno uscire sul marciapiede: che strano, sembrava proprio che stessero uscendo, sembrava fossero appena dietro di me…
Guardo nuovamente la piazza e sulla destra ritrovo la fermata del bus. Con le mani stringo le braccia, il viso si volge a terra ma in avanti, e cammino verso il cartello della fermata: il moto di tutto il corpo è provocato da un misto di rassegnazione e consapevolezza. Questa volta non è la serenità che ne investe le fibre, ma un sentimento che con una parola non saprei descrivere. È il sentimento di chi accoglie qualcosa come inevitabile, una scelta che non reca in sé la libertà della non scelta. Un po’ come se potessimo essere coscienti dell’esatto momento in cui cresciamo, in cui facciamo il nostro primo decisivo passo verso il divenire adulti, abbandonando quell’adolescenza pungente e sofferta da cui, paradossalmente, non vorremmo mai separarci: un passo che occorre fare per non star peggio di quanto staresti se non lo facessi, e che reca con sé in maniera tangibile il peso della sua inevitabilità e incontrovertibilità.
Mi stringo tra le braccia perchè sento il freddo: è una tipica giornata di primo autunno, che arriva gelida sulla pelle di chi gustava ancora l’estate e non era stato preparato adeguatamente a vivere il freddo.
Ma niente di troppo grave: dopo tutto, non ero lì in pareo da spiaggia. I miei pantaloni e la camicia a maniche lunghe erano leggeri per quella serata, e per una freddolosa quale sono, ma non erano troppo inadeguati. Sarebbe stata sufficiente una giacca e un bel foulard al collo: “Li comprerò qui. Domani”, il mio semplice pensiero. Ma poteva andar bene. Un pantalone e una camicia non sono così poco. Per cominciare…»
E poi mi sono svegliata.
La notte io non sogno: ho allucinazioni.
Vedo mondi paralleli intersecarsi su porte impensate; vivo situazioni strane, prive della lucida logica e del sentimento diurni, o sovversivi specchi di questi. Fortunatamente.
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0 recensioni:
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- L'aneto è una pianta.
- Scrittura raffinata, scorrevole, mai banale. Aspetto con ansia di poter leggere altri toui racconti. Davvero brava.
- Grazie per i vostri commenti. Il racconto è metafora di emozioni differenti e confuse, di chi non sa bene cosa attendere, ma che spera in un futuro.
Non ho capito la battuta sull'aneto... magari perchè non conosco "Il profumo"... Spiegami.
- Sarebbe perfetto come cortometraggio Suskiindiano (vedi "IL PROFUMO), ma è impregnato da quest'erba che non ho capito se è Aneto o Comerci!?
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