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Asylum
Respiro. Respiro pesante tra l'acciaio e l'odore di disinfettante, di quelli che danno il voltastomaco.
Un respiro, insieme ad altri mille lì dentro, densi di pensieri e di parole che non possono essere dette, di quelli che farebbero impazzire chiunque, anche un matto. Il consueto cigolio, poi la luce, che abbaglia, che per quanto tu possa tentare di allontanare, penetra anche tra le dita, disperate, che coprono gli occhi. Ma lei avanza, senza pietà, e colpisce. Ormai non porta con sé neanche più speranza. Colpisce.
Ti costringe ad abituarti a lei, ti seduce, ti forza ad alzarti, e tu la segui, cadi nel tranello, ogni singola volta, due o tre al giorno, anche quattro se va male. Tu la segui e lei fugge. Hai imparato a tacere se non sei pazzo davvero, ed il più delle volte è così, e almeno ti eviti le botte, ma le corde, quelle non perdonano mai.
Graffiano, lacerano, scavano, sembrano non averne mai abbastanza, e per quanto tu possa essere forte, per quanto tu possa tentare di resistere, le mani cedono e le lacrime affiorano perché nessuno potrebbe mai resistere ad un simile dolore. E col tempo, col tempo impari a trattenere le grida che sembrano volerti strappare fuori intenzionalmente, impari a trattenerle per risparmiarti altro dolore.
Poi rantoli nel nulla, tra quelle pareti bianche come il vuoto che riflettono i neon altrettanto bianchi, che ti pungono gli occhi come aghi e ti concedono una visione della realtà che ti circonda solo parziale, annebbiata, ma tu non vuoi chiuderli, perché ti aggrappi a quel poco che ti viene concesso. È uno sforzo terribile, costringi la mente a rielaborare ed interpretare ciò che la vista sola non è capace di definire.
Figure in movimento, vaghe ombre, muro, dolore. Buio. Ombre. Figure in movimento, muro, dolore. Buio. Una porta. E ogni giorno, ogni santo giorno in più che ti viene inflitto, ti chiedi se sarai mai pronto per quella porta.
-Anni?-
-Non ricordo. Circa quaranta.-
-Anni dall'isolamento?-
-Non ricordo.-
-Motivo dell'isolamento?-
Questa era sempre la migliore. Silenzio. Il dottore che stava seduto di fronte a lui prese appunti su un'agenda sussurrando tra sé e sé, ben consapevole di essere udito.
-Il soggetto continua a non rispondere alla domanda numero tre.- l'uomo piantò i suoi minuscoli occhi neri nei suoi, con la sicurezza che si può permettere uno nelle sue condizioni. Si alzò in piedi e gli si avvicinò, aggirando la scrivania.
-Tu sei un soggetto interessante...-
Dolore alla mano, intenso, pungente. Un sussulto fu la sua unica manifestazione.
-Non reagisce alle sollecitazioni forzate esterne!- esclamò, allungandosi sulla scrivania per annotare la sua scoperta sul blocchetto.
Un leggero rivolo di sangue colò dal dorso della mano. Uno spillo sporgeva di qualche centimetro dalla ferita. Lo osservò con sguardo assente ed il dottore non mancò di notare anche questo particolare.
-Mancata percezione dell'origine dello stimolo.- sussurrò con soddisfazione.
Ancora dolore, questa volta più intenso, all'altra mano. Strinse i muscoli, e sentì l'acciaio trattenerlo.
-Ora devi fare un esercizio- disse l'uomo minuto, scandendo bene le sillabe, come quando si parla ad un bambino.
-Devi solo dire da dove senti che proviene il dolore, se da destra o da sinistra. È semplice, va bene?- Il fatto era che le persone era lì dentro che impazzivano.
Dei nostri giorni più felici ricordavo il profumo dei fogli e dell'inchiostro. Quelli che Ben lasciava sparsi sulla scrivania, e che venivano sparpagliati ovunque dal vento mite dell'oceano. L'aria entrava dalle finestre, sempre aperte d'estate, e si diffondeva in tutta casa, spargendo quell'odore che solo lui sapeva riconoscere.
Ben adorava scrivere così, lasciando alla brezza che odorava di salsedine il privilegio di sollecitare la sua mano, e muoverla sulle pagine dei suoi libri, un onore che aveva concesso anche al mio amore per lui. E io, lo avevo preso come un dovere, e mi impegnavo costantemente a spremerlo fino alla polpa, come un frutto maturo, senza il timore che si consumasse, perché attingevo direttamente alla mia vita per nutrirlo. Quella vita che Ben rinnovava in me costantemente.
Questo ricordavo, il resto era conservato gelosamente nella mia testa, racchiuso in bollicine dorate che osavano riaffiorare sull'oceano profondo della mia memoria solo in rari momenti, quelli in cui riuscivo a non sentire null'altro che me stesso. Se ancora esistevo.
La mensa comune era un tripudio di versi più che di voci. Grida grottesche e sussurri sinistri, tutti originati da corpi umani governati solo da pensieri deviati e sconosciuti, che i dottori, lì dentro, cercavano di spiegare. Menti alienate dalla loro carnalità, fuggite chissà dove, che i dottori tentavano di recuperare, senza mai comprendere che spesso erano stati loro stessi a spaventarle, a mortificarle a tal punto da costringerle all'oblio. Lui si muoveva quasi con disinvoltura, senza sentirsi parte di quel complesso animalesco, ignorando gli sguardi cinici e freddi delle guardie, pronte a fustigare pietosamente chiunque volessero, per qualsiasi motivo. -Sai? L'altra sera lei mi ha parlato...- Gli disse un vecchio su una sedia a rotelle vedendolo passare. Si limitò a sorridere e proseguire. Jhon spesso era convinto di sentire delle voci angeliche che gli parlavano, o forse le sentiva davvero: prescelto da messaggeri divini per fare da tramite tra cielo e terra. Beh, se mai si fossero presentati a lui, c'erano parecchie cose che aveva da dir loro. Si mise ordinatamente in fila attendendo il proprio turno. Davanti a lui un giovane poco più che ventenne fu costretto in ginocchio a furia di randellate e trascinato via di peso. Dietro di
sé lasciava solo i rimasugli della zuppa colata dalla ciotola che ancora teneva stretta in una mano. Bastava un errore, bastava un movimento sbagliato, una parola fuori luogo, tutti gesti involontari, spontanei, partoriti da menti che non avevano più il controllo di sé stesse. Bastava un errore, bastava un movimento sbagliato, una parola fuori luogo e lì dentro non ti si vedeva più.
La notte calava silenziosa, fin troppo rapidamente, e non potevi trovarvi rifugio in essa perché i sussurri non tacciono mai, e non mentono. Sono eterni portatrici di verità, e la tortura più difficile da sopportare, quella che ti spiana il cammino verso il nulla. Una notte senza luna, una notte senza neon, in cui non è il buio a far paura.
Una notte improvvisa, che arriva quando meno te lo aspetti. I neon lampeggiano e un cupo rintocco ordina di subire. Chiudi gli occhi, ci provi, ma mai come in quel momento desideri di poter chiudere le orecchie. Quelle voci, sussurri nella notte, sinistri ambasciatori di verità, che si autoincaricano di raccontare la vera storia delle persone rinchiuse lì dentro. La notte non ci sono più versi, niente più parole confuse e incomprensibili senza senso. Solo storie. Tutte vere, perché sono loro stesse a ricordarle e a raccontarle, ad infliggerle a chi come loro le sta infliggendo ad altri. Un inquietante gioco masochista, uno scambio di torture. Lui non ricordava di aver mai parlato nella notte, ma ricordava di aver sentito.
Grace era madre di due bambini stupendi e insegnante. Una delle poche ad aver mantenuto il proprio ruolo dopo l'inizio del regime. La riforma scolastica, insieme a tutte le altre, era calata come un machete, dall'alto e aveva mozzato la libertà di pensiero e di espressione con inaudita violenza.
Tutto era apparentemente e pericolosamente più semplice, bastava ripetere ciò che le veniva detto di dire.
È incredibile osservare come i bambini siano vulnerabili al cambiamento. Come i bambini siano predisposti al cambiamento, come lo accettino senza fiatare. Ascoltano, annuiscono ed eseguono. Questo lei non poteva accettarlo, non poteva parlare davanti ad una classe di marionette vestite tutte uguali, convinte da voci autoritarie di essere tutte uguali, non poteva immaginare i propri figli seduti tra di loro, tutti uguali, ripetere a memoria poesie tutte uguali, non appartenenti alla letteratura di quel paese, pezzi riadattati e modificati. Parola incastrate in mezzo a versi che non sono i loro, versi che se hai imparato ad ascoltare attentamente cercano la tua attenzione e ti parlano, ti dicono chiaramente di sentirsi defraudati, urlano la propria indignazione.
All'inizio non aveva creduto che un popolo intero potesse essere sottomesso con tale facilità, e si era sentita solo un po' più stretta ma aveva continuato per la sua strada. Ricordava gli occhi di molti suoi colleghi, che la guardavano con un misto tra terrore e ammirazione. Possibile che solo lei trovasse nell'amore per la libertà quel coraggio per combattere?
La paura arrivò quando aprì l'istituto per la Riabilitazione Mentale, e quando comprese che nessuno che vi entrava, usciva più. Allora capì che non c'era speranza, che era troppo
tardi, che la gente, una volta conquistati i propri diritti, smette di combattere e si dimentica che vanno mantenuti. È facile, fin troppo facile portarglieli via.
Non aveva neanche pensato, neanche avuto il tempo di salutare i suoi due bambini, suo marito. L'avevano presa e portata via e rubato la sua vita per prima. La sua mente poi.
La porta era davanti a lui, si ergeva vaga, con il suo profilo scuro e ondeggiante. Gli occhi erano velati di lacrime, protestavano per la troppa luce. Un voce giunse dall'altra parte. -Soggetto numero sette.- Due mani lo spinsero con uno strattone e il baratro si spalancò. Fu costretto a serrare le palpebre per non rimanere cieco. Quando le riaprì si trovò incatenato alla solita poltrona, lo stesso uomo, l'unico, oltre le guardie, che aveva una parvenza reale in quel posto, lo guardava dall'alto al basso, avvolto nel suo camice bianco.
-Anni?-
-Non ricordo. Circa quaranta.-
-Anni dall'isolamento?- -Non ricordo.-
-Motivo dell'isolamento?-
Ogni volta che sentiva quelle parole, una sola, era la certezza, forse l'unica che ricordasse di avere. Che mai avrebbe detto la verità: perché la sua, non esisteva. E allora erano due, le opzioni. O si chiudeva in un mutismo significativo, che racchiudeva tutta la sua disapprovazione, la sua rabbia e la frustrazione, che era persino finito per dimenticare, come qualsiasi altro sentimento, o apriva bocca, e manifestava apertamente l'idiozia del sistema che lo aveva scartato, che aveva deciso e definito la sua diversità e lo aveva dunque condannato ad un supplizio duraturo. Fino a quel momento, l'unica scelta che aveva compiuto, era la prima, non che non avesse trovato il coraggio di parlare, il fatto era che nella sua sopravvivenza, che richiedeva come unica strada il doloroso silenzio, era insita una protesta fertile, che man mano, aveva maturato in lui una consapevolezza. Quella che, l'unica strada per la dolce morte, era l'accondiscendenza.
-Il soggetto continua a non rispondere alla domanda numero tre.- asserì il medico.
L'uomo si tolse gli occhiali e si massaggiò le tempie con gesti teatrali, poi sbuffò.
-Come dobbiamo fare con te...- disse.
-Modulo cinque.- e immediatamente un alto fascicolo fu posizionato sotto il suo sguardo. Fece una smorfia di disapprovazione, e poi, la sua espressione si rassegnò, espirò profondamente.
-Questa è la tua occasione per chiudere questa storia definitivamente. Non dovrai fare altro che ripetere ciò che sta scritto qui.- biasciò facendogli scorrere sotto gli occhi un foglio.
-Ti basterà fare questo, per mettere fine alle tue sofferenze.- l'uomo, bloccato sulla sedia, lesse rapidamente le poche righe che gli venivano spacciate come la salvezza e tentennò. Eccola la strada, eccola, l'unica via possibile. E così, alla fine, anche lui avrebbe dovuto cedere, egoisticamente. Senza concedere alla propria mente il tempo di elaborare, ed esprimere il proprio rifiuto, accettò.
Il dottore parve rilassarsi, lo guardò per un'istante e poi gli posò nuovamente il pezzo di carta bianca davanti e gli spiegò che avrebbe solo dovuto leggere a voce alta e sicura quel piccolo pezzo. Semplice, veloce, falso.
Come un cupo rintocco il gracchio del registratore che si metteva in moto sembrò dilatare il tempo, quasi bloccarlo.
-Il mio nome è Josh Solitude, sono stato ricoverato all'istituto per la Riabilitazione Mentale tredici anni or sono. Ho vissuto la mia vita nella menzogna e nel tradimento della mia stessa nazione, disobbedendo a quei valori che la glorificano ogni Santo giorno. È davanti a Dio, prima che davanti a me stesso e al mio stato, che io devo inginocchiarmi, e chiedere perdono per il mio peccato. Ho amato una persona uguale a me, per anni, profanando la mia carne e la sua, più volte, deviato da una passione non spontanea, indotta dalla mia natura malata, mi sono lasciato travolgere da sentimenti innaturali, che vanno contro la stessa definizione di uomo. Per questo io devo fare ammenda, devo ringraziare i miei dottori, che mi hanno guarito. È grazie a loro, che riconosco solo ora l'insensatezza della mia esistenza, e chiedo la giusta morte come assoluzione dalla bestemmia.-
Fu mentre le lacrime cadevano, mentre combatteva contro la sua mente che si rifiutava di far muovere la lingua, per cantilenare quelle parole, assurdo requiem di liberazione, che sentì un ago sottile come uno spillo infilarsi nella carne, sul collo, e tutto ciò che gli stava intorno, cominciò a sfumare. Ecco dunque la sua fine, negazione ed insieme glorificazione della sua vita. Una morte disonesta, solo per guadagnare finalmente, di nuovo, la libertà.
E solo in quel momento, ricordò, improvvisamente, tutto l'amore che aveva provato.
Non mi interessava più nulla di ciò che stava fuori, l'unica cosa che aveva importanza eravamo io e Ben, la nostra casa nascosta sull'oceano, quel piccolo mondo che ci eravamo guadagnati a costo di tanto amore e tanto disprezzo. Quando infine ci trovarono, non ebbi neanche il tempo di dirgli un'ultima volta quelle parole che ci avevano permesso di proteggerci l'un l'altro.
Il cielo sul mare non era mai stato tanto buio come quel giorno. Ricordo i miei capelli bagnati, che gocciolavano sul parquet, e le mie lacrime. Ben cercava di difendermi, di tenerli lontani, ma io sapevo già in quel momento, che era tutto finito. Non mossi un muscolo quando lo colpirono. Dentro di me il cuore smise di battere quando il sangue si mischiò all'acqua salmastra sul pavimento, imbrattando quello che era stato il nostro riparo. Fuori cominciò a piovere, quando fui trascinato via, senza protestare, perché tutto aveva perso il suo senso pochi minuti prima, se n'era andato insieme a Ben, in un posto che probabilmente, non avrei mai raggiunto.
Già in quel momento, dimostrarono la loro forza. Come può l'uomo sopravvivere, quando persino l'amore viene spezzato dalla sua cattiveria? E di noi due, non resta altro che i suoi fogli, sparsi sul mare dal vento che entra dalle finestre, ed esce dalle porte, lasciate spalancate così, in attesa che qualcuno torni a chiuderle. Ora galleggiano così, privi più di una forma, l'inchiostro perde la presa sulla carta, e si diluisce con il sale, in cerca di una nuova superficie su cui attecchire. In cerca di qualcuno che sia interessato a coglierle.
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